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La dimensione contemporanea del territorio storico

 

La dimensione contemporanea del territorio storico

Roberto Gambino

POLITECNICO DI TORINO, DIPARTIMENTO INTERATENEO TERRITORIO

 

 

 

1. L’ATTUALITA’ DEL TERRITORIO STORICO

Varie ragioni concorrono oggi a restituire piena attualità alla questione dei centri storici, e più latamente del territorio storico. In primo luogo, la società contemporanea sembra incline o in qualche misura costretta a riportare l’attenzione sul territorio storico perché lo sente minacciato: le trasformazioni in corso mettono palesemente a repentaglio quell’insieme complesso di eredità naturali e culturali, di risorse infrastrutturali, di memorie, depositi immateriali e valori identitari, nonché di valori economici e sociali che forma il capitale territoriale. La difesa di questo capitale collettivo incorporato nel territorio figura sempre più spesso nelle rivendicazioni e nei programmi di ‘resistenza’ delle comunità locali, pur ambiguamente mescolata ad intenzioni di segno opposto. L’erosione di questo capitale, resa evidente dalla scomparsa dei paesaggi tradizionali e di gran parte dei segni superstiti del passato, è avvertita come un sorta di espropriazione collettiva. In secondo luogo, l’attenzione sul territorio storico si nutre di speranze o illusioni sulla possibilità di radicarvi forme anche innovative di sviluppo endogeno e auto-gestito e di recuperare e rafforzare il proprio patrimonio di valori; speranze o illusioni oggettivamente alimentate dal ruolo crescente che le ‘specificità’ territoriali, consolidatesi nei secoli o nei millenni, vanno acquistando nelle dinamiche competitive che si dispiegano alla scala globale. La valorizzazione delle specificità naturali-culturali, non a caso, si ritrova spesso nelle linee strategiche dei programmi di marketing territoriale e dei piani di sviluppo sostenibile, non senza più o meno ambigue alleanze con la rivalorizzazione dei ‘saperi e dei sapori locali’, dei prodotti tipici e del turismo enogastronomico. Se a scala locale la città, con le sue articolate centralità storiche, può essere di nuovo pensata come ‘motore’ dello sviluppo territoriale, a scala globale il patrimonio storico è celebrato come risorsa strategica del ‘sogno europeo’ da contrapporre a quello americano, per la costruzione di quella identità europea di cui l’Europa che si ‘allarga’ è tuttora in cerca. In terzo luogo, l’attenzione per il territorio geograficamente e storicamente determinato, è mossa dall’esigenza di conferire maggior efficacia alle politiche ambientali: la «territorializzazione» delle politiche ambientali – vale a dire l’impegno a calarle il più possibile nelle realtà locali, misurandole coi problemi, le peculiarità, i bisogni e le attese delle comunità locali – è stata riconosciuta con enfasi crescente da Rio (1992), a Bangkok (2004), come un passaggio obbligato per migliorarne l’efficacia.

