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Il paesaggio come creazione di valore: tre domande chiave

Il paesaggio come creazione di valore: tre domande chiave

di Roberto Gambino

Intervento a convegno OLBIA 2009

 

 

I.

Il paesaggio come terreno di confronto

Nell’ultimo decennio, soprattutto a partire dalla Convenzione europea del paesaggio (CE, 2000), le esperienze di pianificazione territoriale, le pratiche di governo e il dibattito internazionale hanno conferito al paesaggio una crescente rilevanza politico-culturale. Il paesaggio è diventato sempre più, da semplice oggetto di studio, terreno di frontiera, di scontro o di confronto, che sfida la cultura del territorio reclamando risposte nuove a domande in parte antiche. Questo è particolarmente evidente se – come in questo convegno – si affronta il tema dei rapporti tra il paesaggio e il turismo. Nonostante il facile consenso che si raccoglie sull’interpretazione “positiva” di questi rapporti (e quindi dello slogan che dà il titolo al convegno: Paesaggio e turismo), non c’è dubbio che si tratta di rapporti potenzialmente conflittuali: le contese sulla pianificazione paesaggistica della Sardegna ne sono una prova eloquente. Basta pensare al paradosso di fondo che caratterizza il turismo: un’attività che dipende crucialmente dalla ricchezza e integrità di quelle stesse risorse, naturali e culturali, che tende a divorare. L’esperienza e le analisi valutative hanno da tempo messo in luce molti aspetti critici. Fra questi, l’ineguale distribuzione dei costi e dei benefici: in senso spaziale (il successo delle località turistiche è spesso pagato dall’abbandono di altre aree, anche contigue); in senso sociale (i vantaggi premiano di regola i cittadini istruiti del ceto medio, mentre le penalizzazioni si scaricano spesso sui contadini, i montanari e altre fasce deboli); e in senso temporale (molti benefici sociali od economici si manifestano nei tempi lunghi, mentre i costi o le ricadute negative spesso non si fanno attendere). In prospettiva internazionale, il divario tra gli interessi e bisogni locali e quelli che si manifestano nelle reti globali (in particolare dai grandi tour operator) è spesso tale da soverchiare la tradizionale contrapposizione tra benefici economici e costi ambientali: nel forum ospitato recentemente dall’Unione mondiale della natura, la domanda “a chi giova” ha messo impietosamente in discussione l’idea che lo sviluppo turistico possa comunque favorire il decollo dei paesi sottosviluppati, seppure a prezzo di danni ambientali. Nell’esperienza di molte regioni europee, i costi ambientali del turismo sono stati e sono tuttora pesantemente accentuati dalle spinte che il mercato immobiliare (seconde case, villaggi turistici, grandi complessi alberghieri, porti turistici ecc.) esercita sulle dinamiche dell’offerta turistica. I meccanismi della rendita tendono in sostanza ad esasperare le contraddizioni di fondo della fenomenologia turistica, che tende da un lato a promuovere la “modernizzazione” economica, sociale, culturale e paesistica, dall’altro a schiacciare le pulsioni innovative sotto il peso delle convenienze “inerziali”. Ciò è particolarmente evidente nell’esperienza dei “grandi eventi”, che spingono, in nome dell’“emergenza”, a “far piovere sul bagnato” – come tipicamente è successo nelle Olimpiadi invernali del 2006 nell’area torinese, che, ad onta delle buone intenzioni dichiarate, hanno finito col privilegiare le grandi stazioni esistenti, in grado di mettere rapidamente a disposizione un capitale importante di attrezzature, impianti e know how (Bottero, 2007).

Ma i conflitti che le politiche del paesaggio debbono affrontare non riguardano solo il turismo e i grandi eventi. Si configurano sindromi complesse di problemi irrisolti, criticità, attese e sofferenze, ambiguamente intrecciate con le nuove opportunità che si dischiudono, a fronte delle quali è lecito chiedersi se non si possa parlare di una “questione paesistica” (che si affianca e in parte si identifica con la “questione ambientale”), analoga alla “questione urbana” che si dibatté negli anni Settanta. Una questione del paesaggio che, incrociando i processi di globalizzazione, implica nuovi rischi e nuove minacce incombenti sulla società contemporanea e mette in discussione paradigmi, statuti e concezioni consolidate nei più diversi ambiti disciplinari, a cominciare da quello della geografia, nel quale il concetto stesso di paesaggio ha preso forma compiuta. La riflessione sui nuovi paesaggi della geografia può utilmente prendere le mosse da alcune domande cruciali che le politiche del paesaggio si trovano oggi a fronteggiare. Domande che affiorano nel dibattito internazionale (valga per tutti il riferimento all’UNESCO, impegnato ad andare ben oltre il riconoscimento, nel 1992, dei «paesaggi culturali» tra i siti inseribili nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità: Feilden, Jokilehto, 2007) e a maggior ragione nel quadro della Convenzione europea del paesaggio (CEP), promossa nel 2000 dal Consiglio d’Europa. Ma domande, anche, che trovano preciso riscontro nelle consolidate tradizioni italiane della tutela paesistica, nel riconoscimento costituzionale (Costituzione, art. 9) del primato accordato a tale tutela e nelle tormentate vicende di rielaborazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004-2008). Domande, quindi, che la pianificazione territoriale e paesaggistica, in tutti i contesti e a tutti i livelli, non può evitare di porsi e che possono così riassumersi:

