Abstract
The knowledge of the current city is boring and exhausting: it lacks meetings and possible belonging to a common sense.
Supermarkets and suburban streets are a small part of the territory in which we behave as in a "non-lieu". The context prevents us from meaningful relationships: in this way, our “behavioral tics” make us blind and deaf to the specific signs of the urban landscape.
Our best tool of political culture has jammed: we are not any more citizens of a precise city that gives us political competence starting from our experience. We are becoming generic citizens to who only indirect emotions, generated by the media, remain.
With this awareness, LandscapeFor Association prepared a tool - AtlasFor - available to the territories: the main target is to give awareness of cultural strength to the cities, in their heritage of things and people, and to call everyone to a sense of operational responsibility towards the patrimony.
1. Sempre più difficile sentirsi cittadini della propria città
Per chi naviga muovendo dalla terza età, in quell’oceano scostante e ingombro di plastiche in degrado che è Facebook, risaltano come isole per un naufrago i gruppi che postano foto delle città come erano. Sono gruppi folti e diffusi: una dozzina a Milano o a Roma, ma abbondano anche nei centri minori. Da Chiavari a Sciacca i nostalgici dei luoghi di ogni cittadina hanno il loro ritrovo sul web.
Chi, ogni giorno, mette in mostra una cartolina di 50 o 100 anni fa, sa di innescare una sorta di corrente emozionale collettiva, che mescola brandelli di vissuti personali e di miti urbani. Si commenta ringraziando il pubblicatore per la scintilla che ha animato il ricordo, come una canzone di gioventù, ci si vanta di individuare luogo e tempo delle immagini partendo da particolari significativi solo per i veri esperti. E’ un gioco di società, apparentemente senza regole, ma di fatto riservato a chi ha mantenuto memoria dei luoghi che ha vissuto (o che gli hanno raccontato).
Ad animare i gruppi del “come era” è la nostalgia, quella che Claude Raffestin pone alla base del senso del paesaggio: il desiderio di qualcosa che non c’è più. Ma se si pone attenzione a quel rito di post, di commenti, di complimenti e di lamenti si capisce che la nostalgia non riguarda tanto i luoghi quanto una relazione che tradizionalmente appartiene all’abitante: una vera e propria competenza della città, che era conosciuta come una pertinenza di casa propria, in ogni androne, ogni negozio, ogni slargo.
Certamente la città di allora era più piccola, con una struttura dello spazio pubblico potente, organica, che in quegli anni si era qualificata con l’impegno dell’intera società. I cittadini andavano fieri delle loro piazze, ogni ricorrenza riempiva le Poste di “cartoline illustrate”, che appunto mettevano in mostra le bellezze dei propri luoghi. Si esibivano i monumenti storici, ma anche le novità: i nuovi giardini, i quartieri recenti, fino ai caffè o ai grandi negozi.
Era la faccia concreta del Comune, il patrimonio che il cittadino attivo considerava “suo”. Solo per questo senso ancora vivo, di “proprietà culturale” del proprio territorio, le migliaia di Comuni italiani sono tutt’oggi irriducibili e resistono alle disfunzioni che la loro dimensione minuscola comporta. Ma dei Comuni, anche quelli dell’Italia “rugosa” cara a Fabrizio Barca, è certamente il capoluogo, che in Italia è una città, per piccolo che sia, a raccogliere gli aspetti di valore dell’identità e l’immagine dell’attaccamento radicato alla propria terra. Non c’è dubbio che il senso di cittadinanza sta nei borghi e nelle piccole città: è in quelli che diventa tangibile nelle forme di un senso di sicurezza e di partecipazione irripetibile. Un paese che produce cittadinanza è città, e lo sanno bene quelli che ritornano al paese, sentendolo proprio e forte più ancora delle città in cui sono consegnati dalla vita, dove si sentono (non a caso) “spaesati” per decenni.