Ma l’attualità del territorio storico non consiste soltanto nell’importanza che la sua difesa e la sua valorizzazione stanno assumendo nelle dinamiche economiche, sociali e culturali contemporanee. Essa consiste anche e soprattutto nel significato culturale attuale che esso presenta per la società contemporanea. Un significato che, lungi dal potersi ricondurre sempre e soltanto ai valori del passato, trova alimento in processi di significazione aperti e mai conclusi, che continuamente rimettono in discussione i rapporti di percezione e conoscenza, identificazione e appropriazione, uso e fruizione tra le formazioni sociali e i loro territori di riferimento. L’attualità che questi processi continuamente ricreano non nasce quindi da una semplice coincidenza temporale tra dinamiche sociali e dati sistemi di valore, in qualche modo riconosciuti e fissati nella coscienza collettiva, ma nasce ed evolve in funzione della rivisitazione continua delle relazioni che legano soggetti e oggetti, società e territorio. È un’attualità che ricorda da vicino l’«attualità del bello» teorizzata dal Gadamer (1986), fondata sulla perenne e inestinguibile contemporaneità tra l’osservatore e l’opera osservata. È nell’attualità del presente che continuamente si riproduce la contemporaneità del rapporto tra il territorio e i suoi fruitori. Questa contemporaneità implica la relatività storica dei giudizi di valore, attorno ai quali si costruiscono i sistemi di percezione, le immagini e le attese delle comunità insediate. Relatività ribadita dalle evidenze empiriche: basti pensare alla trasformazione dell’orrido in ‘sublime’ nella «invenzione delle Alpi» tra Seicento e Settecento, o all’apprezzamento naturalistico di paludi e zone umide, fino alla prima metà del secolo scorso pensate come terre da bonificare, o alla scoperta dell’archeologia industriale, o all’enfasi sui «paesaggi culturali», solo dal 1992 ammessi dall’Unesco a far parte del patrimonio mondiale dell’umanità. Ma la contemporaneità dei rapporti tra il territorio e i suoi fruitori stimola anche a ripensare le ragioni e il senso della conservazione (del patrimonio naturale-culturale) e la sua tradizionale contrapposizione all’innovazione: se la conservazione «è il luogo privilegiato dell’innovazione» per la società contemporanea, allora molte delle pratiche conservative e il concetto stesso di restauro vanno rimessi in discussione.

 

 

2. LA DILATAZIONE DEL CAMPO

Per tentar di capire i nuovi rapporti, è necessario riprendere il filo di un ragionamento che ha percorso i dibattiti e le riflessioni sulla questione dei centri storici, sfociando nella Nuova Carta di Gubbio del 1990. Proponendo a trent’anni di distanza un aggiornamento integrativo della Carta fondativa del 1960, l’Associazione nazionale centri storico-artistici (Ancsa) affermava allora che il centro storico, «l’area ove si sono concentrati, in ogni città europea, i valori della civitas e dell’urbs, costituisce al tempo stesso il nodo di una struttura insediativa più ampia. Tale struttura, interpretata nel suo secolare processo di formazione, deve essere oggi riguardata come «territorio storico», espressione complessiva dell’identità culturale e soggetto quindi in tutte le sue parti (città esistente e periferia, paesaggi edificati e territorio rurale) di una organica strategia di intervento». Questa affermazione segnava sinteticamente l’approdo di elaborazioni scientifiche, politiche e culturali che avevano costretto ad allargare progressivamente lo sguardo dai singoli monumenti e dai beni culturali al patrimonio insediativo della città esistente, ai paesaggi estesi, ai «sistemi culturali territoriali» ed al territorio intero, infine, nella pienezza dei suoi valori storici e naturali e delle sue articolazioni spaziali; e che conseguentemente avevano dilatato il senso e il campo dell’opzione conservativa, «fondamento di ogni azione innovativa», sempre meno riducibile alla mera preservazione difensiva dei valori in atto, sempre più fondata sul progetto, per essere luogo privilegiato di produzione dei nuovi valori della società contemporanea. Cambiavano le ragioni stesse della conservazione patrimoniale, indissociabili dalle percezioni, dalle attese e dai disegni territoriali delle popolazioni e dai nuovi diritti di cittadinanza (di identità, di natura e di bellezza). Si profilavano nuovi rapporti, più complessi e interattivi, tra conservazione e sviluppo, tra memorie e innovazione, tra riconoscimenti di valore ed opzioni progettuali. La conservazione, si è detto, presuppone sempre – in gradi e forme diverse a seconda della natura, della qualità e dello stato degli oggetti interessati – una certa tensione innovativa, anche soltanto in termini di nuove attribuzioni di senso; e simmetricamente ogni autentica innovazione propone alla società contemporanea un crescente impegno conservativo nei confronti dei siti e delle risorse che costituiscono i materiali stessi degli attuali processi di trasformazione. La produzione di nuovi valori non può separarsi dalla rielaborazione continua di quelli preesistenti (Gambino 1997). Si affermava, così, non una semplice dilatazione spaziale del campo d’attenzione, non un mero cambiamento di scala, ma una nuova filosofia di comportamento nei confronti dell’eredità storica e naturale e dei suoi rapporti con i territori della contemporaneità, destinata a ripercuotersi sulle concezioni della città, dei centri storici e del paesaggio, travolgendo molte consolidate separazioni e aprendo attese di riforma.

