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SuperLS4

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Giovedì, 04 Luglio 2024 14:45

La primavera del paesaggio del disatro

In occasione delle catastrofi italiane siamo tutti sbalorditi dalla mancanza di prevenzione rispetto alla impunità di chi violenta i cicli naturali, dalla immensità dei danni rispetto alla miseria dei ristori, dal cuore della gente rispetto all’inefficienza delle istituzioni.

  Lunedì 8 luglio 2024, dalle ore 9.30 alle ore 12.00, iniziano gli incontri in presenza e online di Fondazione Landscapefor.

Occasione delll’incontro è l’approfondimento sul tema delle prospettive di progetto locale in situazioni di comunità “deboli” o “inesistenti”. 

L’incontro si svolge a Genova nella sede locale della Fondazione.  
Questo il link per chi si collega da remoto:
https://unito.webex.com/dopolecomunitalocali

Il testo che segue - già presentato in occasioni pubbliche nel periodo aprile-giugno - riporta in dettaglio contenuti che saranno affrontati e discussi nel corso dell’incontro.

 

 

Paolo Castelnovi – Aprile 2024

  1. Dinamiche socioculturali complesse

Noi territorialisti abbiamo interpretato la Storia come susseguirsi di fasi di un respiro sovrumano (o almeno prevaricatore delle volontà personali) che ora avvicina e ora allontana gli abitanti dai luoghi da abitare.

Ma nel nostro tempo, nei cinquant’anni di elaborazione di questa sontuosa metafora del vivere in Terra, siamo stati testimoni solo di un gigantesco, eccezionale processo di deterritorializzazione globale. Con ritmi diversi secondo i decenni e le regioni, abbiamo assistito a un ininterrotto fluire dalle campagne alle città, dalle montagne alla pianura, da comunità abitanti a individui senza relazioni di prossimità.

Ora, mentre si prospetta una gigantesca migrazione da “lemming” di interi continenti, nella dimensione europea l’urbanizzazione accenna a finire (soprattutto perché i serbatoi territoriali sono quasi vuoti), e noi, che crediamo in un sano metabolismo del nostro mondo, siamo ansiosi di riconoscere i segni dell’inversione del processo, il “ritorno alla Terra” europeo, che il nostro credo territorialista ci profetizza imminente.

È un fenomeno di cui nessuno delle nostre generazioni ha mai avuto esperienza e che quindi si presta ad essere immaginato in forme retoriche. Fantasmi biblici e desideri di revanche ci spingono a considerare come eroico ritorno ogni ragazzo che riprende le produzioni contadine del nonno e ogni nuova occupazione di case rurali abbandonate.

In realtà il futuro, anche se molto probabilmente sarà segnato da una fase di territorializzazione significativa, certamente non riprodurrà nei rapporti territoriali i caratteri strutturali del passato e non tenderà a generare automaticamente le stesse dinamiche sociali, politiche, economiche.

Di certo non sarà culturalmente un “ritorno” alla ruralità che conosciamo e alle sue dinamiche comunitarie, e possiamo solo prevedere che sarà alimentato da un nuovo e diverso approccio allo spazio e al tempo, meno concentrato ma anche meno astratto di quello urbano.

 

A queste considerazioni si arriva facilmente, se ci basiamo su alcune deduzioni “braudeliane” elementari, a partire dalla situazione complessa del nostro tempo. In estrema sintesi:

 

  1. Il caos fecondo della fase neutra. Come nel succedersi tra il Niño e la Niña nella meteorologia del Pacifico ci sono periodi di “neutralità” climatica, così l’inversione del processo di deterritorializzazione del XX secolo avrà un periodo di compresenza di deboli tendenze in entrambi i sensi, prima di sfociare in un più intenso flusso di territorializzazione, spinto dall’insostenibilità delle città.

Insomma è evidente che una situazione di concomitanza di spinte da e verso il territorio non urbano sia appena iniziata e duri almeno per alcuni decenni. Infatti verifichiamo spinte compresenti nell’uso fisico del territorio: da una parte saranno ancora forti le dinamiche che spingono alle città, considerate miticamente come il luogo di mille occasioni di miglioramento personale; e dall'altra si svilupperanno sempre più esperienze di efficienza rurale, sempre più accreditate per soddisfare la domanda di servizi alimentari, culturali ed ecosistemici delle città in debito di natura. E ancora, nel comportamento degli abitanti: da una parte in molte metropoli si andranno qualificando ambiti di paesaggio urbano inducendo un radicamento crescente anche fuori dalle ZTL, anche in certe periferie che avevano ferocemente ospitato come CIE intere generazioni di immigrati spaesati; ma dall'altra questa dinamica sarà compresente con l’abbandono irreversibile di interi ambiti montani dove lo spopolamento provocherà un ricambio totale della società abitante, non solo nelle persone ma anche delle strutture immateriali, economiche e culturali che da secoli la sostenevano.