Ma la figura retorica dei “ritornanti” non basta a spiegare la potenza delle città (grandi o piccole) tradizionali: l’urbanizzazione sino a pochi anni fa è stata una risorsa fondamentale per tutti, indigeni e non. I nuovi arrivati sono attratti dalla fama della città come luogo delle opportunità, ma queste sono captate solo da chi sa cercarle, non solo nei rapporti sociali ma anche, fisicamente, nel complesso labirinto di pietra e gente. Chi approda dalla campagna sa che l’essere “cittadino” comporta la conoscenza sistematica dello spazio pubblico urbano. Quindi per l’abitante consolidato il rapporto con la città è un fattore identitario attivo, ma per tutti è una vera e propria competenza: solo per chi la conosce si rivela un habitat fecondo, dove appare più facile sviluppare il proprio progetto.
Oggi chi partecipa ai gruppi Facebook del “come era” percepisce una diversa potenza della città dei padri rispetto a quella odierna. La città di allora era familiare, come un grande vicinato di quartiere, mentre oggi non ci si riconosce più in quella attuale che sta diventando un non-luogo. Un abitante allora poteva vantarsi di conoscere spazi e usi ignoti al turista, aveva un’esperienza diretta e specifica dei segni della “sua” città; oggi tutti sono oggetto della stessa comunicazione commerciale, poco dedicata e poco differente da una capitale all’altra.
Certamente questa perdita di complessità e di specificità diventa stridente nei territori dove gli abitanti sono eredi di giganteschi investimenti culturali (e spesso economici), che intere comunità hanno fatto per generazioni sulla loro città. Soprattutto in Italia, dove il senso millenario del “Comune” sta alla base delle nostre città, è eclatante il senso corale delle storie locali.
Lo sforzo epocale compiuto per secoli da migliaia di cittadini per qualificare il loro spazio ci appare inconfrontabile con il modo che abbiamo oggi di abitarlo. Oggi non ci sentiamo più proprietari a buon diritto delle nostre città, il diritto di chi si sente di aver partecipato alla loro produzione, ma ci sentiamo ospiti di città fatte da altri, progenitori così lontani da non sentirne più né la fatica né il lascito.
Non ne siamo ancora del tutto consapevoli, ma abbiamo continuamente una sgradevole sensazione: di non sentirci più cittadini, di stare perdendo il contatto vivo e verificato ogni giorno con i valori di quella comunità che finora si è identificata con gli spazi e le relazioni fisiche della nostra città. Si spiega così quella sorta di saudade del paesaggio che si sta diffondendo nel territorio contemporaneo, di cui i gruppi nostalgici su Facebook sono uno degli esiti visibili: la punta di un iceberg di magone dei vecchi e di smarrimento dei giovani.
D’altra parte si tratta di un processo in corso anche in quella “campagna” italiana che una volta era frutto della competenza di chi la coltivava (oltre che abitarla) e che oggi è ormai sommersa da strati di cose e segni non rurali e da modalità di coltivazione uguali dappertutto, come una sorta di gramigna culturale invasiva e inutile, che fa perdere il senso di “proprietà” dei luoghi anche ai figli di chi ancora fa di mestiere l’agricoltore, e quindi fisicamente produce quel paesaggio.
Ormai i giochi sono fatti: la semiologia del paesaggio, urbano e non, si sta semplificando e soprattutto si sta omogeneizzando: ci mancano i centri di attenzione significativi della nostra storia e del nostro progetto e finiamo per essere accampati in una gigantesca periferia dove non si generano più differenze sostanziali e condivise. E questo è grave non soltanto per una difesa generica della diversità paesistica (da rispettare comunque, anche senza davvero capire cosa significa, come si fa per la biodiversità), ma piuttosto per un aspetto strutturale di “cultura politica”.
Infatti se ogni luogo, nella sua complessità e compresenza di tanti elementi, ma anche nella concretezza della sua esperienza quotidiana, non genera più valore culturale, se perdiamo i criteri di riferimento localizzati, che avevamo costruito sulla base delle esperienze dirette nostre o della gente che conosciamo, a cosa affidiamo le nostre scelte, il nostro giudizio sul mondo?