1. Di quali valori tratta il paesaggio? Quali sono le poste in gioco nella sua tutela e gestione?

2. Si tratta di riconoscerli o di crearli? Che senso ha la loro conservazione?

3. Chi sono i soggetti coinvolti nella gestione del patrimonio paesaggistico? E in che modo?

 

 

2

Valori universali o valori territoriali locali?

La CEP ha sancito il principio che la tutela del paesaggio – in quanto espressione delle culture locali e fondamento delle loro identità – non riguarda poche aree di particolare pregio paesaggistico ma l’intero territorio; e vi è generale consenso nel constatare che tale affermazione non implica una semplice dilatazione spaziale del campo d’osservazione, ma costringe a ripensare il rapporto tra paesaggi e territorio.

Il paradigma implicito nella Convenzione UNESCO del 1972 non sembra adeguato a cogliere questi nuovi rapporti. Esso ruota infatti attorno al concetto di «eccezionali valori universali» e fa riferimento a beni o siti di intrinseca rilevanza, autenticità e integrità, in quanto tali distinguibili dal contesto, chiamati a rappresentare e celebrare una eredità che appartiene all’umanità intera, senza vincoli di proprietà, appartenenza o identità nei confronti delle comunità locali. In parte, questo paradigma ha trovato finora riscontro anche nella logica con cui l’Unione mondiale della natura ha promosso le politiche di conservazione della natura e più specificamente le politiche delle aree naturali protette. Queste fanno riferimento a sei categorie, di cui la quinta (assai diffusa nei paesi europei) è costituita dai «paesaggi protetti», nei quali la lunga interazione tra l’uomo e la natura ha prodotto aree di carattere distintivo, di significativo valore ecologico, biologico, scenico o culturale (IUCN, 1994). Sebbene sia attualmente in corso, in seno all’IUCN, un rilevante spostamento d’attenzione dalle singole aree alle loro «reti di connessione» (IUCN, 2003, 2004), il concetto dei paesaggi protetti, così come sono interpretati nella maggior parte delle esperienze europee (Gambino, Talamo, Thomasset, 2008) sembra in larga misura assimilabile a quello dei paesaggi culturali considerati dall’UNESCO.

È solo con la Convenzione europea del paesaggio che si propone un approccio esplicitamente “territorialista”, che sposta l’accento dai singoli paesaggi (le “isole di pregio”, le “eccellenze”, le aree di valore intrinseco ed eccezionale) al patrimonio paesaggistico diffuso in tutte le sue articolazioni locali. È in questo nuovo paradigma che prende forza il significato complesso e pervasivo dei valori paesistici locali e si delinea il necessario riferimento alle percezioni, alle attese e alle responsabilità gestionali delle popolazioni direttamente interessate. La tutela del paesaggio cessa di proporsi in nome soltanto di principi universali (la salvaguardia del Patrimonio culturale dell’umanità intera, come nella Convenzione UNESCO, o la conservazione della biodiversità come nello schema dell’IUCN) per collocarsi invece al centro delle rivendicazioni locali a favore della qualità e sostenibilità del contesto di vita delle popolazioni, della difesa delle culture locali e dei loro fondamenti identitari. La domanda sociale di paesaggio, in questa chiave interpretativa, si collega strettamente all’affermazione delle istanze dello sviluppo locale e dei diritti inalienabili delle popolazioni locali, compresi quelli che riguardano la qualità e la bellezza dei luoghi.