In questa sorta di interfase caotica, almeno una generazione in Europa non subirà una sola driving force travolgente, come è successo sinora per l’urbanizzazione, ma sarà spinta in direzioni diverse da altre dinamiche locali. In quella tempesta, ciascuno sarà paradossalmente più libero di adesso a intraprendere un proprio modo di abitare, ma anche sarà più solo nella sua impresa, avrà meno riferimenti e modelli, dato l’indebolimento sia del modello urbano che di quello rurale.

 

  1. Cultura e valori da cittadino. I processi urbanizzativi e di pianurizzazione in Europa sono massicci almeno dal secondo dopoguerra. Il risultato è che ormai nella grande maggioranza siamo cittadini da almeno tre generazioni. Se la massa dei migranti nelle grandi città della seconda metà del '900 era contadina, oggi solo il 10/15% dei millennials ha avuto contatti familiari diretti con il mondo rurale e in ogni caso pochissimi sviluppano una coscienza di sé legata precipuamente a luoghi identitari non urbani.

Se la città non si preoccupa di produrre una “coscienza di luogo”, anche la Scuola e la tecnologia digitale fanno di tutto per omologare una cultura egualitaria, senza riferimento differenziale non solo ai luoghi, ai loro saperi e alle loro radici ma neppure a tutti gli aspetti identitari dell’esperienza diretta che sinora erano spiegati con riferimento al proprio gruppo socioculturale locale.

Sia chiaro: nulla contro la sacrosanta battaglia per evitare che differenze qualsiasi riducano l’universalità dei diritti fondamentali, ma è una debolezza manifesta del nostro tempo che le competenze, i gusti, le imprese condivise siano sempre più trascurate a favore di quelle individuali, che perseguono standard performativi astratti, generalizzati. Insomma ormai ciascuno di noi pensa e sceglie con valori, attenzioni e criteri generati dalla prevalenza sistematica dell’ecosistema urbano degli ultimi cento anni: generalisti, ideologici, poco connessi a luoghi o a comunità, con orizzonti brevi e incapacità di gestire progetti di lunga durata. Con queste premesse è chiaro: anche il rifiuto della città, che anima sempre più spesso i giovani, è un prodotto della cultura urbana, individualizzante e più ideologica che concreta, e chi andrà ad abitare la montagna abbandonata non sarà abituato ad essere coinvolto da luoghi o da comunità che lo accolgono.

 

  1. Scompare l’habitat delle comunità. Dunque in ogni caso i valori del mondo rurale, compreso il senso di comunità, non sono conosciuti dal vivo o comunque non sono quelli che spontaneamente concrescono con i più giovani: non sono il loro contesto.

Ne fa le spese l’idea di “comunità”: quel residuo di cultura della comunità operante, non solo controllante, che la gloriosa tradizione dei Comuni aveva portato a segno distintivo della storia italiana, si è dissolto proprio nella dimensione urbana in cui era nato. Nelle città si sono perse le occasioni della modernità in cui poteva ricostituirsi una aggregazione comunitaria, a partire da comuni condizioni di disagio, come nelle fabbriche fordiste o nei ghetti delle periferie appena costruite. Dalle città escono individui, ingenui (nel senso di proprio del non sentirsi appartenenti ad un genus, una stirpe) abituati più alla competizione che non alla cooperazione, che investono più sull’identità personale che sull’impresa comune. Ma anche fuori dalle città le dinamiche di comunità vanno scomparendo, non solo per l’assottigliarsi dei nuclei abitanti ma anche per il venir meno delle ragioni di operatività comune: il lavoro contadino largamente meccanizzato si individualizza; la manutenzione degli equilibri con la Natura nelle pratiche ordinarie si perde; la cura e l’uso dei beni comuni (l’acqua, il bosco, il pascolo, i depositi), quando li si ricorda, si delegano alle istituzioni.

Si formano ancora, e non solo nel mondo rurale, comunità reazionarie, nel senso concreto del termine, di abitanti aggregati da una reazione contro un comune nemico potente, che altera il territorio e il paesaggio, che inquina, che chiude le fonti di lavoro, che depreda il bene comune. Fermo il ruolo politico delle battaglie, spesso vinte, va comunque sottolineato che le comunità reazionarie finiscono per dipendere dall’esistenza del nemico, con una debolezza intrinseca che sta proprio nella difficoltà a tramutare in un progetto proprio la reazione a un progetto altrui, a superare le sindromi NIMBY riconoscendosi come attori di una comunità di progetto basato sulle risorse comuni e in genere sulle specificità del territorio che si sta abitando.

 

  1. La fuga individuale dalle città. Senza una comunità di riferimento, con le sue regole integrate e le sue abitudini concrete che fanno appartenere a un flusso secolare, il disagio degli homines novi del nostro tempo, sparpagliati e insoddisfatti, si radicalizza, nel senso proprio di risalire alle radici e mettere in discussione i nodi principali del contratto sociale alla base delle città. Si contesta frontalmente non più solo il capitalismo, ma ogni consumismo (ormai evidentemente insostenibile) e poi si attacca direttamente il lavoro: un tabù sinora intoccabile, posto al cuore della città moderna.

