Dopo oltre dieci anni di onorato servizio l’Associazione Landscapefor evolve in Fondazione e si iscrive nel Registro Unico del Terzo Settore (RUNTS). E’ l’occasione per una riflessione sulle tappe percorse e sulle rotte da intraprendere.
Nata per fornire servizi all’affinamento delle conoscenze, delle competenze e delle curiosità sul territorio e le sue culture, Landscapefor ha registrato in questi anni un cambiamento progressivo del pubblico di riferimento. Si era immaginato come target il turista culturale, lo studente che esplora il proprio territorio, il ghiotto di storie e prelibatezze locali. Ci siamo proposti di accompagnare competenze fondate, e invece abbiamo incontrato sempre più spesso una domanda di sapere di base, non strutturata, necessitante di una formazione elementare e di strumenti semplici e accattivanti per esplorare anche solo i luoghi che abita.
È una situazione che ormai riscontrano tutti i soggetti impegnati, istituzionalmente o meno, nella ricerca e nella diffusione culturale: sono cambiati i media, i linguaggi, il senso stesso della comunicazione.
Il tradizionale patto alla base dello scambio culturale, fondato sull’accumulo del sapere e la memoria condivisa, è tacitamente scaduto, e i valori passano per altre vie, con metafore e percorsi mentali più direttamente a contatto con le emozioni e le intuizioni e meno riconducibili a conoscenze o esperienze comuni.
La nuova domanda di sapere non solo è destrutturata rispetto alle modalità istituzionali di formazione scolastica, ma sempre più si estende per frammenti, in modo personalizzato e nell’intero arco della vita.
Si va delineando una trasformazione strutturale del modo e dei contenuti della comunicazione culturale, che comporta una revisione importante dell’approccio di quasi tutte le istituzioni che da secoli presiedono alla cultura, a partire dalle università. Non per caso dovunque sta emergendo l’urgenza di un’attenzione sinora trascurata nel confronto delle “terze missioni” divulgative delle ricerche e degli archivi del sapere che si accompagnano ormai istituzionalmente con le prime due missioni (la formazione e la ricerca).
Le università si stanno accorgendo che la produzione interna di conoscenza (in particolare scientifica) è premiata se è specialistica ed è trascurata se è transdisciplinare, e che si è tracciato per le nuove generazioni di docenti e ricercatori un binario che porta in direzione opposta alla domanda di sapere più diffusa, sempre più semplificata, sintetica, contraddittoriamente frammentaria ma olistica.
Si richiedono sin da ora investimenti in competenze e attrezzature predisposte per la divulgazione. In prospettiva si intravede per l'Università l’importanza di una nuova strategia di ricerca e sperimentazione di linguaggi e modalità comunicative adatte alle nuove domande, i cui risultati dovranno riformare anche le prestazioni delle prime due missioni.
Si delinea così una visione in cui Fondazione Landscapefor si trova in prima linea sul fronte di un cambiamento epocale della comunicazione e della cultura, che sta coinvolgendo intere generazioni, e produrrà un nuovo modo di essere non solo abitanti o turisti, ma anche ricercatori e docenti.
Tutti concordano che la nuova comunicazione deve appoggiarsi ad aspetti di cui si ha esperienza diretta.
Capisaldi dell’esperienza diretta sono noi stessi (il nostro corpo e la mente) e il territorio che abitiamo. Lasciando ad altri gli infiniti racconti delle innovazioni che riguardano il corpo e la mente, c’è molto da raccontare sul territorio: dalle ricadute degli attuali trend di cambiamento globale o delle innovazioni organizzative, produttive, dei servizi, al riconoscimento dei valori del paesaggio che si abita o si visita, dai molteplici sguardi degli artisti alle reti di iniziative per la valorizzazione delle risorse locali.
Proprio per questi fini da anni Fondazione Landscapefor ha messo a punto Atlasfor, un atlante multimediale che consente da una parte di ordinare in modo aperto e facilmente operabile grandi quantità di immagini e video georeferenziate, e dall’altra di organizzarle in forma di racconto dei luoghi e delle attività. E’ uno strumento facile da usare, continuamente aggiornabile e immediatamente fruibile in rete, con il grado di approfondimento desiderato, proponendosi come innovativo servizio di divulgazione culturale.
Atlasfor, che si accredita anche come rivista ISSN, viene messo a disposizione delle università e dei centri di ricerca o di archiviazione come un laboratorio immediatamente aperto alle sperimentazioni più diverse, nella prospettiva di un utilizzo sistematico per la rendicontazione e la divulgazione delle produzioni culturali. A ciascuno dei soggetti che vogliano utilizzarlo può essere riservata una “stanza” dell’Atlante, in cui mettere a punto il linguaggio e il modo di raccontare la propria ricerca, accompagnato o meno dai nostri redattori e pubblicando o meno quanto elaborato.
Nel 2024 contiamo di aprire, con apposite convenzioni, rapporti sistematici con le università di Torino, Genova, Padova, Camerino.
Da un’idea di ordinamento e pubblicazione che Gambino aveva impostato con Castelnovi prima di mancare con il Dossier si intende affrontare un lavoro complesso, che attende ancora una sistematica curatela, ma che comunque è importante anticipare con i contributi ancora ”caldi”, da considerare sul tavolo dei piani e dei progetti in corso.
Una prima antologia è uscita, curata e introdotta da Castelnovi per Editrice Bibliografica col titolo Abitare bene il mondo: un progetto culturale. Interventi di Roberto Gambino.
Il libro, con l’indice inserito in questo dossier, individua tra grandi settori tematici che caratterizzano tre periodi di avanzamento di un pensiero complessivamente olistico e integrato: riferiti alla storia, all’ambiente naturale, al paesaggio.
Il dossier riprende la stessa ripartizione complessiva, con una ulteriore scelta di interventi a cui appena possibile si accompagneranno abstract e traduzioni e, successivamente, le altre selezioni per completare progressivamente la pubblicazione di tutto il materiale ordinato, per passare, appena si sarà in grado, ad una presentazione dei piani (nelle loro parti ancor oggi di interesse), adeguatamente collocati anche su Atlasfor.
Sono inseriti, oltre all’indice del libro, :
Per il settore Storia:
1 Relazione di apertura del convegno a Gubbio per i 50 anni di ANCSA (1960 – 2010)
2 La dimensione contemporanea del territorio storico, in AAVV Progetto Mestieri reali 2010
Per il settore Ambiente:
Ascoli Piceno, 2011
Per il settore Paesaggio
Intervento a convegno OLBIA 2009
Quand’è stata l’ultima volta che hai bevuto a una fontanella in ghisa verde, con una mano sulle corna e l’altra a cucchiaio sotto il naso? Sì, stiamo parlando dei TORET, le oltre 800 fontanelle con la testa di toro che da 150 anni distribuiscono acqua pubblica e in questi giorni di contenimento, zampillano solitari nelle strade, nelle piazze, nei parchi e lungo i viali silenziosi e deserti.
I torinesi li amano da sempre e da qualche anno li mappano, li adottano, li fotografano, contano le bevute fatte… AtlasFor li propone come pretesto per un gioco che porta a spasso per la città.
Un piccolo GRAN TO(U)R ET in dieci tappe che ripercorre la storia di Torino, alla scoperta di segreti e curiosità. Cerca un Toret su Atlasfor ed esplora il punto di interesse che lo custodisce: sarà lui a dirti quali indizi cercare nel racconto figurato di quel punto per portarti al toret successivo.