 

 

3. I CAMBIAMENTI DEL CONTESTO

L’allargamento del campo d’attenzione proposto dalla Carta del 1990 ha consentito di percepire tempestivamente (pur senza significative ricadute operative) alcuni aspetti chiave dei cambiamenti in corso: cambiamenti che tuttavia hanno subìto in questi anni drammatiche accelerazioni. Una particolare considerazione va rivolta al paesaggio, in quanto parte integrante (come recita l’art. 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, del 2004) del patrimonio culturale. A dispetto dell’attenzione che le amministrazioni pubbliche e la stessa opinione pubblica sembrano tributare alla questione del paesaggio non solo nel nostro paese, non si può evitare di constatare che il patrimonio paesistico ha subìto negli ultimi cinquant’anni un processo disarmante di devastazione e di degrado. Potenti fattori di cambiamento – come l’espansione delle città e la diffusione insediativa extraurbana, la proliferazione delle infrastrutture, l’industrializzazione agricola, la riconversione produttiva e lo sviluppo del turismo – hanno investito l’intero territorio, interagendo con esiti diversificati, a seconda dei caratteri generali dei quadri ambientali interessati e dei caratteri specifici determinati, nei diversi contesti, dagli sviluppi storici pregressi. Quei paesaggi che ancora alla metà del secolo scorso si presentavano relativamente omogenei, come i tipi di paesaggio individuati in Italia dal Sestini (1957) sono stati attraversati da dinamiche di trasformazione, che hanno tranciato, spesso irreversibilmente, i preesistenti equilibri, cancellato le dense trame delle antiche articolazioni produttive e i segni diffusi del lavoro della terra, disperso un patrimonio inestimabile di valori. Le spinte omologatrici che hanno investito la campagna hanno ipersemplificato e banalizzato i paesaggi agrari ereditati da secoli di storia e descritti dal Sereni (1961), in larga misura identificabili come irripetibili «paesaggi culturali», smantellandone i reticoli ecologici (fossi, canali, siepi ed alberate, etc.), presidio prezioso della diversità biologica e della stabilità ecosistemica. Lungo le coste, lo sviluppo distorto del turismo ha ormai colpito quasi ovunque il rapporto complesso, ecologico e paesistico, tra la terra e il mare, con effetti pervasivi assai più pesanti di quelli determinati dagli ‘ecomostri’ che richiamano saltuariamente l’attenzione mediatica. Nelle inconfinabili periferie urbane e metropolitane e nelle aree della diffusione insediativa l’erosione dello spazio rurale è generalmente lontana da ogni tentativo di dar forma e qualità ai nuovi contesti abitativi, crescentemente dominati dalle emergenze fisiche dei ‘non luoghi’ commerciali, produttivi o tecnologici. Non minor indifferenza per le specificità dei luoghi e per i valori dei «paesaggi originari» caratterizza lo sviluppo imponente degli apparati infrastrutturali (dalle autostrade alle nuove ferrovie, alle reti energetiche, etc.). E, d’altra parte, le nuove differenze prodotte dalle spinte innovative e dalla specializzazione delle traiettorie evolutive, se concorrono a formare nuovi «ambienti insediativi» in esito ad inediti incroci tra quadri ambientali, matrici territoriali e forme insediative (Clementi et al. 1996), ben raramente pervengono a disegnare nuovi credibili paesaggi, in grado di prendere il posto di quelli alterati o distrutti. Una generale, insondabile, perdita di memoria sembra caratterizzare la trasformazione territoriale dell’ultimo mezzo secolo e legare strettamente la questione del paesaggio a quella del patrimonio storico. E il gioco della memoria non riguarda soltanto il patrimonio storico ma anche quello naturale, mai indenne da forme più o meno stratificate di rielaborazione antropica (Schama 1995).