La sfida, non proclamata, ma implicita nelle scelte di vita di chi le compie, è spesso così radicale da spiazzare completamente ogni strategia riformista che si basi su una più equa redistribuzione dei valori aggiunti della produzione industriale e digitale o su una sindacalizzazione di rapporti di lavoro, di fatto ingovernabili nel loro insieme perchè ormai individualizzati.

La sfida tacita e personale invece punta direttamente alle vere risorse primarie della vita: il tempo e lo spazio.

Contestando il lavoro si “ritira dal commercio” il tempo venduto alle imprese altrui, ormai considerato solo tempo perso per un salario che non libera neppure il tempo “libero”.

Il costo di un atto così semplice e non violento è insostenibile nel sistema urbano, e lo può affrontare solo chi ha già ridotto drasticamente le proprie necessità consumistiche, adottando spontaneamente uno stile di vita, una vera e propria “dieta” di grande sobrietà e poco ricattabile dal denaro 1.

Rendono possibile questo regime le semi gratuità anche tecnologiche del nostro tempo: la rete digitale, i trasporti, i cibi essenziali. Sono dotazioni di servizi di base, esito della costante vicinanza dell’habitat urbano anche nei luoghi più remoti, per cui fare l’eremita oggi è molto più facile che un secolo fa: l’accesso a minimo costo di questi servizi ormai costituisce la attrezzatura fondamentale per abitare in luoghi “semideserti ma….”

Contando su queste dotazioni e conquistando il tempo di lavoro per fare “altro” rispetto a produrre o consumare il superfluo, viene meno anche l’attrattività dello spazio urbano, considerato da 200 anni il luogo delle occasioni di occupazione e di consumo. La città, caduta la attrattività dell’offerta infinita di lavoro, si mostra una trappola da cui fuggire per chi ricerca un contatto diretto e non mediato con le “materie prime” dell’abitare: un luogo pieno di servizi in gran parte non considerati necessari, un centro di riti sociali vissuti come costrittivi, con ritmi insostenibili e con rendite che pesano come imposte gravosissime, senza spazi liberi.

È probabile che proprio la ricerca di spazi ormai senza padrone, praticamente gratuiti, in cui annidarsi per farne il nuovo contesto della propria libera vita, sarà probabilmente il motore più interessante dei nuovi processi di territorializzazione. In quel contesto prende nuovo sapore il lavoro che impegna a fondo per ottenere direttamente e con bioritmi consonanti i prodotti di diretto consumo: il tetto, riattando ruderi; l’energia, facendo girare il piccolo mulino ad acqua o a vento; il cibo, “mangiando il prato”, come mi hanno detto amici impegnati da mesi a contendere al bosco una tenuta di mezza montagna.

È una tendenza, per ora avviata da pochi, ma che risponde pienamente ai requisiti della “territorializzazione etica” emergenti nel disagio urbano dei giovani. Quindi con ogni probabilità sarà presente in modo significativo nel periodo di transizione dei prossimi decenni. Nei casi più romantici sullo sfondo si intravvede il libro illustrato di Robinson Crusoe letto da ragazzi, la lezione di Tiziano Terzani. In tanti altri casi a quei libri sul tavolo si avvicina la chiavetta per la connessione internet, un sedile comodo per qualche ora di meeting in remoto al giorno, una 4x4 scassata per muoversi.

In ogni caso nei primi esperimenti del “nuovo abitare” si leggono già alcune caratteristiche della fase di “fondazione”. Infatti, come sulla nave dei coloni greci mandati oltremare a costruire nuove città, i nuovi coloni viaggiano leggeri: no prima e no terza età. Servono adulti consenzienti, sobri, forti, adattabili.

Ai bambini i coloni oggi pensano di poter pensare appena un minimo stabilizzati; a loro stessi diventati vecchi i coloni oggi pensano che penseranno i bambini diventati adulti. Quindi se nei prossimi anni per i nuovi abitanti è sospeso il traffico generazionale per “cantiere di fondazione”, si riprenderà a fare figli dopo e dopo ancora si penserà a insegnare, a curare, a rielaborare riti e cultura. Solo allora sarà davvero necessaria una comunità attiva.

 

Questi i sintomi di un’aria nuova.

Se li abbiamo interpretati correttamente, bisogna guardare con attenzione, nel caos della fase neutra, alla nuova colonizzazione dei territori più abbandonati che sta partendo in questi anni: sarà frutto di una reazione radicale alla struttura della società contemporanea.

Come tutti gli atti radicali sarà una scelta maturata da singoli senza contare a priori sulla condivisione di una qualsiasi forma di comunità: a chi inizia quel cammino di statu nascenti non sembra urgente dotarsi di strumenti culturali per uscire dalla dimensione individuale.