DIECI PICCOLI TORI
Gli anfitrioni del nostro gioco sono loro: dieci guardiani in ghisa verde, ciascuno nei pressi di un luogo. Entrando in AtlasFor con un indizio iniziale e tanti suggerimenti sparsi, dovrai TROVARLI TUTTI e scoprire i luoghi dove abitano. Ogni torello ti indicherà dove guardare per raggiungere un fratello nel luogo successivo. È un girotondo di fontanelle, dove puoi entrare da qualunque punto e riconoscere gli altri seguendo passo passo gli indizi sparsi nel racconto di ciascun luogo.
C’È POSTA PER TE
Ovviamente non puoi correre in strada a cercare gli indizi intorno alle fontanelle… per ora. Devi arrangiarti a trovarli su una mappa. Quella del To(u)ret è AtlasFor, Atlante del Patrimonio Culturale e del Paesaggio Attivo: https://atlas.landscapefor.eu
La puoi trovare aprendo ESPLORA ATLASFOR e cliccando su Gioca con AtlasFor (LINK ARCHIVIO).
Per aiutarti a entrare in gioco, nei primi giorni seguici sui profili social FACEBOOK www.facebook.com/landscapefor e INSTAGRAM www.instagram.com/atlasfor_
Sono in arrivo CARTOLINE! Ciascuna ti dà tracce per capire dove si nasconde uno dei torelli: se riesci a capire da dove arrivano le cartoline, avrai indizi in più per entrare nel girotondo di fontanelle e trovare i luoghi dove si nascondono i Toret.
IL TOUR SULL’ATLANTE
Come si gioca? Entra nell’archivio di Atlasfor dedicato ai giochi Gioca con AtlasFor (LINK) e comincia la tua ricerca, viaggiando sulla mappa da un luogo di Torino al successivo. Ti può aiutare tener conto degli indizi suggeriti dalle cartoline su Facebook.
Scegli tra le icone che popolano la mappa: cliccando su ciascuna si aprirà una SCHEDA con la descrizione del punto di interesse (POI). Quando trovi il luogo (POI) indicato dall’indovinello – o uno di quelli indicati dalle CARTOLINE – apri la sua scheda. Se sei nel luogo giusto, nel capitolo delle NEWS troverai immediatamente un Toret! Apri la News del Toret: un indizio ti indicherà quale elemento della scheda (MEDIA) andare a cercare. Individuato il MEDIA, leggendo attentamente troverai il rimando al luogo del Toret successivo. E così via da un luogo all’altro fino a chiudere l’anello dei dieci Toret!
UN ESEMPIO FACILE FACILE
Se ti dico che “il primo torello, causa contenimento, sonnecchia sul divano nel ‘salotto’ di Torino”… Capisci al volo che sta in piazza San Carlo! Apri la scheda Atlasfor della piazza ed ecco il Toret nelle News:
Leggi il testo della News: ti invita a “prendere i quattro angoli della piazza come un lenzuolo”.
Per capire di cosa si tratta va esplorata la scheda: al capitolo PARTICOLARI trovi un MEDIA che ti dice qualcosa: ma certo, il lenzuolo è la Sindone! Che infatti è raffigurata agli angoli della piazza.
Nel testo del MEDIA che accompagna l’immagine trovi il rinvio ad un luogo: il DUOMO
È nella scheda di quel POI (al Duomo) che troverai il prossimo Toret, con un altro indizio, che rinvia a un altro MEDIA, e da quello l’indicazione per muoversi verso un nuovo Toret.
ATTENZIONE, questo è solo un esempio! Non lo troverai nel gioco del TOURET
GIOCA E VINCI!
Vince chi trova tutti i Toret nei dieci luoghi del Gran To(u)ret. Li hai trovati tutti? Scrivi a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. elencando i dieci luoghi. In palio, per i primi tre che scriveranno la soluzione esatta, riproduzioni di opere di Carlotta Castelnovi per Landscapefor:
1° PREMIO: due stampe di“Paesaggio dentro paesaggio fuori” e “Il Paesaggio che spettacolo”
2° PREMIO: una stampa di “Paesaggio dentro paesaggio fuori”
3° PREMIO: una stampa di “Il Paesaggio che spettacolo”
Paesaggio dentro paesaggio fuori
Il Paesaggio che spettacolo
Ti aspettiamo su FACEBOOK www.facebook.com/landscapefor e INSTAGRAM www.instagram.com/atlasfor_ con le prime CARTOLINE!
In questi giorni in cui fare la spesa è piacere dolceamaro che profuma di libertà perduta, ci si adatta a quel che si trova nel più vicino supermercato o nei carrelli virtuali della spesa on line. Ma “appena si potrà uscire…” vogliamo una spesa da gourmet per una ricetta antica e golosa: UN BONÈT!
Quel fantastico dolce al cucchiaio tipicamente piemontese – che si offende mortalmente a sentirsi chiamare budino – la cui ricetta appartiene alla categoria dei “segreti della casa” che ogni mamma, nonna, zia custodisce gelosamente. L’interpretazione del nome è ancora incerta, ma sembra sicuramente derivare da bonèt, che nel vocabolario piemontese indica un cappello tondeggiante. In senso fisico secondo alcuni: rimanda alla forma dello stampo in rame in cui veniva preparato. Metaforico secondo altri: servito a fine pasto come “cappello” a quanto mangiato.
Da questo sogno a occhi aperti nasce l’idea di un gioco nella forma della Caccia al tesoro, dove la MAPPA è quella di AtlasFor, gli INDIZI sono gli ingredienti dell’antica ricetta, il PREMIO è un baule di opere d’arte dedicate al Paesaggio. Anche se il TESORO più prezioso è il viaggio virtuale alla (ri)scoperta del centro di Torino, alla maniera di AtlasFor, #oltrequellochevedi.
LA VERA RICETTA
Pare che l’antenato del Bonèt sia nato tra Langhe Monferrato intorno al XIII secolo, con una ricetta più semplice rispetto a quella moderna, soprattutto senza cacao. Questa versione bianca “alla monferrina” è un dolce preparato con latte, uova, amaretti e zucchero. Intorno al XVIII secolo, con l’evolversi dei gusti e l’arrivo di nuovi prodotti da oltreoceano, la ricetta del bonèt si arricchisce a Torino di rum e cacao e prende forma la versione codificata con l’etichetta di PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale).
IL BIGLIETTO DELLA BISNONNA
La mia bisnonna andava a scegliersi gli ingredienti con cura, ciascuno in un luogo specifico, nelle botteghe della vecchia Torino e nelle bancarelle dei mercati dove arrivavano i prodotti più freschi.
Nel suo vecchio libro di ricette ho trovato un mezzo biglietto. I nomi dei luoghi dove comprava gli ingredienti del Bonèt sono riamasti nella metà del biglietto mancante…
Mi aiutate a completarlo?
Non potendo girare per le strade cerchiamo su una mappa. La mappa del nostro dolce tesoro è AtlasFor, Atlante del Patrimonio Culturale e del Paesaggio Attivo. Esplorandolo si può ricostruire il percorso della bisnonna, si scoprono molte cose su Torino e si capisce anche come partecipare ad arricchirlo, che forse è un gioco ancora più divertente.
COME SI GIOCA – REGOLAMENTO
I FANTASTICI PREMI IN PALIO!
Per i vincitori tre opere dell’artista Carlotta Castelnovi che portano il Paesaggio a casa tua.