 

 

4. LA CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO

Nel nostro paese i processi di degrado e distruzione del patrimonio paesistico e culturale sono stati inadeguatamente contrastati, più spesso tollerati o assecondati – in nome di attese spesso illusorie di sviluppo – dagli apparati di governo, a livello nazionale, regionale e locale. Il sistema politico e la stessa opinione pubblica, nonostante il pungolo di gruppi e associazioni conservazioniste, solo negli ultimi anni hanno mostrato un principio di consapevolezza delle poste in gioco, della gravità dei rischi e delle opportunità connesse alla valorizzazione del paesaggio. Ma non è un problema soltanto italiano. In generale, i diversi paesi europei hanno affrontato la questione paesistica con sensibilità, approcci, strumenti istituzionali e azioni di governo assai diversi e non coordinati. Il ruolo del paesaggio come fattore d’identità europea e la crescente dipendenza dei loro problemi paesistici ed ambientali dalle dinamiche e dalle politiche europee hanno da tempo posto l’esigenza di una politica europea del paesaggio. È in questa direzione che si è mosso il Consiglio d’Europa, nel proporre la Convenzione europea del paesaggio, firmata a Firenze nel 2000 dai quarantacinque paesi membri e recentemente ratificata anche dal nostro paese. La Convenzione fornisce al riguardo alcuni orientamenti di fondo, che dovrebbero assicurare da un lato la convergenza delle politiche settoriali europee (soprattutto di quelle a maggior impatto paesistico-ambientale, come quelle agricole) e dall’altro l’armonizzazione delle politiche paesistiche nazionali e dei loro sistemi di guida e di controllo. Consacrando politicamente le concezioni che si sono prima richiamate, la Convenzione impegna le parti interessate in alcune innovazioni di grande rilievo. In particolare: a) l’affermazione netta ed esplicita che gli obiettivi di qualità paesistica da perseguire non riguardano pochi brani di paesaggi di indiscusso valore (quali le bellezze naturali o le emergenze sceniche o panoramiche) ma riguardano l’intero territorio, «gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani […] i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati» (art. 2); b) il pieno riconoscimento del significato complesso del paesaggio in quanto «parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni» (art. 1a) e «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità» (art. 5a); c) il sistematico riferimento ai «soggetti interessati» o «coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche» anche per quanto concerne la valutazione delle risorse paesaggistiche, che deve «tener conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate» (art. 5c, 6c) e le conseguenti procedure di consultazione e partecipazione.

 

 