Tuttavia, nonostante il successo mediatico delle retoriche “localiste” e il forte impulso territorialista impresso dalla CEP, la questione del paesaggio non è certamente affrontabile senza un chiaro ed esplicito riferimento ai principi di base ed ai valori universali. Anzi, il preoccupante «arretramento dei valori universali» di fronte ai particolarismi dei gruppi e delle comunità (Touraine, 2008), la frantumazione dei valori identitari e la drammatica esplosione delle «identità armate» (Remotti, 1996) e delle affermazioni fideistiche pongono sempre più spesso il paesaggio al centro di scontri di valori. Valori locali e valori universali non sono necessariamente contrapposti, ma la loro tutela può richiedere strategie diverse, potenzialmente in contrasto. L’integrazione delle opzioni paesistiche nelle politiche e nel governo del territorio (esplicitamente richiesta dalla CEP) comporta difficili arbitraggi e richiede di rispondere a domande come le seguenti:

– Come si concilia il riconoscimento dei valori universali del paesaggio (quali quelli che determinano l’inclusione nelle liste del patrimonio mondiale) col riconoscimento dei valori identitari locali perseguito dalla CEP?

– Come si concilia la logica “delle eccellenze”, dei beni paesaggistici di intrinseco ed indiscusso prestigio (in quanto tali staccabili dal paese reale) con quella dei valori diversificati e diffusi in tutto il territorio, e dei sistemi di valore che fanno parte inscindibile del territorio?

– Come si concilia la difesa dei valori naturali e della biodiversità con quella dei valori estetici e simbolici (di cui ad esempio il Codice del 2004 afferma implicitamente la priorità)?

Per riscoprire il valore del paesaggio, uscendo dalla sterile contrapposizione tra valori locali e valori universali, occorre ripensarne il rapporto col territorio, tra visto e vissuto, tra la produzione incessante di nuove immagini e rappresentazioni paesistiche e i sottostanti processi di territorializzazione. In questo orizzonte dilatato, gli scontri di valori devono sempre più cedere il passo al confronto argomentato e trasparente dei diritti in gioco.

 

 

3

Riconoscimento o creazione di valori?

Piani e programmi degli ultimi decenni hanno sempre più spesso inseguito l’obiettivo di «ripartire dall’ambiente e dal paesaggio» come base o pre-condizione su cui costruire le scelte di trasformazione del territorio. L’interpretazione “strutturale” del territorio, il riconoscimento dei suoi caratteri stabili o permanenti, la ricostruzione degli «statuti dei luoghi», l’individuazione delle cosiddette «invarianti», hanno assunto il significato di un «riconoscimento pregiudiziale di valori» che le scelte di trasformazione non possono mettere in discussione. In alcune regioni, questo significato ha trovato anche riscontro nell’apparato legislativo. Questa attribuzione di una più o meno esplicita valenza “normativa” al riconoscimento dei caratteri e dei valori del paesaggio, ha richiesto e richiede un tentativo di lettura e comprensione olistica del territorio di cui il paesaggio stesso è l’espressione dinamica ed evolutiva. Lettura che non poteva non richiamare le suggestioni del pensiero geografico, a partire almeno da von Humboldt (1860; Quaini, 1992), ma che non può evitare di confrontarsi con gli altri sviluppi specialistici consolidatisi nell’ultimo secolo in diversi ambiti disciplinari: in particolare col ruolo egemone dell’ecologia del paesaggio – soprattutto dopo la svolta degli anni Sessanta in cui si profila il «new determinism» di McHarg (1966) ed altri, come Forman e Godron (1986), Steiner (1994) – con la solidità degli approfondimenti storici e archeologici, con le stimolanti provocazioni degli economisti, degli agronomi, dei sociologi ed antropologi, con le “incursioni” degli architetti e degli urbanisti, con i nuovi sviluppi delle analisi estetiche e semiologiche. Sviluppi ed approfondimenti che hanno favorito un approccio “scientifico” alla questione del paesaggio, concorrendo a superare il confuso impressionismo delle opzioni di tutela e i vagheggiamenti nostalgici di un passato pre-industriale e pre-moderno, non meno che l’arroganza progettuale implicita nel «plaisir superbe de maitriser la nature». È un approccio che tende a consolidarsi e che comporta una “interpretazione” multilaterale, che non può nascere dal semplice accostamento delle molteplici letture disciplinari, ma richiede che esse interagiscano confrontandosi e fecondandosi a vicenda e convergendo in un quadro interpretativo unitario. Nonostante le difficoltà che si frappongono ad ogni tentativo di ricognizione inter- o trans-disciplinare, gli sforzi in questa direzione consentono di radicare nelle concrete realtà territoriali le scelte di tutela e gestione del paesaggio, motivandole, argomentandole e giustificandole nei confronti di ogni altra scelta di trasformazione e di sviluppo. Ma l’ambiente e il paesaggio non sono mai “un dato”, fisso ed immutabile, non sono mai separabili dal loro divenire. Anche in presenza dei più intoccabili valori, anche di fronte agli «outstanding universal values» che meritano l’inserimento nel Patrimonio mondiale dell’umanità, l’azione conservativa e le misure di protezione devono confrontarsi con il cambiamento: cambiamento dei dati fisici dell’ambiente e del paesaggio o anche e soprattutto dei modi con cui tali dati sono percepiti e interpretati nella insopprimibile attualità del presente. Questo riguarda direttamente i paesaggi “culturali”, come gran parte dei paesaggi agrari ereditati dal passato, il cui interesse paesaggistico nasce non tanto dalla coerente rappresentazione delle attuali attività agroforestali, quanto piuttosto dalla memoria o dalla nostalgia di quelle pregresse: un desiderio di paesaggio che nasce dalla nostalgia del territorio (Raffestin, 2007). Ma il cambiamento incessante dei rapporti del paesaggio col territorio interessa tutti i paesaggi: «anche i paesaggi che crediamo più indipendenti dalla nostra cultura possono, a più attenta osservazione, rivelarsene invece il prodotto» (Schama, 1995).