Noi, che apparteniamo alla cultura che ha creduto necessario affrontare insieme le sfide del mondo e che abbiamo contato sulle comunità e sul loro progetto implicito, ci preoccupiamo che a questi nuovi soggetti della territorializzazione manchino le forze necessarie per affrontare i temi giganteschi che il cambiamento climatico e le relazioni poco centralizzate impongono (dalla gestione delle acque a quella della circolazione di merci e della cultura in un mondo a bassa centralità).

Speriamo di avere torto, come capita ai genitori che sono riluttanti a dare ai figli le chiavi di casa, ma intanto cerchiamo di rendere utilizzabile anche per loro il lavoro fatto a render godibile la casa.

 

  1. Il fascino della ricerca territorialista

Noi territorialisti abbiamo costruito negli anni un’ottima macchina culturale per capire il mondo e agire di conseguenza. Ci siamo mossi dal pensiero della complessità del ‘900, ma organizzato in ordine al tempo e allo spazio che ciascuno si trova come contesto della sua vita (vita che è naturalmente il testo di cui ciascuno è autore).

Una dozzina di menti acute e testarde (Magnaghi, Gambino, Becattini ma non solo) hanno raggranellato nei decenni un modello di ricerca/azione di alto artigianato, che potremmo definire “gramsciano corretto Bateson”: una strategia culturale con ottica territorialista in cui i passaggi logici della ragione critica si mescolano opportunamente con altre fenomenologie della sensibilità, dell’etica e della progettualità.

Decine di studiosi appassionati hanno versato le loro competenze disciplinari nella tramoggia di quel modello, sfornando un cocktail teorico-sperimentale affascinante, che consente di esplorare il reale e il possibile con i criteri scientifici più avanzati ma tenendo i piedi saldi sul terreno.

Oggi, a valle di quella fase creativa ricca di continue riplasmazioni, leggiamo il paradigma territorialista come un modo di ricercare (più che un metodo) fortemente influenzato dalle specificità del territorio, che invita a procedere ogni volta reinventandosi, un po’ con una logica deduttiva e un po’ con criterio induttivo: da sopra e da sotto, come stalattiti e stalagmiti quando (e se) si incontrano a far colonne portanti.

Nell’arco di 50 anni questa avventura del pensiero si è concretizzata in diversi laboratori non solo di conoscenza ma anche di potere: ad esempio con la redazione di piani territoriali e ambientali.

Nell’esercizio del potere (se non altro regolativo) emergono continuamente difficoltà nella ricerca di equilibri: tra conoscenza e normazione, tra proposta e condivisione, tra esperimento e buona pratica. Talvolta una preponderante fase di elaborazione teorica rischia di sfondare in un dover essere assertivo, in regole definitive che limitano molto l’efficacia dei piani della fase di applicazione e gestione. Altre volte si è temperato il risultato “freddo” dei dati con un “lavoro sporco” sul territorio (come racconta M. Rossi), in cui si ricompongono brandelli di memoria collettiva in quadri congruenti e si adunano abitanti intorno a obiettivi rilevanti.

Si sono goduti anche successi nell’elaborare strategie condivise, che comunque sono state frutto di percorsi molto faticosi e con risultati malfermi.

 

In ogni caso il pensiero territorialista è cresciuto nel lungo dopoguerra di fine millennio, quando gli aspetti socioeconomici e culturali delle nostre generazioni parevano consolidati e comunque a basso ritmo di cambiamento.

Oggi la scomparsa dei “padri fondatori” coincide con la fase in cui le dinamiche territoriali prendono un nuovo impulso. Le driving forces trasformative tratteggiate sopra aprono prospettive che richiedono una profonda revisione della macchina di ricerca/azione a suo tempo rodata. Per farla funzionare al meglio nei nuovi contesti storici, ci pare che sia necessario reimpostare almeno tre aspetti fondamentali, tra loro collegati nelle pratiche di gestione del potere:

 

  1. La struttura immobile. Si deve ancora lavorare sul tema della interpretazione strutturale del territorio, capitolo importante della ricerca territorialista, che ha attinto alla migliore epistemologia del ‘900 per far prevalere le relazioni sulle cose e per distinguere i nessi duraturi da quelli casuali o contingenti.

Quella del riconoscimento strutturale è stata una stagione esaltante, che ha eccitato una intera generazione di ricercatori, nel miraggio di una chiave universale per versare sul territorio il sapere specialistico di molte discipline, già a loro volta in subbuglio per le rivisitazioni specifiche dei paradigmi di riferimento. Così si cerca di intercettare la giovane ecologia che già raccoglie le scienze naturali o la storia che con Braudel si attrezza per essere “il mercato comune delle scienze sociali”, a partire dalla geografia. Così si prova ad inserire nel quadro strutturale del territorio la soggettività del paesaggio percepito, le sue ideologie identitarie o viceversa il desiderio di esplorazione e di essere stupiti che paiono nuove dimensioni dell’abitare contemporaneo.

Affascinati dalle complesse geometrie di una visione strutturale integrata e dalla vertiginosa prospettiva di rileggere il territorio in chiave relazionale e non oggettuale, aperta alla serendipity e ai nessi casuali e non solo ai bisogni e ai nessi causali, noi territorialisti ci siamo consumati per anni nel mappare reti e studiare coincidenze e sovrapposizioni di fenomeni, con grande passione e divertimento.