5. IL RIPENSAMENTO “RETICOLARE” DEL TERRITORIO

Gli spunti innovativi della Convenzione congiuntamente riflettono una concezione dei rapporti tra paesaggio e territorio che non consente in alcun modo di isolare spazialmente i testi paesistici, separandoli dal loro contesto territoriale. L’idea (non di rado corrente nel linguaggio comune) che i paesaggi riguardino gli spazi aperti, i territori extraurbani o le «bellezze naturali» è del tutto estranea a questa concezione. La dimensione paesistica è presente all’interno dei centri storici e della città compatta (nelle varie forme del townscape) non meno che negli spazi rurali e nelle ‘campagne urbanizzate’ della dispersione insediativa, negli spazi ingannevoli della ville-nature agognata dagli abitanti in fuga dalle città, e nei grandi spazi naturali disabitati ma traguardati e in qualche modo frequentati dall’uomo. La «dissoluzione della città nelle reti territoriali», incrociata agli imponenti processi d’abbandono che hanno interessato e interessano non solo quote rilevanti dei territori di montagna e di collina, ma anche importanti aree produttive e impianti obsoleti dismessi ‘dentro’ alla città, ha cancellato ogni possibilità di dividere gli spazi aperti da quelli stabilmente occupati dall’uomo. Se già per Cattaneo a metà dell’Ottocento i «paesaggi edificati» non erano solo quelli occupati da case e industrie ma quelli modellati dall’insediamento umano e dalle sue esigenze produttive (tipicamente, allora, le campagne milanesi splendidamente riorganizzate dalle riforme teresiane), ben più intricati e complessi sono oggi i paesaggi della transizione, i patchwork che provvisoriamente disegnano le frontiere mobili della peri-urbanizzazione urbana e metropolitana. Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e attualizzare l’idea delle «cinture verdi», nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul territorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e paesaggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. Non a caso nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche – per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesistica del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate – ha assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (Ced-Ppn 2003). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni biologiche, di collegamento tra habitat e risorse naturali che rischiano l’insularizzazione, ma assumono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegando risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove infrastrutture ambientali capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno importante di quello tradizionalmente assegnato alle reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo ‘in uscita’ dalla città, vale a dire verso i territori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche ‘in entrata’, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a «riportare la natura in città» (greening the city), per i progetti di recupero e riqualificazione delle fasce fluviali e per i sistemi delle acque storicamente consolidati, per il riuso non meramente immobiliare dei «vuoti urbani» e delle grandi aree dismesse, segnala il maturare di una nuova consapevolezza dei grovigli di deficit che occorre rimuovere. È in questo quadro che va collocato il grande tema degli spazi di relazione nella città storica: delle piazze e delle vie, dei luoghi e delle loro connessioni, dei solchi fluviali che spesso la attraversano e del verde urbano che le consente di respirare. Non mera architettura di contesto, ma sistema connettivo diramato e complesso che lega esterno ed interno, eredità storiche e dinamiche ambientali. Non è forse un caso che l’attenzione per il contesto abbia ceduto terreno, nel dibattito disciplinare dell’ultimo decennio, all’attenzione per il paesaggio, nel significato ampio e comprensivo che si è ormai imposto a livello internazionale. Se infatti la nozione di contesto, nella versione co-evolutiva, aiuta a porre in relazione fatti apparentemente slegati, quella di paesaggio va oltre. In quanto fondamento delle identità locali, il paesaggio non si limita a porre in rete quei fatti e processi naturali e culturali che connotano i quadri ambientali, ma li ‘mette in scena’, li esibisce e spettacolarizza. Ed è proprio questa spettacolarizzazione – il paesaggio come ‘teatro’, in cui agiscono attori che diventano spettatori di se stessi (Turri 1998) – che spiega forse il successo mediatico che si registra attorno agli eventi che creano o ripropongono i paesaggi urbani o i grandi paesaggi territoriali.

 

 