1° PREMIO BONÈT: due stampe delle opere “Paesaggio dentro paesaggio fuori” e “Il Paesaggio che spettacolo”
2° PREMIO BONÈT: una stampa dell’opera “Paesaggio dentro paesaggio fuori”
3° PREMIO BONÈT: una stampa dell’opera “Il Paesaggio che spettacolo”
PREMIO CHAPEAU! Ai TRE migliori contributi: una stampa dell’opera “Tutti pazzi per il Paesaggio”
Paesaggio dentro paesaggio fuori
Il Paesaggio che spettacolo
Tutti pazzi per il Paesaggio
UN BEL GIOCO DURA…
Quanto vogliamo! Ovviamente i primi tre vincitori del premio BONÈT segneranno il tempo e, quando li avremo tutti, saranno celebrati sul podio di AtlasFor. Per il PREMIO CHAPEAU la scadenza resta aperta fino al 1° maggio.
SEGUICI PER SCOPRIRE TUTTI GLI INDIZI
I nostri canali social sono il punto di partenza della caccia: non perderti i post con gli ingredienti/indizi del Bonèt della bisnonna…
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PRONTI? SI PARTE!
Ricapitolando… Osserva bene testo e immagine di ogni indizio.
Poi entra in AtlasFor ed esplora la mappa. Tra le tante icone che vedi, cerca il luogo dove la bisnonna comprava gli INGREDIENTI per fare il Bonèt.
Clicca sull’icona e su SCOPRI, leggi la scheda, esplora i vari capitoli e trova la notizia suggerita dall’indizio. Non la trovi? Prova con altri icone, luoghi e capitoli!
Quando pensi di aver individuato la notizia giusta SCARICA LA FOTO della notizia (salvala, fotografala, come ti viene meglio) e conservala! La dovrai inviare a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. insieme alle altre (6 in tutto) relative agli altri ingredienti.
PRIMO INDIZO – Il latte migliore è sotto i portici: tra i caffè storici e le pasticcerie, frequentati nei secoli da politici e letterati, c’era anche un “marghé”.
DOMANI IL PROSSIMO INDIZIO!
SECONDO INDIZIO – Le uova di cascina le trovi all’antico Mercato delle erbe. “Che siano fresche, mi raccomando!”. Altrimenti la bisnonna era capace di mandare in bancarotta il commerciante… e una volta la punizione era esemplare.
TERZO INDIZIO – L’arte dei biscotti è tradizione torinese, ma la bisnonna li prendeva in un bar dall’aspetto… grottesco, che non esiste più, se non nei ricordi di Primo Levi. Ne troverai il racconto nel tratto più antico della via “capitale”.
DOMANI IL PROSSIMO INDIZIO!
Nell’attesa comincia a pensare se possiedi dei contenuti speciali su quel luogo (foto, video, cartoline, documenti) e conservali per partecipare al premio extra Chapeau!
QUARTO INDIZIO – La bisnonna lo usava anche nella salsa di pomodoro, per correggerne l’acidità. Accanto all’Antica Tettoia dell’Orologio troverai sia lo zucchero che… il re dei pelati!
DOMANI IL PENULTIMO INDIZIO!
Nell’attesa comincia a pensare se possiedi dei contenuti speciali su quel luogo (foto, video, cartoline, documenti) e conservali per partecipare al premio extra Chapeau!
QUINTO INDIZIO – Vai là dove un tempo c’era il mercato del vino. Sotto i francesi divenne “Place de la Liberté” e molti persero la testa, non certo perché ubriachi!
SESTO E ULTIMO INDIZIO – Nel borgo operaio a nord ovest del centro storico, la bisnonna andava direttamente alla fabbrica del Willy Wonka torinese, perché si fidava soltanto dei due vecchietti.
Le istruzioni ormai le conosci. Quando hai raccolto LE 6 IMMAGINI soluzione mandale a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. insieme all’ELENCO DEI LUOGHI DA CUI LE HAI PRESE.
I primi tre vincono i PREMI BONÈT!
Se aggiungi qualche tuo contenuto speciale sui luoghi che hai incontrato (foto, video, cartoline, documenti) partecipi anche al premio extra CHAPEAU!
Una vetrina per il patrimonio online di musei e centri culturali
La magnifica prova che musei e centri culturali italiani stanno dando, mettendo on line molti materiali
interessanti, non deve far perdere di vista la radice di territorio, i legami con le città, le reti di sapere di cui
ogni centro, ogni attività è nodo.
Per questo Atlasfor si offre per mostrare l’effetto d’insieme, di sistema complessivo, che moltissimi musei e
centri culturali italiani offrono sul web in questi giorni.
È particolarmente importante mettere in luce il diffuso lavorio, l’azione locale piccola ma preziosa, accanto
a quella del grande Museo, che anima la vetrina del grande patrimonio nazionale curato ed esposto anche
in un’occasione vincolata come questa.
Quindi su Atlasfor, che sta ospitando un progetto di Atlante del Patrimonio e del Paesaggio attivo italiano (a
partire da Piemonte e Liguria: clicca qui, si è aperto un dossier dedicato alla mappa e al calendario
delle attività in rete dei musei: clicca qui.
I gestori dei musei e dei centri culturali, non solo i grandi ma anche i minori e periferici, purché attivi nello
sviluppare iniziative in rete, sono invitati a partecipare alla mappa e al calendario di AtlasFor, che si
propone come catalogo autoaggiornato e localizzato delle attività culturali online italiane.
Vi metteremo immediatamente e gratuitamente su Atlasfor, dandovi la possibilità di inserire le vostre
iniziative anche autonomamente, con una semplicissima operazione, simile a quella di un post su Facebook.
Basta seguire le istruzioni:
Per essere accreditati e poter inserire le proprie NEWS on line |
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Per imparare a inserire le news on line NEWS |
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Per imparare a integrare e correggere la descrizione o il link principale al proprio sito |
Inoltre possono essere richiesti altri servizi, come quelli sotto indicati, per i quali chiedere i permesi a info#landscapefor.eu
Per approfondire le prestazioni di Atlasfor |
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Per accompagnare le NEWS con altri contenuti multimediali con immagini e video che illustrano l’attività ordinaria dell’ente |
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Per imparare ad essere operatori completi |
A Seoul, terrorizzata dall’epidemia, strade deserte, 5000 persone si adunano per riuscire a entrare nel supermercato dove vendono mascherine a metà prezzo. Sfidano il contagio per risparmiare qualche dollaro nell’acquisto di un palliativo anticontagio che, come noto, non ha efficacia.
In Italia si bloccano i musei e i centri di ricerca dell’università, noti luoghi di assembramento, e si creano condizioni psicologiche per addensarsi nei supermercati, contendendosi l’ultima amuchina.
In attesa di un farmaco che riduca i comportamenti irrazionali dati dall’ansia di prestazione panica (l’unica vera malattia grave che ci sta assalendo, promossa molto più dai media che dai decisori, come prima o poi si dovrà dire), ragioniamo un po’ sugli effetti che questa bolla mediatica produce sui comportamenti della gente e segnatamente sul turismo.
In primo luogo emerge che fare i turisti non è assolutamente necessario. Se mezzo mondo disdice prenotazioni di viaggi pasquali o estivi o ha selezionato i paesi a rischio e si concentrerà su quelli esenti (al momento Africa, Sudsudamerica e Alaska, a quanto si sa) o pensa di stare quest’anno vicino a casa. Senza troppa sofferenza (anzi con sollievo dei pigri trascinati a viaggi inconsulti dai partner esagitati).
Poi salta fuori la componente pecoreccia del turismo. Per moltissimi il must è andare dove vanno gli altri, essere nel novero di quelli che hanno fatto quell’esperienza, che possono mettere quella bandierina sul planisfero. Anche qui la rinuncia non fa male se tutti fanno così. Anzi il contrario: attenti al lupo, il gregge sta nell’ovile.