Ma i risultati sono stati alterni e soprattutto sono state modeste le traduzioni in pratiche progettuali.

Nei “Piani territoriali” l’invocata plasticità delle strutture relazionali individuate si è spesso ridotta a un elenco di oggetti da tutelare, mancando la progettualità per definire regole che riguardino le relazioni e non le cose. E anche dove si sono tentate indicazioni per le relazioni strutturali (ad esempio quelle per i temi ambientali), la struttura di riferimento è definita con nessi e nodi così necessari da essere citati nella parte regolativa come “invarianti”.

Si legge la struttura per relazioni ma poi si agisce sulle cose. Sembra così di semplificare drasticamente ogni elaborazione gestionale ma si finisce per comunicare che le relazioni coincidono con gli oggetti relazionati (e quindi si riporta tutto nell’alveo del patrimonio da tutelare, come fa il “Codice dei Beni culturali”).

Le istituzioni sono spinte a preferire la falsa equanimità delle norme generalizzate e si procede per tipologie, con casistiche métrisée 2, definite quantitativamente o appartenenti a elenchi precompilati. In questo modo si consente una applicazione semiautomatica della regola, ma si rende deduttivo ogni criterio di verifica, e si elimina ogni contributo locale di lettura specifica, con buona pace del processo vivo del riconoscimento condiviso.

L’apporto del territorio diventa trascurabile proprio nell’uso dello strumento che dovrebbe riconoscere i caratteri specifici dei luoghi. Ci si riduce a un utilizzo puramente difensivo dell’interpretazione strutturale, volto a impedire stravolgimenti dello status quo ante, considerato a priori meglio dello stato futuro.

Siamo distanti da quanto abbiamo sperato nella costruzione del quadro conoscitivo, quando si utilizza il riconoscimento strutturale come chiave per recuperare un sapere comune e una visione degli abitanti, se non comunitaria, almeno consapevole dei luoghi, come cerchiamo di fare ogni volta con il rito delle Parish map e delle “assemblee di luogo”.

Tra la costruzione culturale della consapevolezza di un luogo e la strumentazione tecnico istituzionale per difenderne i caratteri fondamentali si apre un solco che riduce la continuità dell’azione comunitaria e alla sua efficacia nella gestione del territorio. D’altra parte il lavoro di riconoscimento strutturale condiviso, svolto in questi anni, non ha innescato in quelle comunità un know-how diffuso e praticato, che renda meno faticoso e incerto ogni processo induttivo di “estrazione” del valore dei luoghi dai luoghi stessi. Il valore dei luoghi nel senso comune (o di comunità), cioè il riferimento che motiva la scelte essenziali, rimane una sorta di “criptovaluta”, che teoricamente è davvero un’essenza del patto di condivisione di tutti gli abitanti, ma praticamente si riduce ad una rappresentazione astratta del patrimonio immateriale che tutti dicono di condividere: una specie di teologia del bene comune.

 

La fragilità della costruzione strutturale è connaturata alla contraddizione tra sapere comune e tecnica operativa dei pianificatori o dei funzionari che i Piani li gestiscono; in particolare riguardo la rigidità delle relazioni individuate e dalla loro definizione di “invarianti”, utile ai pianificatori ma dannosa per la percezione e il senso comune del paesaggio.

Infatti in una fase di stanca delle dinamiche di territorializzazione quegli aspetti che paiono modificarsi poco possono essere messi al centro della difesa da trasformazioni inconsulte e “per futili motivi” (come interessi privati di breve periodo a fronte di beni comuni). In quei casi la conservazione degli aspetti strutturali consolidati è certamente l’azione migliore.

Ma quando ci accorgiamo di essere in una fase di grande cambiamento la struttura che ci serve riconoscere non è soltanto quella utile a un servizio difensivo, ma soprattutto occorre far emergere quella che può svolgere un innovativo ruolo propositivo, che può dare materiale ed energia per il governo del cambiamento: ci serve una interpretazione strutturale delle dinamiche di trasformazione e non contro di esse.

Se ci occorre uno strumento per abitare il cambiamento e non per lamentarcene dobbiamo riprendere le nostre concettualizzazioni in radice, e rileggere le relazioni fondamentali del nostro rapporto con il territorio, facendo largo ad una più dinamica idea di struttura, meno patrimoniale e più attiva.

 

Probabilmente conviene “rispolverare geni” come Jean Piaget, che 70 anni fa (!) esplorava i processi cognitivi delle diverse fasi dell’apprendimento (che ritiene proprie di tutto il vivente e speciali per gli umani) e ne studiava la strutturazione non come ipostasi di rapporti preesistenti nel contesto, ma come criteri della mente interpretante, che progressivamente si struttura organizzando la propria esperienza del contesto e riconoscendone le ricorrenze, le gerarchie, le catene causali.