6. LA TUTELA DEL PATRIMONIO ALLA LUCE DEL CODICE DEI BENI CULTURALI E DEL PAESAGGIO

L’ampia visione proposta dalla Convenzione di Firenze postula una filosofia di comportamento nei confronti del patrimonio culturale e del paesaggio che non ha ancora trovato adeguato riscontro nelle pratiche sociali e soprattutto nelle politiche pubbliche. Lo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 rispecchia solo in parte questa filosofia e lascia intravedere altri modelli di comportamento. Alla luce degli orientamenti osservabili a livello internazionale, ci si può chiedere quali problemi di politica del paesaggio e del patrimonio si profilino nel nostro paese, dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio. Un primo problema aperto riguarda la latitudine del campo di tutela. Se infatti il Codice allarga implicitamente la considerazione dei «beni paesaggistici» a tutto il territorio (o più precisamente a tutti i beni individuati dai piani paesaggistici, anche non compresi tra quelli «di notevole interesse pubblico» o tra quelli rientranti nelle categorie corrispondenti a quelle già tutelate ai sensi della legge 1497/1939 e della Legge Galasso, art. 134), questa dilatazione sembra lontana dalle pratiche correnti e dalle tradizioni di tutela, soprattutto nel nostro paese. Non è un caso che anche nel Codice si faccia esclusivo riferimento ai «beni culturali» e ai «beni paesaggistici» quali oggetti distinti di tutela e mai ai sistemi di relazioni che li legano strutturando il territorio. La cosa non stupisce: l’idea che l’opzione conservativa debba allargarsi all’intero territorio sembra, in realtà, fragile e perdente di fronte alle minacce e ai rischi incombenti, come tipicamente in Italia le aggressioni dilaganti dell’abusivismo (incoraggiato dai ricorrenti condoni) o la svendita dei beni pubblici (accelerata dai contestati provvedimenti legislativi degli ultimi anni). L’urgenza dell’azione di difesa sembra a molti operatori della conservazione (e anche a molti detrattori dello stesso Codice) indurre più di ieri a concentrare gli sforzi sulle cose di maggior valore – come i monumenti, le aree naturali di maggior pregio, o i paesaggi di pregio eccezionale – o a cercare di ‘salvare il salvabile’. Ma non si salva il paesaggio se non si salva il Paese. Staccare i monumenti o le «bellezze naturali» dal variegato mosaico di paesaggi umanizzati (pur frequentemente deturpati o sconvolti dalle trasformazioni recenti) che costituisce il volto vero del nostro come di altri paesi europei, significa ignorare le ragioni profonde che stanno alla base dell’attuale domanda di qualità, il ruolo dei valori identitari e il radicamento territoriale delle culture locali, il rapporto costitutivo che lega la gente ai luoghi.