D’altra parte si consuma il contrappasso della massificazione: la nave da crociera si trasforma in campo di concentramento, l’albergo diviene Hotspot dove tenere in quarantena tutti gli ospiti fuoristagione. L’unione non fa la forza ma la debolezza, il rischio.
Insomma anche se non ci avevamo ancora pensato, ora è palese: il turismo, ormai settore fondamentale della nostra economia, è imprevedibilmente assegnato agli umori e alle ansie diffuse per il mondo. La sua non-necessità e il conformismo delle masse che ne costituiscono il grosso lo rendono succube di ogni ossessione o isterismo si diffonda, che sia motivato o meno. E’ un settore ad alta instabilità, dove è facile arricchirsi cavalcando una moda ed è facile essere travolti da una fuga improvvisa: negli ultimi vent’anni in Italia gli attentati, i terremoti, per non parlare dei migranti, delle mafie. Ora l’epidemia.
Ma il turismo non è tutto crociere e prenotazioni a Natale. Anzi quel turismo, che fa grandi numeri e ha grandi crisi, viene da una domanda del tutto diversa da quella di chi si muove per conoscere i territori, per ottenere emozioni che maturano nel tempo, per rimanere abbastanza a lungo nei luoghi da prenderne il fascino. Chiamiamo turisti entrambi i tipi ma sono utenti così diversi da essere in qualche caso oggettivamente in contrasto: ormai fioccano le proteste per l’impossibilità di visitare a fondo un luogo senza essere disturbati. Ormai è chiaro che le proteste dei turisti stessi per le grandi navi nel bacino di S.Marco sono solo la punta di un iceberg molto consistente e diffuso di conflitto tra modalità diverse di visita.
Ora, pare cinico e polically incorrect, ma diciamocelo: noi promotori del turismo slow e di piccoli numeri, consapevole, responsabile, destagionalizzato, mirato, esperienziale, culturalmente approfondito, spalmato sul territorio, quando mai abbiamo avuto una pubblicità migliore di quella che circola in questi giorni?
Quando mai c’è capitato di poter dire a un ministro, del ministero che ha ricongiunto cultura e turismo: vedi, quel turismo massificato, ottuso, vulnerabile non deve essere al centro della nostra attenzione anche se fa ricche un po’ di compagnie multinazionali di viaggio, di crociera, di outlet a bordo e non, anche se fa i numeri da poter vantare nelle classifiche internazionali, anche se offre centinaia di migliaia di posti di lavoro a pizzaioli, camerieri e autisti di bus, anche se costituisce un gradito ammortizzatore sociale fondato sugli innumerevoli airbnb e b&b in nero. Vedi ministro, se noi ci fossimo costruiti un’immagine di turismo diffuso, di numeri piccoli ma dappertutto nelle nostre regioni, di visite slow & few, avremmo una molta maggiore resilienza di fronte ad eventi del genere, consentiremmo posti di lavoro e rendite da alloggi forse un po’ minori ma certo più duraturi, più sicuri e più integrati alle altre risorse dei territori.
Qui non si tratta di disprezzare quel turismo oggi in difficoltà, ma di considerarlo un settore produttivo come gli altri, che non deve essere al centro dell’attenzione di chi ha per missione di gestire la cultura e il turismo in quanto promosso dalla cultura del nostro paese.
Il MIBACT ha oggi un’occasione unica per distinguere il turismo da privilegiare perché coerente con la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale del paese e con i modelli di sviluppo sostenibile più accreditati, separandolo dal turismo da regolare perché non solo impattante e costoso per i territori ospitati, ma fragile e insicuro per i posti di lavoro che offre.
Non è scandaloso provare a ragionare in questo modo per il turismo: lo stiamo cominciando a fare per le industrie manifatturiere (alla buon’ora!), che finalmente osiamo distinguere tra quelle che partecipano ad un modello di economia circolare, di produzioni green, di consumi sostenibili e quelle che invece pesano sul futuro dei nostri figli per inquinamento, insostenibilità, incremento del global warming.
Allora, come fa in un’economia ricca il vegetariano che si permette una dieta sostenibile scegliendo gli alimenti che preferisce in una offerta molto maggiore, permettiamoci di scegliere il turista che ci piace.
Non facciamo sconti a tutti, ma al contrario favoriamo il turista che non pesa sul territorio, che si comporta come un abitante, che è distribuito opportunamente, che individua visite fuori dagli itinerari classici, che pone attenzione alle persone e non solo alle cose.
Saranno meno, saranno la metà, ma quelli saranno i nostri amici, quelli che sul lungo periodo ci salveranno perché hanno capito che i nostri tesori li stanno salvando. Gli altri certo vengano, quando hanno smaltito la paura (e con la memoria da criceti che circola avverrà prima di quanto pensiamo), ma paghino quello che consumano, ci diano modo di compensare la loro impronta ecologica e culturale, contribuiscano largamente ai costi complessivi degli innumerevoli sanmarchi, colossei, uffizi e cinqueterre che stiamo mantenendo anche per loro.
E’ il momento magico per farlo: uno stop imprevisto da allarme epidemico consente di fare il punto e redistribuire costi e benefici del turismo, senza paura di perdere qualche milione di presenze per un anno o due pur di riuscire a far capire a chi viene l’entità del tesoro che può frequentare, il trattamento adeguato che quel tesoro pretende, il giusto costo da pagare.
Abstract
The knowledge of the current city is boring and exhausting: it lacks meetings and possible belonging to a common sense.
Supermarkets and suburban streets are a small part of the territory in which we behave as in a "non-lieu". The context prevents us from meaningful relationships: in this way, our “behavioral tics” make us blind and deaf to the specific signs of the urban landscape.
Our best tool of political culture has jammed: we are not any more citizens of a precise city that gives us political competence starting from our experience. We are becoming generic citizens to who only indirect emotions, generated by the media, remain.
With this awareness, LandscapeFor Association prepared a tool - AtlasFor - available to the territories: the main target is to give awareness of cultural strength to the cities, in their heritage of things and people, and to call everyone to a sense of operational responsibility towards the patrimony.
1. Sempre più difficile sentirsi cittadini della propria città
Per chi naviga muovendo dalla terza età, in quell’oceano scostante e ingombro di plastiche in degrado che è Facebook, risaltano come isole per un naufrago i gruppi che postano foto delle città come erano. Sono gruppi folti e diffusi: una dozzina a Milano o a Roma, ma abbondano anche nei centri minori. Da Chiavari a Sciacca i nostalgici dei luoghi di ogni cittadina hanno il loro ritrovo sul web.
Chi, ogni giorno, mette in mostra una cartolina di 50 o 100 anni fa, sa di innescare una sorta di corrente emozionale collettiva, che mescola brandelli di vissuti personali e di miti urbani. Si commenta ringraziando il pubblicatore per la scintilla che ha animato il ricordo, come una canzone di gioventù, ci si vanta di individuare luogo e tempo delle immagini partendo da particolari significativi solo per i veri esperti. E’ un gioco di società, apparentemente senza regole, ma di fatto riservato a chi ha mantenuto memoria dei luoghi che ha vissuto (o che gli hanno raccontato).