Se perdiamo il gusto degli spazi e dei comportamenti a cui siamo affezionati, che condividiamo con una comunità eterogenea e folta, come è avvenuto sinora nelle città italiane, perdiamo il fondamento esperienziale della conoscenza sentimentale collettiva, quella che è alla base del giudizio politico democratico. La conoscenza della città recente è noiosa e defatigante, se non altro perché manca di incontri e di possibile appartenenza a un senso comune; e d’altra parte come si può fare, se non si incontra nessuno che va a piedi e che non guarda il cellulare?
I non-luoghi dei nostri supermercati e delle strade di periferia sono ormai solo piccola parte del territorio in cui ci si comporta come in un non-luogo: non è più il contesto a impedirci ogni relazione significativa, sono i nostri tic comportamentali a renderci ciechi e sordi ai segni specifici dell’intorno.
Si è inceppato il nostro miglior strumento di cultura politica: se non siamo più cittadini di una precisa città che ci dà competenza politica a partire dal nostro vissuto, a cui teniamo nella sua complessità e nelle sue contraddizioni, senza ideologie, allora stiamo diventando cittadini generici, astratti, a cui rimangono solo emozioni indirette, generate dai media, dal “sentito dire”, che non verifichiamo più nei contatti quotidiani e nei nostri affetti sedimentati.
2. La necessaria proprietà culturale della città
Si disintegra così il senso di proprietà culturale del territorio che è stato il bene comune fondamentale della storia italiana sin dal Medioevo, inventando il termine Comune per identificare il territorio fatto proprio da uomini liberati dai vincoli feudali.
Ma se il senso del bene comune è strutturalmente alla scala del campanile e della torre civica, è stata un’impresa culturale e politica romantica farlo diventare parte del “senso della nazione”, quando ciascuno ha portato in dote a una patria ideale il senso di partecipazione concreto e fattuale alla vita della propria città. Tutto il Risorgimento è fatto di questi struggenti doni locali ad altri territori, a cui ci si lega sulla base di spinte emozionali travolgenti: gli emiliani e i toscani, ciascuno a partire dalla propria città, “si regalano” ai Savoia per diventare Italia; i bergamaschi e i bresciani corrono con Garibaldi a compiere l’opera in Sicilia, accorrendo in un altro mondo accomunato solo dalla lingua parlata dai colti.
Pensiamoci: sono proprio le città libere, quelle che hanno fatto la Storia dell’Arte italiana, ad agitare l’idea del Risorgimento in regioni sonnolente e senza una diffusa progettualità.
Per fare gli italiani, ciò che occorre una volta fatta l’Italia (come borbottò Massimo d’Azeglio), si mise in campo anche l’immenso patrimonio culturale e i mille paesaggi.
In tempi di forte concentrazione nel governo centrale del comando e delle risorse (un modello pericoloso che impegnò tutti, dai liberali ai fascisti), il Touring Club italiano mise mano ad un’opera titanica: la documentazione fotografica di ciascuna regione e città, nella dichiarata convinzione che l’unità della nazione fosse salda solo se ogni comunità si sentiva partecipante, testimoniata nei suoi tesori di piazze e paesaggi.
Il Touring Club si era già impegnato, nei primi decenni del ‘900, a descrivere il nostro territorio con carte e con guide scritte (che rimangono tra le migliori a livello internazionale), ma nulla eguagliò il fascino e la potenza comunicativa del nuovo strumento: la fotografia. In ogni salotto della giovane borghesia italiana facevano bella mostra di sé i volumi azzurri delle regioni, dove ciascuno poteva trovare un’immagine scelta del proprio paese. Ciascuno, nel suo tinello, si è fatta l’idea che la bellezza fosse presente in ogni angolo d’Italia, anche in quelle tante regioni sconosciute, e si è detto che comunque non potevano essere così male se c’erano belle chiese, ricche campagne e castelli come a casa sua!
L’operazione del Touring Club, tenacemente perseguita nei decenni di mezzo del ‘900, attraverso il fascismo, la guerra e la ricostruzione, ha certamente influito nella “costruzione della nazione” non con il metodo sabaudo e fascista, di omologazione del sistema istituzionale, ma con una modalità illuministica, quella dell’Encyclopédie: un affresco del territorio come prodotto corale di migliaia di storie, di saperi, di impegni d’arte e di buone pratiche.