Per evitare questa spaccatura, occorre passare da una logica ‘per oggetti’ ad una logica ‘per sistemi’, allargando l’attenzione all’intero territorio: è questa la strada obbligata per cogliere le differenze, diversificare l’azione di tutela, rispondere diversamente, nelle diverse situazioni, alla domanda di qualità. A differenza del «bene culturale», che ne costituisce una componente, il patrimonio naturale-culturale è necessariamente connesso al territorio ed ai suoi processi di sviluppo. Esso non è «nel» territorio ma «del» territorio. La sua valorizzazione non ha senso compiuto che come valorizzazione territoriale. L’uso dell’espressione «sistema culturale territoriale» in alcuni progetti europei (Euromed, Progetto Delta, 2002) tende a rendere esplicita questa connessione, proponendone un’articolazione operativa: un «sistema culturale territoriale» può essere definito come «il contesto relazionale evolutivo nel quale possono essere efficacemente perseguiti progetti di valorizzazione integrata del patrimonio culturale, mettendo in rete l’insieme delle risorse e degli attori locali e sviluppando le necessarie sinergie». È «il patrimonio, sotto le sue diverse forme (materiali o immateriali, morte o viventi) che fornisce allo sviluppo un terreno. Lo sviluppo non potrebbe infatti aver luogo staccato dal suolo.[…] Il patrimonio costituisce in questo senso una ‘risorsa locale’ che non trova la sua ragion d’essere che nell’integrazione con le dinamiche dello sviluppo» (de Varine 2002). Un secondo problema, strettamente connesso al precedente, concerne la divisione tra i «beni culturali», cui è dedicata la parte seconda e più cospicua del Codice, e i «beni paesaggistici», cui è dedicata la parte terza. È una divisione ben comprensibile alla luce delle tradizioni nazionali in materia di conservazione, ma difficile da sostenere sul piano strettamente scientifico e culturale (come si è già rilevato, le nuove concezioni del patrimonio tendono piuttosto ad abbattere le vecchie divisioni e a conferire al patrimonio paesistico un’accezione assai ampia e comprensiva) e difficile da praticare sul piano applicativo. Basti pensare ai centri storici, praticamente assenti dal Codice del 2004 se non ridotti alla figura di «monumenti complessi», chiaramente superata dal dibattito degli ultimi decenni: essi infatti non figurano nel pur minuzioso elenco dei tipi di beni culturali – l’art. 10 sembra anzi quasi negarne l’esistenza, nel momento in cui cita invece esplicitamente «le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico», come se in questi si esaurisse il ruolo complesso ed integrante dei centri storici – e sono esplicitamente esclusi dalle categorie di beni paesaggistici tutelati per legge (art. 142, c. 2, lett. a). Va però segnalato che le modifiche recenti del Codice (art. 136) hanno inserito i centri storici e le zone di interesse archeologico tra le aree di notevole interesse pubblico da tutelare. Naturalmente nulla esclude che i piani urbanistici o quelli paesaggistici dedichino particolari tutele a determinati centri storici, ma è curioso che il Codice, almeno nella sua prima versione, non colga la rilevanza generale degli insediamenti storici – e in sostanza della città, in tutte le sue articolazioni storiche anche recenti – come struttura di base del patrimonio culturale territoriale. Un terzo e cruciale problema concerne la separazione tra tutela e valorizzazione, peraltro già introdotta con la riforma del Tit.V della Costituzione (art. 117), che distingue «la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» di competenza esclusiva dello Stato, dalla «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Nonostante non manchino i richiami alla necessità di integrare tutela e valorizzazione con l’azione concorde di Stato e Regioni (e a prescindere dalle incertezze interpretative: vedi sentenza della Corte Costituzionale n. 407/2002), sembra evidente che proprio a questo riguardo il Codice manchi all’appuntamento più importante, quello dei nuovi rapporti tra conservazione e sviluppo sostenibile. Come si è già ripetutamente osservato, questi rapporti sono tanto più stretti e condizionanti quanto più la conservazione tende ad allargarsi a tutto il territorio, interessando le aree e i sistemi della marginalità e dell’abbandono, che coprono ormai una larga parte del territorio nazionale: qui non solo le misure di vincolo e protezione passiva, se sganciate dalle politiche di investimento e di sostegno economico e sociale, non possono concorrere alla rivalorizzazione territoriale, ma in molti casi non possono neppure essere concretamente applicate (quali vincoli, ad esempio, potrebbero mai fermare lo sfacelo dei versanti terrazzati o la ruderizzazione incalzante dei villaggi montani?). Ma la separazione tra tutela e valorizzazione rischia, ancor più in generale, di nascondere un problema di fondo del nostro paese, quello della prevenzione dei rischi. Un problema che torna alla luce dei riflettori mediatici solo in occasione di alluvioni o frane catastrofiche o di grandi sismi distruttivi, soprattutto se con vittime umane. Un problema che ha invece carattere strutturale, in un paese ad alto e diffuso rischio idrogeologico e in cui una parte rilevante del patrimonio edilizio ed urbanistico (comprese le scuole, gli ospedali, i servizi pubblici essenziali) è di vecchio impianto, fragile e vulnerabile, in condizioni ben lontane dalle soglie di sicurezza. Questo ci collega ad un quarto problema, quello appunto della valorizzazione economica del patrimonio culturale e paesistico. Fare i conti della valorizzazione, nel senso che si è appena indicato, cogliere le necessità e le opportunità economiche e sociali che essa comporta per i territori coinvolti, è infatti l’esatto contrario di quella ‘svendita’ che, secondo molti critici, il nuovo Codice rischia di propiziare o almeno agevolare, nella direzione già imboccata con precedenti provvedimenti come la legge 112/2002 (Ancsa 2003) e in piena sintonia con i famigerati provvedimenti sul condono. Una valorizzazione del patrimonio volta a ridurre le penalità e i rischi presenti nel territorio e ad accrescerne il valore aggiunto richiede infatti una valutazione attenta ed integrata dei costi e dei benefici, delle esternalità positive e negative che le azioni previste possono produrre, ben al di fuori delle aree e degli immobili direttamente interessati. È del tutto evidente, alla luce dell’esperienza quotidiana non solo nel nostro paese, che, a fronte di ritorni economici rapidi e significativi per le singole operazioni immobiliari, possono prodursi costi collettivi, più o meno monetizzabili, assai più rilevanti nel medio e lungo termine. È soprattutto il rischio di questa possibile divaricazione (più che un preconcetto avverso al coinvolgimento dei privati nei processi di valorizzazione), che induce a guardare con sospetto quelle norme, come quelle sul silenzio-assenso ai fini della sdemanializzazione, esplicitamente rivolte ad agevolare l’alienazione dei beni di proprietà pubblica, riducendo i sistemi di garanzie. Soprattutto se, come le prime esperienze applicative delle nuove normative hanno mostrato, l’obiettivo si riduce a quello di ‘far cassa’ e di tentare di sanare i conti pubblici gettando sul mercato i ‘gioielli di famiglia’, e rinunciando deliberatamente a quella considerazione integrata di costi e benefici che si è sopra richiamata. Contro il rischio di alienazioni o svendite che sprechino o addirittura distruggano le risorse patrimoniali, del tutto inadeguato appare l’argine previsto dal Codice nella forma della «verifica dell’interesse culturale» dei beni in discussione (art. 12) o della preventiva elencazione dei «beni inalienabili» (art. 54) che, ancora una volta, riporta l’attenzione dal sistema all’oggetto, dal territorio al settore, dalla valorizzazione attiva e integrata, alla difesa passiva ed episodica. Uno spostamento tanto più preoccupante in quanto avviene in carenza di una adeguata conoscenza della reale consistenza del patrimonio interessato, presumibilmente assai rilevante, ove si considerino non solo le proprietà edilizie, ma anche le aree del demanio civile e militare.