Questo richiama l’attenzione sul ruolo culturale del paesaggio, in quanto processo di significazione (Barthes, 1985) e di comunicazione sociale (Eco, 1975). Se si riconosce il duplice fondamento – naturale e culturale – dell’esperienza paesistica, occorre anche riconoscere che il sistema segnico costituito dalla sostanza sensibile del paesaggio non può in alcun modo ridursi ad un insieme “dato” di significati. La semiosi paesistica è un processo sempre aperto, in cui la dinamica delle cose – l’ecosfera – è inseparabile dalla dinamica dei significati – la semiosfera – e quindi dai processi sociali in cui questa si produce (Dematteis, 1998). La complessità del paesaggio si manifesta proprio nell’insopprimibile apertura dei processi di significazione che riesce ad attivare, nella molteplicità ed imprevedibilità degli approdi semantici. D’altra parte, questa apertura dinamica investe l’ambiguità intrinseca del paesaggio, la sua capacità di alludere insieme alle cose e alla loro immagine, alla res extensa e alla res cogitans; ambiguità che non va confusa con le incertezze semantiche del termine e che appare feconda proprio perché mantiene aperto e metaforico il suo significato: se ridotto a realtà oggettivabile e neutralmente quantificabile il paesaggio perderebbe il suo significato primario di «processo interattivo, osservazione incrociata tra idee e materialità» (Bertrand, 1998).

Queste constatazioni, se da un lato inducono ad utilizzare con cautela il concetto, sopra richiamato e largamente frequentato, di “invariante strutturale”, dall’altro richiamano l’attenzione sul carattere intrinsecamente “progettuale” del paesaggio: spiegano in che senso si può affermare che non c’è paesaggio senza progetto (Bertrand, 1998). Se è vero, come afferma la CEP, che il paesaggio è l’espressione della diversità del patrimonio naturale e culturale delle popolazioni e fondamento della loro identità, e che dunque ogni paesaggio ha una intrinseca valenza culturale (pur in assenza di un progetto “esplicito” e di un insieme coerente di scelte intenzionali, quali quelle che costruiscono i paesaggi culturali riconosciuti dall’UNESCO), ci si deve chiedere se o fino a che punto il riconoscimento culturale dei paesaggi possa prescindere da scelte di valore o da conseguenti strategie di valorizzazione. Sembra infatti evidente che la conservazione dei valori del paesaggio, se da un lato trova il suo fondamento nell’interpretazione strutturale sopra accennata, dall’altro non può evitare di fare riferimento ad una strategia più o meno esplicita di valorizzazione: riconoscimenti strutturali e visioni strategiche del cambiamento svolgono ruoli distinti ma complementari. Quale significato assume, in questa prospettiva processuale, la “conservazione” del paesaggio? Fino a che punto la salvaguardia dei valori riconosciuti può distinguersi dalla creazione di nuovi valori? Quale senso preciso può essere attribuito alla conservazione “innovativa” del paesaggio, ad una conservazione pensabile non solo come gabbia di vincoli ma come «luogo privilegiato dell’innovazione» (ANCSA, 1990)? E quale ruolo vi svolgono i giochi della memoria e le nostalgie del passato, a fronte delle pulsioni verso il progetto, verso nuovi codici d’ordine da imprimere nella materialità dei luoghi e negli sguardi che vi si proiettano?