È stato un messaggio che in quegli anni ha stimolato, oltre ogni aspettativa, il senso di appartenenza ad un’idea di Paese fatto come un gigantesco patchwork di paesi, compreso il proprio, riducendo drasticamente la sensazione di colonizzazione che l’accelerato processo di unificazione nazionale aveva comunque comportato in molte regioni.
Questo cambiamento di scala dell’identità collettiva è stato possibile solo grazie ad una forte e condivisa identità di ogni città e territorio, sicura di sé, proattiva, non gelosa, capace di darsi, su cui (e non “contro cui”) si è fondato il progetto culturale dell’Italia unita.
L’incredibile retroprocesso oggi in corso, di regioni e città che “rivogliono indietro” la loro dedizione alla nazione di 150 anni fa, è ormai la manifestazione plateale del disagio che comporta la crisi dell’identità locale. E’ uno degli autoinganni che si mettono in scena per rappresentare la crisi identitaria come un misfatto la cui colpa si addossa ad altri, come se l’identità fosse un bene rubabile dai nuovi venuti.
Al contrario aiuterebbe la consapevolezza che la crisi è generata da un processo endogeno, che si innesca quando gli investimenti culturali collettivi di molte generazioni si riducono fino ad azzerarsi e ad essi si preferisce la polverizzazione degli investimenti (culturali, economici e istituzionali) per ottenere un benessere individuale.
Purtroppo finisce che è proprio il senso di mancanza dell’identità collettiva a diventare uno dei pochi tratti ancora riconoscibili di quell’idem sentire a cui si appoggiano le proposte politiche attuali, deboli anche perché partono solo da un disagio (in primis culturale) e non riconoscono le cause generatrici e le risorse (in primis culturali) necessarie per superarlo, deboli perché autistiche e chiuse, paradossalmente impegnate a parole a difendere una cultura che è nata e si è sviluppata nell’integrazione e nell’accoglienza, che ha l’apertura agli altri, alle altre esperienze nel proprio DNA, per questo unico e apprezzato.
Sino ad ora si è tentato di far fronte a questo disagio con politiche centralistiche, miranti a salvaguardare il grosso del patrimonio, non fidandosi della capacità d’azione positiva delle mille città e senza dedicare energie e progetto a un coinvolgimento di risorse umane per attivare insieme tutti i territori e con una chiamata di corresponsabilità degli enti locali. È un limite esiziale dei programmi istituzionali per la nostra cultura e per la nostra terra. Lo mostrano i fallimenti clamorosi, sul piano politico, dei programmi strategici per i nostri beni culturali, come quello di lancio dei grandi musei a scapito dei territori, o degli interventi emergenziali, come gridano dal cratere del terremoto migliaia di abitanti costretti all’inazione, prigionieri di un centro decisionale che dopo tre anni ancora non agisce.
D’altra parte non si è neppure provato, fuori dalle istituzioni centralistiche, ad attivare strategie gestionali sostenibili. Sui principi tutti sono d’accordo: ogni iniziativa di conservazione o di valorizzazione dei beni culturali, in particolare quelli diffusi (come il paesaggio), dura nel tempo solo se c’è una capacità gestionale. Ma nei fatti non si sono promosse esperienze significative di gestione sostenibile, i piani sono affidati alle regole e non ai progetti e i bilanci degli enti locali in rosso sono ogni anno tentati di cancellare innanzitutto i costi gestionali di attività poco frequentate, per lo più connesse al patrimonio culturale.