Ad animare i gruppi del “come era” è la nostalgia, quella che Claude Raffestin pone alla base del senso del paesaggio: il desiderio di qualcosa che non c’è più. Ma se si pone attenzione a quel rito di post, di commenti, di complimenti e di lamenti si capisce che la nostalgia non riguarda tanto i luoghi quanto una relazione che tradizionalmente appartiene all’abitante: una vera e propria competenza della città, che era conosciuta come una pertinenza di casa propria, in ogni androne, ogni negozio, ogni slargo.
Certamente la città di allora era più piccola, con una struttura dello spazio pubblico potente, organica, che in quegli anni si era qualificata con l’impegno dell’intera società. I cittadini andavano fieri delle loro piazze, ogni ricorrenza riempiva le Poste di “cartoline illustrate”, che appunto mettevano in mostra le bellezze dei propri luoghi. Si esibivano i monumenti storici, ma anche le novità: i nuovi giardini, i quartieri recenti, fino ai caffè o ai grandi negozi.
Era la faccia concreta del Comune, il patrimonio che il cittadino attivo considerava “suo”. Solo per questo senso ancora vivo, di “proprietà culturale” del proprio territorio, le migliaia di Comuni italiani sono tutt’oggi irriducibili e resistono alle disfunzioni che la loro dimensione minuscola comporta. Ma dei Comuni, anche quelli dell’Italia “rugosa” cara a Fabrizio Barca, è certamente il capoluogo, che in Italia è una città, per piccolo che sia, a raccogliere gli aspetti di valore dell’identità e l’immagine dell’attaccamento radicato alla propria terra. Non c’è dubbio che il senso di cittadinanza sta nei borghi e nelle piccole città: è in quelli che diventa tangibile nelle forme di un senso di sicurezza e di partecipazione irripetibile. Un paese che produce cittadinanza è città, e lo sanno bene quelli che ritornano al paese, sentendolo proprio e forte più ancora delle città in cui sono consegnati dalla vita, dove si sentono (non a caso) “spaesati” per decenni.
Ma la figura retorica dei “ritornanti” non basta a spiegare la potenza delle città (grandi o piccole) tradizionali: l’urbanizzazione sino a pochi anni fa è stata una risorsa fondamentale per tutti, indigeni e non. I nuovi arrivati sono attratti dalla fama della città come luogo delle opportunità, ma queste sono captate solo da chi sa cercarle, non solo nei rapporti sociali ma anche, fisicamente, nel complesso labirinto di pietra e gente. Chi approda dalla campagna sa che l’essere “cittadino” comporta la conoscenza sistematica dello spazio pubblico urbano. Quindi per l’abitante consolidato il rapporto con la città è un fattore identitario attivo, ma per tutti è una vera e propria competenza: solo per chi la conosce si rivela un habitat fecondo, dove appare più facile sviluppare il proprio progetto.
Oggi chi partecipa ai gruppi Facebook del “come era” percepisce una diversa potenza della città dei padri rispetto a quella odierna. La città di allora era familiare, come un grande vicinato di quartiere, mentre oggi non ci si riconosce più in quella attuale che sta diventando un non-luogo. Un abitante allora poteva vantarsi di conoscere spazi e usi ignoti al turista, aveva un’esperienza diretta e specifica dei segni della “sua” città; oggi tutti sono oggetto della stessa comunicazione commerciale, poco dedicata e poco differente da una capitale all’altra.
Certamente questa perdita di complessità e di specificità diventa stridente nei territori dove gli abitanti sono eredi di giganteschi investimenti culturali (e spesso economici), che intere comunità hanno fatto per generazioni sulla loro città. Soprattutto in Italia, dove il senso millenario del “Comune” sta alla base delle nostre città, è eclatante il senso corale delle storie locali.
Lo sforzo epocale compiuto per secoli da migliaia di cittadini per qualificare il loro spazio ci appare inconfrontabile con il modo che abbiamo oggi di abitarlo. Oggi non ci sentiamo più proprietari a buon diritto delle nostre città, il diritto di chi si sente di aver partecipato alla loro produzione, ma ci sentiamo ospiti di città fatte da altri, progenitori così lontani da non sentirne più né la fatica né il lascito.
Non ne siamo ancora del tutto consapevoli, ma abbiamo continuamente una sgradevole sensazione: di non sentirci più cittadini, di stare perdendo il contatto vivo e verificato ogni giorno con i valori di quella comunità che finora si è identificata con gli spazi e le relazioni fisiche della nostra città. Si spiega così quella sorta di saudade del paesaggio che si sta diffondendo nel territorio contemporaneo, di cui i gruppi nostalgici su Facebook sono uno degli esiti visibili: la punta di un iceberg di magone dei vecchi e di smarrimento dei giovani.
D’altra parte si tratta di un processo in corso anche in quella “campagna” italiana che una volta era frutto della competenza di chi la coltivava (oltre che abitarla) e che oggi è ormai sommersa da strati di cose e segni non rurali e da modalità di coltivazione uguali dappertutto, come una sorta di gramigna culturale invasiva e inutile, che fa perdere il senso di “proprietà” dei luoghi anche ai figli di chi ancora fa di mestiere l’agricoltore, e quindi fisicamente produce quel paesaggio.
Ormai i giochi sono fatti: la semiologia del paesaggio, urbano e non, si sta semplificando e soprattutto si sta omogeneizzando: ci mancano i centri di attenzione significativi della nostra storia e del nostro progetto e finiamo per essere accampati in una gigantesca periferia dove non si generano più differenze sostanziali e condivise. E questo è grave non soltanto per una difesa generica della diversità paesistica (da rispettare comunque, anche senza davvero capire cosa significa, come si fa per la biodiversità), ma piuttosto per un aspetto strutturale di “cultura politica”.
Infatti se ogni luogo, nella sua complessità e compresenza di tanti elementi, ma anche nella concretezza della sua esperienza quotidiana, non genera più valore culturale, se perdiamo i criteri di riferimento localizzati, che avevamo costruito sulla base delle esperienze dirette nostre o della gente che conosciamo, a cosa affidiamo le nostre scelte, il nostro giudizio sul mondo?
Se perdiamo il gusto degli spazi e dei comportamenti a cui siamo affezionati, che condividiamo con una comunità eterogenea e folta, come è avvenuto sinora nelle città italiane, perdiamo il fondamento esperienziale della conoscenza sentimentale collettiva, quella che è alla base del giudizio politico democratico. La conoscenza della città recente è noiosa e defatigante, se non altro perché manca di incontri e di possibile appartenenza a un senso comune; e d’altra parte come si può fare, se non si incontra nessuno che va a piedi e che non guarda il cellulare?
I non-luoghi dei nostri supermercati e delle strade di periferia sono ormai solo piccola parte del territorio in cui ci si comporta come in un non-luogo: non è più il contesto a impedirci ogni relazione significativa, sono i nostri tic comportamentali a renderci ciechi e sordi ai segni specifici dell’intorno.
Si è inceppato il nostro miglior strumento di cultura politica: se non siamo più cittadini di una precisa città che ci dà competenza politica a partire dal nostro vissuto, a cui teniamo nella sua complessità e nelle sue contraddizioni, senza ideologie, allora stiamo diventando cittadini generici, astratti, a cui rimangono solo emozioni indirette, generate dai media, dal “sentito dire”, che non verifichiamo più nei contatti quotidiani e nei nostri affetti sedimentati.
2. La necessaria proprietà culturale della città
Si disintegra così il senso di proprietà culturale del territorio che è stato il bene comune fondamentale della storia italiana sin dal Medioevo, inventando il termine Comune per identificare il territorio fatto proprio da uomini liberati dai vincoli feudali.