 

 

La relazione riprende in parte, con correzioni e integrazioni, quella presentata dall’autore, sotto il titolo Politiche europee del paesaggio al convegno organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, 1-2 ottobre 2004) sul tema Sulla città oggi; nonché quella presentata, sotto il titolo Patrimonio storico e paesaggio al convegno nazionale dell’ANCSA (Bergamo, 13 maggio 2006), sul tema Spazi aperti nei contesti storici.

 

 

 

 

 

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ciata agli imponenti processi d’abbandono che hanno interessato e interessano non solo quote ri- levanti dei territori di montagna e di collina, ma anche importanti aree produttive e impianti ob- soleti dismessi ‘dentro’ alla città, ha cancellato ogni possibilità di dividere gli spazi aperti da quelli stabilmente occupati dall’uomo. Se già per Cattaneo a metà dell’Ottocento i «paesaggi edifi- cati» non erano solo quelli occupati da case e in- dustrie ma quelli modellati dall’insediamento umano e dalle sue esigenze produttive (tipica- mente, allora, le campagne milanesi splendida- mente riorganizzate dalle riforme teresiane), ben più intricati e complessi sono oggi i paesaggi del- la transizione, i patchwork che provvisoriamente disegnano le frontiere mobili della peri-urbaniz- zazione urbana e metropolitana.

Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e at- tualizzare l’idea delle «cinture verdi», nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul ter- ritorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e pae- saggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. Non a caso nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesisti- ca del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate ha assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (CED-PPN 2003). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni bio- logiche, di collegamento tra habitat e risorse na-

turali che rischiano l’insularizzazione, ma assu- mono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegan- do risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove infrastrutture am- bientali capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno im- portante di quello tradizionalmente assegnato al- le reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo ‘in uscita’ dalla città, vale a dire verso i terri- tori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche ‘in entrata’, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a «riporta- re la natura in città» (greening the city), per i pro- getti di recupero e riqualificazione delle fasce flu- viali e

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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NATURE, Proceedings of the Members’ Business As- sembly, 3th World Conservation Congress (Bang- kok, 17-25 November 2004), IUCN, Gland

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