 

 

4

Oggettività o soggettività del paesaggio?

Nella prospettiva della CEP, una difesa efficace e non meramente vincolistica dei valori paesistici non può evitare di fare riferimento a un progetto sociale, fondato sulla percezione e sulle attese delle comunità e degli attori locali. Un progetto che non si limita a registrare neutralmente le esigenze di tutela scaturenti dalla ricognizione dei valori in campo, ma riflette più o meno tacite opzioni di valore e concorre a perseguire i «disegni territoriali» (Sereni, 1961) di comunità più o meno vaste. Un progetto, quindi, che anche quando applicato in territori che non hanno conosciuto cambiamenti radicali dei paesaggi “originari”, comporta una creazione di valori e mette in causa i rapporti del paesaggio con le formazioni sociali che lo abitano, lo vivono e lo lavorano. Rapporti di identificazione e appropriazione, prima ancora che di produzione e fruizione, che costruiscono e continuamente ripropongono la “territorialità” del paesaggio, nel suo significato più profondo (Raffestin, 1998).

La considerazione di questi rapporti, richiesta dalla CEP, pone in risalto la dimensione “soggettiva” del paesaggio, al di là dell’“oggettività”

scientifica dei suoi dati geomorfologici, ecologici, storici, urbanistici ecc. D’altra parte la tensione fra soggettività e oggettività sembra ineliminabile dall’esperienza paesistica: la libertà intrinseca di questa esperienza, il fatto che il paesaggio circonda il fruitore e lo forza a partecipare costringendolo ad una percezione attiva (Zube, Sell, Taylor, 1982) ed obbligandolo a scegliere almeno il punto di vista, sembrano destinare i paesaggi contemporanei ad una fruizione sempre più individualizzata, quasi come ipertesti (Cassatella, 2001). Ciò non impedisce che l’evidenza empirica attesti il ruolo del paesaggio nella comunicazione sociale, la sua funzione d’orientamento (Lynch, 1971), il suo insostituibile contributo a far sì che gli uomini «non abitino ciascuno nel proprio isolotto», creando legami che ci uniscono attraverso «il nostro contatto muto con le cose, quando esse non sono ancora dette» (Merleau Ponty, 1993), la sua capacità di esprimere «un senso comune che crea un legame silenzioso e latente tra ogni individuo e gruppo sociale e il resto del genere umano e dei suoi ambienti geografici» (Dematteis, 1998). Ma la imprevedibile complessità delle interazioni tra i processi naturali e culturali che modellano il paesaggio, le nuove forme di mobilità e fruizione turistica del paesaggio e degli spazi naturali, la progressiva scomparsa dei tradizionali referenti sociali e l’emergere di nuovi attori e di nuovi modi di produzione paesistica, indeboliscono la possibilità di riconoscere il «senso comune» del paesaggio, di gestirne l’«iper-testualità» e di individuare i nuovi soggetti che possono prendersene cura. Il paesaggio «degli abitanti», che rinvia al territorio dell’abitare (Magnaghi, 1990) in cui si invera l’equazione heideggeriana tra l’abitare e l’edificare, rischia di diventare un’astrazione.

Nel contempo ogni pretesa d’ordine sovralocale rischia di contrastare o soffocare le istanze democratiche delle comunità locali tese a fondare sull’appropriazione e la difesa del paesaggio le proprie affermazioni identitarie. Il riconoscimento “oggettivizzante” di valori sovralocali rischia di soffocare il paesaggio come spazio dell’identità, evidenziando la contrapposizione tra le visioni e gli interessi degli outsider e quelli degli insider (Cosgrove, 1984). E d’altra parte è chiaro che l’identità si costruisce sulla diversità e presuppone quindi l’alterità (Telaretti, 1997); il riconoscimento dell’identità dei luoghi è basato sull’esperienza dell’altrove e del diverso, che coinvolge anche gli outsider, gli osservatori e i landscape users, come tipicamente nel caso del turismo.

Come conciliare allora l’oggettività razionale dei riconoscimenti e delle conseguenti misure di tutela con l’imprescindibile soggettività delle percezioni e delle attese locali? Come evitare da un lato l’arroganza dei piani e del sapere esperto, l’autoreferenzialità dei progetti che calano dall’alto e, dall’altro, la frantumazione delle azioni di difesa e la chiusura autistica dei sistemi locali?

 

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