Ma se il senso del bene comune è strutturalmente alla scala del campanile e della torre civica, è stata un’impresa culturale e politica romantica farlo diventare parte del “senso della nazione”, quando ciascuno ha portato in dote a una patria ideale il senso di partecipazione concreto e fattuale alla vita della propria città. Tutto il Risorgimento è fatto di questi struggenti doni locali ad altri territori, a cui ci si lega sulla base di spinte emozionali travolgenti: gli emiliani e i toscani, ciascuno a partire dalla propria città, “si regalano” ai Savoia per diventare Italia; i bergamaschi e i bresciani corrono con Garibaldi a compiere l’opera in Sicilia, accorrendo in un altro mondo accomunato solo dalla lingua parlata dai colti.
Pensiamoci: sono proprio le città libere, quelle che hanno fatto la Storia dell’Arte italiana, ad agitare l’idea del Risorgimento in regioni sonnolente e senza una diffusa progettualità.
Per fare gli italiani, ciò che occorre una volta fatta l’Italia (come borbottò Massimo d’Azeglio), si mise in campo anche l’immenso patrimonio culturale e i mille paesaggi.
In tempi di forte concentrazione nel governo centrale del comando e delle risorse (un modello pericoloso che impegnò tutti, dai liberali ai fascisti), il Touring Club italiano mise mano ad un’opera titanica: la documentazione fotografica di ciascuna regione e città, nella dichiarata convinzione che l’unità della nazione fosse salda solo se ogni comunità si sentiva partecipante, testimoniata nei suoi tesori di piazze e paesaggi.
Il Touring Club si era già impegnato, nei primi decenni del ‘900, a descrivere il nostro territorio con carte e con guide scritte (che rimangono tra le migliori a livello internazionale), ma nulla eguagliò il fascino e la potenza comunicativa del nuovo strumento: la fotografia. In ogni salotto della giovane borghesia italiana facevano bella mostra di sé i volumi azzurri delle regioni, dove ciascuno poteva trovare un’immagine scelta del proprio paese. Ciascuno, nel suo tinello, si è fatta l’idea che la bellezza fosse presente in ogni angolo d’Italia, anche in quelle tante regioni sconosciute, e si è detto che comunque non potevano essere così male se c’erano belle chiese, ricche campagne e castelli come a casa sua!
L’operazione del Touring Club, tenacemente perseguita nei decenni di mezzo del ‘900, attraverso il fascismo, la guerra e la ricostruzione, ha certamente influito nella “costruzione della nazione” non con il metodo sabaudo e fascista, di omologazione del sistema istituzionale, ma con una modalità illuministica, quella dell’Encyclopédie: un affresco del territorio come prodotto corale di migliaia di storie, di saperi, di impegni d’arte e di buone pratiche.
È stato un messaggio che in quegli anni ha stimolato, oltre ogni aspettativa, il senso di appartenenza ad un’idea di Paese fatto come un gigantesco patchwork di paesi, compreso il proprio, riducendo drasticamente la sensazione di colonizzazione che l’accelerato processo di unificazione nazionale aveva comunque comportato in molte regioni.
Questo cambiamento di scala dell’identità collettiva è stato possibile solo grazie ad una forte e condivisa identità di ogni città e territorio, sicura di sé, proattiva, non gelosa, capace di darsi, su cui (e non “contro cui”) si è fondato il progetto culturale dell’Italia unita.
L’incredibile retroprocesso oggi in corso, di regioni e città che “rivogliono indietro” la loro dedizione alla nazione di 150 anni fa, è ormai la manifestazione plateale del disagio che comporta la crisi dell’identità locale. E’ uno degli autoinganni che si mettono in scena per rappresentare la crisi identitaria come un misfatto la cui colpa si addossa ad altri, come se l’identità fosse un bene rubabile dai nuovi venuti.
Al contrario aiuterebbe la consapevolezza che la crisi è generata da un processo endogeno, che si innesca quando gli investimenti culturali collettivi di molte generazioni si riducono fino ad azzerarsi e ad essi si preferisce la polverizzazione degli investimenti (culturali, economici e istituzionali) per ottenere un benessere individuale.
Purtroppo finisce che è proprio il senso di mancanza dell’identità collettiva a diventare uno dei pochi tratti ancora riconoscibili di quell’idem sentire a cui si appoggiano le proposte politiche attuali, deboli anche perché partono solo da un disagio (in primis culturale) e non riconoscono le cause generatrici e le risorse (in primis culturali) necessarie per superarlo, deboli perché autistiche e chiuse, paradossalmente impegnate a parole a difendere una cultura che è nata e si è sviluppata nell’integrazione e nell’accoglienza, che ha l’apertura agli altri, alle altre esperienze nel proprio DNA, per questo unico e apprezzato.
Sino ad ora si è tentato di far fronte a questo disagio con politiche centralistiche, miranti a salvaguardare il grosso del patrimonio, non fidandosi della capacità d’azione positiva delle mille città e senza dedicare energie e progetto a un coinvolgimento di risorse umane per attivare insieme tutti i territori e con una chiamata di corresponsabilità degli enti locali. È un limite esiziale dei programmi istituzionali per la nostra cultura e per la nostra terra. Lo mostrano i fallimenti clamorosi, sul piano politico, dei programmi strategici per i nostri beni culturali, come quello di lancio dei grandi musei a scapito dei territori, o degli interventi emergenziali, come gridano dal cratere del terremoto migliaia di abitanti costretti all’inazione, prigionieri di un centro decisionale che dopo tre anni ancora non agisce.
D’altra parte non si è neppure provato, fuori dalle istituzioni centralistiche, ad attivare strategie gestionali sostenibili. Sui principi tutti sono d’accordo: ogni iniziativa di conservazione o di valorizzazione dei beni culturali, in particolare quelli diffusi (come il paesaggio), dura nel tempo solo se c’è una capacità gestionale. Ma nei fatti non si sono promosse esperienze significative di gestione sostenibile, i piani sono affidati alle regole e non ai progetti e i bilanci degli enti locali in rosso sono ogni anno tentati di cancellare innanzitutto i costi gestionali di attività poco frequentate, per lo più connesse al patrimonio culturale.
Ormai è chiaro che, nei fatti, la gestione economicamente sostenibile del patrimonio diffuso, fuor dai tecnicismi, si ottiene solo se un gruppo di operatori attivo e duraturo riesce a mantenere nella comunità locale un senso di responsabilità condivisa sui valori riconosciuti. Questo postulato, che i beni culturali diffusi non possono che essere salvaguardati dalla società, quella che li utilizza e quella che li utilizzerà, è verificato per certo per il patrimonio immateriale, e si sta affermando anche per il patrimonio materiale, constatato che è sempre stato così. Ma se alla dedizione di alcuni (pochi) operatori non corrisponde più un ruolo riconosciuto e condiviso del patrimonio nel progetto sociale, né locale né nazionale, non c’è strategia di gestione che sia realistica e di successo.
La mancanza di risposte operative e il fallimento delle prove più impegnative fa avanzare, nell’opinione politica qualunquista, una domanda radicale che sta facendo breccia anche tra i tecnici del settore: ma è proprio necessario puntare ad una condivisione profonda, culturalmente partecipata, delle strategie per il patrimonio culturale urbano e diffuso?
Ci sono ancora le condizioni per dire: sì, occorrono strategie che comportino una condivisione profonda, culturalmente partecipata, in particolare per i rischi (anzi le certezze) che si corrono a praticare strategie non coinvolgenti la popolazione. Il rischio è che il patrimonio culturale del territorio smetta di essere “paesaggio”, prodotto da un’interazione con chi lo vive, e diventi un relitto archeologico, riducendosi alla testimonianza inerte e frammentaria di un sapere ormai staccato dalla cultura operativa delle nuove generazioni.