Secondo Piaget è strutturale un sistema di trasformazioni che contiene al proprio interno le regole per continuare a mantenersi riconoscibile nel cambiamento 3. La strutturalità non è un attributo statico, delle cose, ma un attributo dinamico, dello sviluppo di chi dà senso alle cose.

Per chi si interessa di Territorio questa concezione di struttura comporta un cambiamento fondamentale: se l’“ordine” non sta nel Territorio ma nella mente, occorre farci consapevoli della nostra soggettività nel considerare le relazioni tra le cose che ci circondano e tra noi e loro. Non ci sono cose o relazioni a priori più importanti delle altre, ma semmai cose o relazioni che da molto tempo siamo abituati a considerare più importanti e che abbiamo culturalmente ipostatizzato.

Nelle strategie di azione che individuiamo nelle nostre scelte di vita seguiamo quasi sempre, per comodità, sequenze culturalmente condivise e imparate come strumenti per decidere senza fatica. Ma questo non significa che non si possano modificare tali criteri di scelta, introducendone di nuove o declassando le vecchie. È il riconoscimento di una opzione culturale, di un diverso punto di vista, che nell’Arte accade spesso e che riguarda valori e criteri puramente immateriali, prodotti dal nostro pensiero e dalla sua condivisione con le comunità culturali in cui siamo inseriti, e che ricade sulla parte concreta del territorio solo nelle azioni conseguenti a quelle scelte.

 

Quindi non una struttura preesistente, ma l’attività strutturante condivisa è il principale agente di valorizzazione dei territori ed è l’unica azione che comporta effettivi cambiamenti strategici antagonisti ai trend provocati dalle driving forces.

Ad esempio, senza l’idea delle reti ambientali e dell’infrastruttura verde, nuovo criterio strutturante il nostro rapporto con la Natura, oggi non avremmo armi per contenere il disagio urbano a seguito del cambiamento climatico; senza l’idea del paesaggio come habitat culturale dell’abitare di tutti, nuova visione della forma del territorio e del diritto di abitare bene, oggi non saremmo in grado di contenere l’estensione cancerogena delle periferie senza centro.

Insomma, se noi territorialisti mettiamo a fuoco un’idea di azione strutturante “alla Piaget” ci diventa più chiaro l’obiettivo delle nostre pratiche di ricerca/azione. Dovremmo forse chiamare quelle pratiche culturali struttura/azione, dato che riguardano la ricognizione di materiali conoscitivi e valutativi da condividere sul territorio per decidere le relazioni con le cose che riteniamo importanti e come fare a goderne noi e i nostri figli.

Il difficilissimo dibattito sul clima insegna: non c’è scienza che si possa chiudere in una pretesa oggettività e con questa rivendicare un ruolo fondante le scelte di vita. Al contrario è solo un lavoro di struttura/azione condivisa che assegna importanza o meno a quelle indicazioni scientifiche nell’universo culturale di chi decide. Che il decisore sia uno o molti a non conta: conta il farsi strada nel decisore di una considerazione strutturante appropriata ai tempi che si vivono. E in democrazia i decisori siamo tutti.

 

  1. La comunità come racconto edificante

A questo punto emerge prepotentemente la seconda fragilità delle nostre elaborazioni teoriche: il ruolo della comunità.

Nelle nostre logiche la comunità è il luogo sociopolitico della consapevolezza progettuale del contesto fisico e storico, è quel grande gruppo di abitanti che sa interpretare al meglio non solo i rapporti con il resto del mondo, ma anche le tensioni che si sviluppano al suo interno.

Postuliamo questa capacità come un processo naturale e diffuso, ma lo osserviamo attivarsi soltanto quando il territorio viene “sfruculiato” con qualche violenza peggio delle altre: ecco che allora la Comunità prende forma, fa sentire la sua saggia voce basata su una cultura inoppugnabile perché esperienziale, e riesce (qualche volta) a rintuzzare gli attacchi e sventare la minaccia.

Nel racconto che ci facciamo, la Comunità è un luogo magico, una sorta di “scatola nera” in cui si versano componenti conoscitive e lieviti critici e ne escono, come le tagliatelle dalla trafilatrice della pasta, coscienza di luogo e capacità di giudizio su diverse strategie operative per lo sviluppo sostenibile del territorio.

La leggenda dice che noi territorialisti nasciamo per portare aiuto alle comunità. Infatti si narra che qualche volta, come ne I Sette Samurai 4, la comunità da sola non ce la farebbe, e servono apporti esterni: ecco i Territorialisti, professionisti utili praticamente a innescare una forza nascosta e misteriosa interna alla comunità stessa che, anche se all’ultimo momento, comunque prende partito e si oppone organicamente al pericolo di cambiamento.

Ovviamente la realtà è diversa: salvo casi clamorosi gli abitanti dei territori che vorremmo valorizzare sono poco sensibili ai temi da affrontare prima delle crisi e restii a cambiare atteggiamento rispetto allo sfruttamento e allo spreco delle risorse. Chi sta sul territorio finisce per pensare che lo “Spirito di comunità” sia un burattinaio poco presente, e che ogni volta si deve aspettare che torni, riprenda i fili e rianimi le marionette per recitare ancora una volta un’opera a soggetto già vista per ristabilire lo status quo minacciato dai cattivi.