Ormai è chiaro che, nei fatti, la gestione economicamente sostenibile del patrimonio diffuso, fuor dai tecnicismi, si ottiene solo se un gruppo di operatori attivo e duraturo riesce a mantenere nella comunità locale un senso di responsabilità condivisa sui valori riconosciuti. Questo postulato, che i beni culturali diffusi non possono che essere salvaguardati dalla società, quella che li utilizza e quella che li utilizzerà, è verificato per certo per il patrimonio immateriale, e si sta affermando anche per il patrimonio materiale, constatato che è sempre stato così. Ma se alla dedizione di alcuni (pochi) operatori non corrisponde più un ruolo riconosciuto e condiviso del patrimonio nel progetto sociale, né locale né nazionale, non c’è strategia di gestione che sia realistica e di successo.
La mancanza di risposte operative e il fallimento delle prove più impegnative fa avanzare, nell’opinione politica qualunquista, una domanda radicale che sta facendo breccia anche tra i tecnici del settore: ma è proprio necessario puntare ad una condivisione profonda, culturalmente partecipata, delle strategie per il patrimonio culturale urbano e diffuso?
Ci sono ancora le condizioni per dire: sì, occorrono strategie che comportino una condivisione profonda, culturalmente partecipata, in particolare per i rischi (anzi le certezze) che si corrono a praticare strategie non coinvolgenti la popolazione. Il rischio è che il patrimonio culturale del territorio smetta di essere “paesaggio”, prodotto da un’interazione con chi lo vive, e diventi un relitto archeologico, riducendosi alla testimonianza inerte e frammentaria di un sapere ormai staccato dalla cultura operativa delle nuove generazioni.
Ma il vero rischio è di abituarci ad un masochismo politico e tecnico, perché abbandoniamo lo strumento principale a disposizione, in Italia, per reagire alla crisi identitaria collettiva.
A poco serve una città e un territorio carichi di risorse culturali ma incapaci di trasmettere il loro contenuto, non capiti nelle integrazioni tra passato e futuro che suggeriscono, non più percepiti come paesaggio, in cui siamo ridotti a spettatori e non siamo più attori.
Non possiamo sprecare questa last call della nostra identità, per la quale ancora per qualche anno l’Italia ci offre un habitat culturale per giocare in casa, per tentare sinergie e rapporti “alla pari” tra la dimensione locale, conosciuta o almeno conoscibile, e quella globale, inconoscibile nonostante le seduzioni della rete, ma certamente prepotente e priva di quelle specificità che amiamo.
3. Valorizzare il paesaggio urbano e chi lo cura
In questo quadro storico di difficoltà e di resilienze ci sembra che si possa ancora far emergere, particolarmente in Italia, una potenzialità strategica legata al paesaggio, cioè all’interazione culturale tra abitanti e territori. Ci pare che sia stata proprio questa relazione simbiotica in ciascuna città, grande o piccola, ad alimentare un flusso di impegno innovativo diffuso che da secoli genera nuove interpretazioni e nuovi modelli di riferimento della cultura, utili per il benessere sociale, l’economia, e soprattutto l’etica pubblica. Sono quelle fasi di cultura urbana che poi hanno preso un nome noto, nei libri di Storia, a partire dal Buongoverno dei secoli dei Comuni, alle mille versioni di Signoria illuminata del Rinascimento, alle frammentate e complesse pulsioni locali alla base delle epopee di difesa e valorizzazione dei propri territori del Risorgimento e della Resistenza.
Da almeno mille anni in Italia la cultura produce meraviglie perché è frutto di un clima di sapere e di ecosistemi locali generativi di pensiero e di pratiche che sono diffusi in tutto il paese e che hanno costituito, un secolo qui un secolo là, il momento “topico” di centri molto differenti ma tutti potenti per la capacità di irraggiare le loro innovazioni.
L’Italia è stata per mille anni “solo” (!) una rete di città collegate tra loro non da disegni politici o da governi sovrastanti ma da un’unità di linguaggio, quello parlato ma soprattutto quello agito nelle maestrie d’arte e di costruzione, che sono sempre andate al di là delle frontiere e degli egoismi di questo o quel nobile locale. Alla base di queste fruttuose stagioni ci sono state sempre le città, ciascuna capace di impastare e di rendere sinergiche le sue pietre con le sue generazioni, dai signori agli artigiani, dagli studiosi ai mercanti, dagli artisti locali a quelli chiamati da fuori.