Ma il vero rischio è di abituarci ad un masochismo politico e tecnico, perché abbandoniamo lo strumento principale a disposizione, in Italia, per reagire alla crisi identitaria collettiva.
A poco serve una città e un territorio carichi di risorse culturali ma incapaci di trasmettere il loro contenuto, non capiti nelle integrazioni tra passato e futuro che suggeriscono, non più percepiti come paesaggio, in cui siamo ridotti a spettatori e non siamo più attori.
Non possiamo sprecare questa last call della nostra identità, per la quale ancora per qualche anno l’Italia ci offre un habitat culturale per giocare in casa, per tentare sinergie e rapporti “alla pari” tra la dimensione locale, conosciuta o almeno conoscibile, e quella globale, inconoscibile nonostante le seduzioni della rete, ma certamente prepotente e priva di quelle specificità che amiamo.
3. Valorizzare il paesaggio urbano e chi lo cura
In questo quadro storico di difficoltà e di resilienze ci sembra che si possa ancora far emergere, particolarmente in Italia, una potenzialità strategica legata al paesaggio, cioè all’interazione culturale tra abitanti e territori. Ci pare che sia stata proprio questa relazione simbiotica in ciascuna città, grande o piccola, ad alimentare un flusso di impegno innovativo diffuso che da secoli genera nuove interpretazioni e nuovi modelli di riferimento della cultura, utili per il benessere sociale, l’economia, e soprattutto l’etica pubblica. Sono quelle fasi di cultura urbana che poi hanno preso un nome noto, nei libri di Storia, a partire dal Buongoverno dei secoli dei Comuni, alle mille versioni di Signoria illuminata del Rinascimento, alle frammentate e complesse pulsioni locali alla base delle epopee di difesa e valorizzazione dei propri territori del Risorgimento e della Resistenza.
Da almeno mille anni in Italia la cultura produce meraviglie perché è frutto di un clima di sapere e di ecosistemi locali generativi di pensiero e di pratiche che sono diffusi in tutto il paese e che hanno costituito, un secolo qui un secolo là, il momento “topico” di centri molto differenti ma tutti potenti per la capacità di irraggiare le loro innovazioni.
L’Italia è stata per mille anni “solo” (!) una rete di città collegate tra loro non da disegni politici o da governi sovrastanti ma da un’unità di linguaggio, quello parlato ma soprattutto quello agito nelle maestrie d’arte e di costruzione, che sono sempre andate al di là delle frontiere e degli egoismi di questo o quel nobile locale. Alla base di queste fruttuose stagioni ci sono state sempre le città, ciascuna capace di impastare e di rendere sinergiche le sue pietre con le sue generazioni, dai signori agli artigiani, dagli studiosi ai mercanti, dagli artisti locali a quelli chiamati da fuori.
Tra questi, chiamati ad essere gli attori del paesaggio, aiutati da quanto realizzato prima, si sono costituite reti inusitate di ambizioni, competenze, capacità d’investimento duraturo e di continuità del sapere, che convergevano tutte sulla più potente e condivisa strumentazione politica dell’epoca: la produzione culturale che dava lustro al bene comune. In Italia la cultura produceva una fama e una potenza di gran lunga maggiore del denaro o delle armi.
La macchina culturale locale è rimasta politicamente produttiva sino a poco tempo fa: nelle prime generazioni della Nazione tutti, dalla Sicilia al Trentino, erano in fibrillazione soprattutto per l’occasione epocale di qualificare la propria città. Basta leggere i discorsi dei Sindaci dell’Italia Unita, o quelli della neonata Repubblica, per trovare ampie pagine dedicate alla cultura locale, all’intenzione di valorizzarne la storia, di implementarne i beni, di far bello e più attraente lo spazio pubblico.
Da qualche decennio è tramontata questa retorica ottimista e di impegno civile assegnato alla cultura e viceversa si è sviluppata una retorica colpevolizzante, che fa apparire insostenibile il peso del patrimonio di beni culturali, con il suo carico di responsabilità sugli eredi, e la convinzione delle nuove generazioni di non essere all’altezza di tanto lascito. E’ un contesto psicosociale che ha obnubilato la consapevolezza fondamentale: che il Patrimonio in Italia non sono tanto i prodotti quanto le produzioni culturali, le capacità secolari degli abitanti delle città di formare l’habitat adatto a generare arte e cultura. E che siamo tuttora in condizione di continuare questa competenza unica al mondo.
Ora, seguendo questa versione dei fatti, potremmo descrivere la situazione attuale del paesaggio italiano come una scena della “Bella addormentata”, dove ci sono tutti gli ingredienti per alzare il sipario e recitare, ma tutto è inanimato, sotto incantamento.
C’è il patrimonio, poco valorizzato ma ancora in discreto stato, ci sono le macchine istituzionali ormai secolari e anchilosate ma comunque insediate, c’è una grande disponibilità di risorse umane diffuse, le cui preparazioni e capacità di dedizione sono del tutto trascurate ma presenti.
E’ sulle risorse umane che vale la pena soffermarsi: si tratta di competenze acquisite per scelta, per una passione che quasi sempre dura tutta la vita, anche se spesso le loro figure professionali sono trasparenti ai più, che non le vedono come non si vedono gli accattoni o chi svolge i servizi più umili ma essenziali. Sono le migliaia di funzionari addetti ai beni culturali periferici, frustrati dai continui cambi di strategia e di dirigenza; sono le decine di migliaia di insegnanti a cui le scuole chiedono un decimo della propria sensibilità e potenza culturale e un’infinita pazienza burocratica; sono le centinaia di migliaia di ragazzi che hanno scelto di studiare architettura, conservazione dei beni culturali e ambientali, letteratura e arte e che le università hanno sfornato negli ultimi 50 anni in un mercato del lavoro senza sbocchi; ma soprattutto sono i milioni di persone impegnate nel volontariato che gestiscono, in modo per lo più disorganizzato, i centri studio, i piccoli musei, le fondazioni private e l’infinità di beni minori che pullulano, deo gratias, nel nostro paese.
È un enorme giacimento di materia prima intellettuale in cui sono ben presenti tutti i fondamentali per servire in un progetto strategico sostenibile: è intergenerazionale, composto da persone sensibili e votate alla cultura, a partire da quella locale che spesso hanno studiato e amato, con un rapporto con il denaro del tutto strumentale rispetto al progetto personale, da tempo frustrate dal sottoutilizzo e dalla marginalità sociopolitica del quadrante culturale.
È vero che in ogni città questo insieme di soggetti appare come uno sciame disorganizzato e pieno di nicchie di attività intense ma autistiche, ma i fondamentali ci sono, certo più di quanto ci fossero per gli operai all’inizio della rivoluzione industriale o per gli informatici all’inizio di quella digitale.
ATLAS FOR SBAM
La Rete di biblioteche e l’Associazione LandscapeFor
per raccontare il territorio con il programma AtlasFor
LA PROPOSTA ALLE BIBLIOTECHE DELLA RETE SBAM
Per il popolamento di AtlasFor è stato avviato il programma APPA - Atlante del Patrimonio e del Paesaggio attivo - che ha raggiunto un soddisfacente grado di completezza per la zona centrale di Torino, con circa 300 schede per punti di interesse.
Per il 2020-21 l’obiettivo è l’estensione del programma APPA ai comuni della Città metropolitana con schede dedicate per popolare la mappa dei loro territori.