Qui sta la nostra contraddizione: da una parte riconosciamo la fase di grandi cambiamenti in corso, dall’altra facciamo riferimento a una dimensione comunitaria d’altri tempi, quella che per secoli ha garantito la tenuta di rotta dei progetti di lunga durata del mondo rurale, ma che oggi, proprio per quella lunga stagione di resilienza, ha ridotto le proprie capacità di adattamento al cambiamento a poche e faticate reazioni agli eventi che incombono.

 

Oggi, chi si è avventurato a far Piani territoriali, sa che le Comunità non sono un organismo integrato e coerente, ma un corpo sociale che ha al proprio interno e intrattiene con l’esterno complesse dinamiche che portano a decisioni spesso contrastanti, con rapporti di potere e di gestione (mal) mediati dalle istituzioni. Sa che questa instabilità porta a una sorta di impotenza soprattutto in ordine ai progetti di lunga durata, che ora vengono negati, poi assecondati, poi di nuovo messi su binari morti, a seconda del gruppo al momento dominante.

Anche per l’azione della comunità, proseguendo la ricerca di alternative aperta con l’interpretazione strutturante, stiamo provando (da qualche decennio) a utilizzare importanti metafore che Piaget stesso e Bateson hanno introdotto più di 50 anni fa nei processi di apprendimento, mutuandole dagli studi sulla formazione biochimica e cellulare del vivente e parlando ancora una volta di morfostasi e morfogenesi. 5

In questi termini con le nostre comunità sinora non siamo andati più in là di azioni morfostatiche.

Nelle ricerche/azioni con comunità locali, siamo stati capaci quasi solo di spingere la ricognizione nelle pratiche e nelle ideologie degli abitanti residui, assumendone la capacità progettuale in quanto continuativa dei modelli tradizionali o reazionaria rispetto ai soprusi del modello urbano. Abbiamo dato risonanza a chi era resiliente ai cambiamenti imposti dai processi dicotomici urbano vs. abbandono, cercando di potenziarne le iniziative (quelle dei ritornanti, dell’agricoltura sostenibile, delle produzioni tipiche etc.).

Per quelle iniziative, portate dagli abitanti più resistenti e dai giovani che ri-conoscono le strutturazioni comunitarie ancora vivaci, le consonanze di lettura del territorio e del proprio ruolo favoriscono processi di territorializzazione anche di forze nuove, che formano una benefica evoluzione della comunità locale, senza innovazioni significative.

In queste esperienze virtuose ogni volta abbiamo verificato che occorre un impegno duraturo, una buona conoscenza di contesto e una onesta consapevolezza di ruolo per indurre una solida coscienza di luogo. Sono energie che occorrono per ogni battaglia di resistenza morfostatica ma che in moltissimi altri casi la comunità non riesce a trovare in sé.

 

Dove la capacità di reazione è debole molte sono le cause di crisi complessiva di fronte ai cambiamenti: troppo stanchi gli abitanti presenti, troppo sfuggente, lenta, inefficiente la promessa degli enti, troppo modesto l’ingaggio dei singoli, troppo brevi gli entusiasmi volontaristici.

Quindi, salvo i casi virtuosi, in cui un cocktail di soggetti attivi, istituzioni efficienti, volontari tenaci e duraturi fanno fronte, sembra in via di estinzione la comunità attiva su cui contiamo. Se non c’è la comunità non si innescano processi di consolidamento delle iniziative di territorializzazione.

Siamo di fronte a un mastodontico caso di “doppio legame”, quello da cui non si esce con le soluzioni conosciute, quello che per Bateson può generare, prima o poi, una reazione innovativa: una morfogenesi di comportamento.

Ma se riflettiamo sui nostri territori i meravigliosi esempi di uomini o animali morfogenetici che Bateson cita per mostrare il superamento del “doppio legame”, vediamo che non ce la caveremo con gli strumenti di rapporto strutturato con il contesto che conosciamo: si supera solo prescindendo dagli schemi organizzativi utilizzati sino ad ora.

 

Quasi certamente occorre riprendere il cappello in mano e andare a mendicare competenze e capacità nuove, ancora come i campesinos dei “Magnifici Sette”. Ma certamente i nuovi competenti non siamo noi territorialisti, appassiti sulle carte e le letture: piuttosto le deboli comunità locali dovranno ingaggiare i nuovi abitanti dei territori vuoti, i senza-comunità fondamentalisti delineati sopra.

In mancanza d’altro si deve scommettere che siano loro il “sale della Terra” in questa fase di cambiamento caotico, e che una nuova prospettiva di qualità della vita venga dalla sintesi tra le due struttura/azioni, quella di chi è restato sul territorio in un gruppo sempre più immiserito e quella di chi al territorio ci arriva solo, ingenuo, homo novus alla ricerca di un nuovo abitare.