Tra questi, chiamati ad essere gli attori del paesaggio, aiutati da quanto realizzato prima, si sono costituite reti inusitate di ambizioni, competenze, capacità d’investimento duraturo e di continuità del sapere, che convergevano tutte sulla più potente e condivisa strumentazione politica dell’epoca: la produzione culturale che dava lustro al bene comune. In Italia la cultura produceva una fama e una potenza di gran lunga maggiore del denaro o delle armi.
La macchina culturale locale è rimasta politicamente produttiva sino a poco tempo fa: nelle prime generazioni della Nazione tutti, dalla Sicilia al Trentino, erano in fibrillazione soprattutto per l’occasione epocale di qualificare la propria città. Basta leggere i discorsi dei Sindaci dell’Italia Unita, o quelli della neonata Repubblica, per trovare ampie pagine dedicate alla cultura locale, all’intenzione di valorizzarne la storia, di implementarne i beni, di far bello e più attraente lo spazio pubblico.
Da qualche decennio è tramontata questa retorica ottimista e di impegno civile assegnato alla cultura e viceversa si è sviluppata una retorica colpevolizzante, che fa apparire insostenibile il peso del patrimonio di beni culturali, con il suo carico di responsabilità sugli eredi, e la convinzione delle nuove generazioni di non essere all’altezza di tanto lascito. E’ un contesto psicosociale che ha obnubilato la consapevolezza fondamentale: che il Patrimonio in Italia non sono tanto i prodotti quanto le produzioni culturali, le capacità secolari degli abitanti delle città di formare l’habitat adatto a generare arte e cultura. E che siamo tuttora in condizione di continuare questa competenza unica al mondo.
Ora, seguendo questa versione dei fatti, potremmo descrivere la situazione attuale del paesaggio italiano come una scena della “Bella addormentata”, dove ci sono tutti gli ingredienti per alzare il sipario e recitare, ma tutto è inanimato, sotto incantamento.
C’è il patrimonio, poco valorizzato ma ancora in discreto stato, ci sono le macchine istituzionali ormai secolari e anchilosate ma comunque insediate, c’è una grande disponibilità di risorse umane diffuse, le cui preparazioni e capacità di dedizione sono del tutto trascurate ma presenti.
E’ sulle risorse umane che vale la pena soffermarsi: si tratta di competenze acquisite per scelta, per una passione che quasi sempre dura tutta la vita, anche se spesso le loro figure professionali sono trasparenti ai più, che non le vedono come non si vedono gli accattoni o chi svolge i servizi più umili ma essenziali. Sono le migliaia di funzionari addetti ai beni culturali periferici, frustrati dai continui cambi di strategia e di dirigenza; sono le decine di migliaia di insegnanti a cui le scuole chiedono un decimo della propria sensibilità e potenza culturale e un’infinita pazienza burocratica; sono le centinaia di migliaia di ragazzi che hanno scelto di studiare architettura, conservazione dei beni culturali e ambientali, letteratura e arte e che le università hanno sfornato negli ultimi 50 anni in un mercato del lavoro senza sbocchi; ma soprattutto sono i milioni di persone impegnate nel volontariato che gestiscono, in modo per lo più disorganizzato, i centri studio, i piccoli musei, le fondazioni private e l’infinità di beni minori che pullulano, deo gratias, nel nostro paese.
È un enorme giacimento di materia prima intellettuale in cui sono ben presenti tutti i fondamentali per servire in un progetto strategico sostenibile: è intergenerazionale, composto da persone sensibili e votate alla cultura, a partire da quella locale che spesso hanno studiato e amato, con un rapporto con il denaro del tutto strumentale rispetto al progetto personale, da tempo frustrate dal sottoutilizzo e dalla marginalità sociopolitica del quadrante culturale.
È vero che in ogni città questo insieme di soggetti appare come uno sciame disorganizzato e pieno di nicchie di attività intense ma autistiche, ma i fondamentali ci sono, certo più di quanto ci fossero per gli operai all’inizio della rivoluzione industriale o per gli informatici all’inizio di quella digitale.