Secondo una valutazione basata sulle esperienze già svolte, il patrimonio culturale (tra luoghi pubblici, beni monumentali o storici e rilevanti interventi recenti) può essere ben documentato con la redazione di una decina di schede per i Comuni minori, una ventina per quelli intermedi e una trentina per i Comuni maggiori (Moncalieri, Carmagnola, Rivoli, Venaria, Settimo, Chieri, Chivasso e pochi altri). A tali entità per il patrimonio corrispondono entità simili per il “Paesaggio attivo”, in termini di musei, associazioni, attività per il tempo libero, commerciali o produttive di interesse culturale.
Per questa impresa proponiamo alle Biblioteche dello SBAM di svolgere un ruolo fondamentale in una doppia strategia di domanda e di offerta di conoscenza:
_come hub dei materiali documentari relativi al territorio locale: la storia, gli eventi, i beni culturali, i segni delle trasformazioni fisiche e socioeconomiche, i progetti, le curiosità e le interpretazioni artistiche.
_come centro di promozione di AtlasFor, ospitando le attività del Comune e degli altri soggetti pubblici quali:
1 le scuole: come strumento per la didattica e la ricerca e universitaria.
2 gli operatori commerciali e della ricettività: per rendere stimolante la visita del turista culturale
3 le associazioni: per la valorizzazione di un’identità locale troppo spesso erosa nei territori decentrati.
Così le biblioteche si propongono come la sede di un programma per potenziare la consapevolezza delle risorse culturali del territorio, contando sul coordinamento dell’Associazione LandscapeFor e cercando la collaborazione di tre tipi di soggetti:
a. alcune “antenne”, personalità locali che per storia e riconosciuta autorevolezza sono in grado di convincere a partecipare altri conoscitori dei luoghi o possessori di materiali documentari (archivi di famiglia o di impresa di immagini o video, studi o pubblicazioni cartacee o digitali dei vari enti e associazioni, fuori commercio, fondi di biblioteca), per facilitarne l’utilizzo per un riconoscimento condiviso dell’identità locale (un “come eravamo” autoprodotto);
b. alcuni “scrivani”, soggetti motivati da curiosità o interesse di studio e di divulgazione, disponibili ad impegnarsi nel lavoro, necessario per il funzionamento dell’intero progetto, di selezione dei materiali iconografici, scrittura del racconto che li unisce e della immissione in AtlasFor (da formare con addestramento a carico di Ass.LandscapeFor);
c. i soggetti, pubblici e privati, impegnati per le produzioni di eccellenza o nei servizi culturali: per favorire l’emergenza delle loro iniziative e attività in AtlasFor si mettono a disposizione “vetrine” direttamente aggiornabili;
La fattibilità del programma necessita di due prerequisiti fondamentali:
Con questi obiettivi il programma va calibrato caso per caso per ottenere il massimo risultato rispettando i due requisiti. Perciò si sottoscrivono accordi tra Associazione e Comuni e/o Biblioteche, per specificare, a fronte degli impegni sopra descritti dall’Associazione:
_ le disponibilità di materiali e di risorse umane che può offrire la biblioteca, senza aggravi significativi dei propri impegni,
_ i materiali esterni disponibili e le condizioni per la loro raccolta e ordinamento (in termini organizzativi e di risorse umane necessarie, con ricorso al volontariato) segnalati alle biblioteche dalle “antenne” e dagli “scrivani” individuati,
_ le modalità di acquisizione di fondi per sostenere i costi (in termini di partecipazione a progetti comunali già in corso, di partecipazione in partenariato a bandi, di fundraising a livello locale etc.).
Ormai abbiamo una storia. La presentazione del 9 aprile 2019 per l’area centrale di Torino è l'atto conclusivo di una lunga fase sperimentale e quello iniziale di un programma di implementazione abizioso. Si tratta di APPA, l’Atlante per il Patrimonio e il Paesaggio attivo, inserito nel 2018 in fase sperimentale tra le iniziative per l’Anno europeo del Patrimonio. APPA utilizza AtlasFor, una piattaforma multilingue che si rivolge ad un pubblico curioso e interessato ad una conoscenza specifica, che può arricchire le proprie visite (reali e virtuali) in modo mirato attraverso immagini e video non banali, capaci di illustrare aspetti poco noti. Nei prossimi mesi seguiranno altri dossier sugli ambiti territoriali di contesto dei siti Unesco e delle vie storiche piemontesi: ad esempio Langhe e Monferrato, Canavese, Val di Susa, in prospettiva di una copertura italiana totale entro i prossimi anni.
A questo punto abbiamo verificato la necessità di diffondere l’iniziativa, che presenta molti aspetti innovativi e richiede un particolare coinvolgimento degli operatori e del pubblico.
Per pubblicizzare lo sviluppo del progetto abbiamo messo a punto un programma editoriale di pubblicazione periodica on-line: AtlasFor Magazine.
Il numero 1 di AtlasFor Magazine, pubblicato il 9 aprile, è dedicato all’uscita dei dossier di APPA dedicati a Torino e il suo contesto:
E’ un prototipo di sviluppo di APPA, che si vuole replicare in altri contesti, a partire da quelli piemontesi, sempre contando sul coinvolgimento degli operatori e degli enti, per la partecipazione attiva nella redazione delle schede per punto di interesse.
AtlasFor Magazine è in corso di registrazione presso il Tribunale di Torino e ha per direttore responsabile Roberto Moisio, risultando così una rivista on-line scientifica a tutti gli effetti. In questo modo si intendono valorizzare i dossier pubblicati attraverso AtlasFor, che possono assumere carattere di ricerca anche a fini accademici e istituzionali.
In questa prospettiva AtlasFor Magazine non è solo una modalità di diffusione e di pubblicizzazione ma è anche lo strumento per qualificare lo sviluppo del progetto APPA con:
Nel primo AtlasFor Magazine un editoriale evidenzia la novità del doppio asse di interesse: Patrimonio e ”Paesaggio attivo”. In APPA infatti gli itinerari di visita del patrimonio culturale si incrociano con la mappa degli eventi e delle iniziative programmati. Il pubblico sa dell’iniziativa di uno dei soggetti attivi presenti in AtlasFor perché l’icona geo-localizzata del soggetto organizzatore “saltella” nei giorni precedenti l’evento e può consultare un calendario degli eventi segnalati sulla mappa, aggiornato in automatico.
La mappa e il calendario, comunque consultabili on-line, possono essere messi a disposizione di qualsiasi sito dell’operatore locale, della ATL o dell’ente che ne faccia richiesta.
In particolare a Torino si selezionano una ventina degli alberghi di maggiore interesse storico-culturale e si offre l’inserimento di AtlasFor direttamente sui siti della loro attività ricettiva.
Un secondo editoriale è dedicato allo “stile” dei dossier di punti di interesse (POI) che si pubblicano. Vorremmo restituire “il racconto dell’ospite”, cercando materiali scelti tra quelli messi a disposizione da soggetti (studiosi locali, enti e associazioni) che dispongono di un patrimonio di saperi e spesso di un “tono” del racconto ineguagliabile dalle guide ufficiali e dai siti istituzionali. Si tratta di individuare e coinvolgere i soggetti interessati a mettere in comune la propria documentazione, molto spesso già organizzata in siti dispersi nel web, quasi sempre poco aggiornati e pochissimo frequentati.
Il call per l’Atlante del Patrimonio e del Paesaggio Attivo è un programma di “popolamento” di LandscapeFor Atlas, per illustrare entro il 2020 circa 10.000 punti di interesse.