 

Oggi ciascuno dei due soggetti non può che intraprendere struttura/azioni deboli, diversamente incomplete a fronte delle sfide che attendono, secondo l’analisi fatta sopra. Probabilmente il contributo di noi territorialisti è ancora necessario, come quello dei meccanici che preparano i convogli in partenza per lunghi tragitti.

Come loro dobbiamo concentrarci sui punti deboli delle attrezzature sia dei vecchi che dei nuovi coloni e soprattutto si tratta di fare un inedito lavoro di traduzione delle struttura/azioni degli uni e degli altri, di trovare modalità di messa in comune dei programmi e di comunica/azione tra gli attori. Si tratta di attivare velocemente quel processo di messa in comune e di comunica/azione che storicamente si è formato lentamente, nel corso di generazioni, a far comunità tra gli abitanti dei luoghi. Ma non possiamo assumere quel processo di sedimentazione come canone del nuovo incontro, perché le sfide del cambiamento non lo permettono: non abbiamo generazioni da aspettare e dobbiamo superare in fretta diffidenze e pregiudizi radicati.

Insomma, per ottenere invenzioni morfogenetiche e superare le doppie debolezze della nuova territorializzazione, dobbiamo convincere i resti delle comunità resilienti a collaborare con i nuovi arrivi dalle città, solitari e sprovveduti.

 

  1. Il paesaggio come luogo comune

Paesaggio è una parte di territorio quale è percepita dalle popolazioni... Sin dalla definizione di Paesaggio della Convenzione Europea ci si accorge di un gioco di prestigio verbale che non trova riscontro nella realtà.6

Rimaniamo perplessi perché il termine “le popolazioni” (people) ha una genericità impressionante, che prescinde dall’essere abitanti, dal luogo e dal tempo.

Si direbbe che, al suono trionfale dell’Inno alla Gioia, una botta di Illuminismo abbia fulminato il Consiglio d’Europa e con l’“ottimismo della volontà” si sia messo velleitariamente il Paesaggio a far da collante universale di mille paesi storicamente individualisti o addirittura antagonisti.

Ma a far fragile quella definizione c’è anche altro. Qui, nella nostra revisione in radice, noi territorialisti vogliamo cercare rimedi per l’altro piede di argilla della Convenzione: la percezione, che naturalmente è strumento di interpretazione del singolo e che invece viene attribuita alle popolazioni.

Si rivela così, sul podio d’Europa, uno scheletro in armadio che noi territorialisti e noi paesaggisti ci portiamo dietro sin dalle origini: l’inesplorato rapporto tra gli individui e la Comunità.

Chi ha fatto esperienza del “lavoro sporco” di accompagnamento degli abitanti di un luogo in vicende di scelte e di potere sul futuro sa che la percezione non è un bene comune ma uno strumento personale, e che semmai gli aspetti comunitari sono frutto di un lavoro collettivo di struttura/azione a valle della percezione.

Si sa anche che progettare e decidere “a valle” di un lavoro collettivo di strutturazione già compiuto e con risultati consolidati è più facile ma anche poco innovativo.

Invece, con Bateson, sappiamo che gli aspetti morfogenetici non emergono dal lavorio istituzionale del mettere in statuto le gerarchie di percezione, ma da una sorta di cortocircuito, di invenzione creativa, di statu nascenti 7 della struttura/azione che nasce proprio dal fact checking razionale e sentimentale delle nostre percezioni del contesto.

 

Se chiamiamo insorgenti quelle fasi in cui maturano risposte morfogenetiche a situazioni di “doppio legame” (come propone M. Rossi sulla scia dell’ultimo Magnaghi), dobbiamo distinguere tra l’insorgenza sociale e politica e insorgenza culturale.

La prima (quella dello Statu nascenti di Alberoni) nasce e si sviluppa nelle piazze, in tempi brevissimi, quasi saltando il lavoro di struttura/azione e giungendo a decisioni operative con processi istantanei di sublimazione, in cui la consapevolezza è un lampo quasi contemporaneo al tuono dell’azione, fondendo per un attimo individuale e collettivo (per ricadere velocemente in una dicotomia nefasta).

L’insorgenza culturale invece è una partita complessa, i cui attori sono tutti individui che confrontano le loro esperienze (necessariamente percettive). L’insorgenza è storicamente il luogo dell’arte, della formazione di Avanguardie che (come dice il termine un po’ guerrafondaio) esplorano il territorio prima dell’arrivo delle truppe. Sono individui urbani, portatori di germi culturali esterni alla comunità statiche, a proporre uno sguardo diverso, un modo di percepire e di interagire che comporta un apprezzamento innovativo del Paesaggio e delle altre risorse locali come strumenti da usare rispetto alle nuove pressioni provenienti dall’esterno (dalle driving forces climatiche alla man bassa speculativa di produzioni locali alla moda).

In questa prospettiva l’insorgenza culturale è di fatto l’intrapresa di una territorializzazione consapevole che dà luogo a una nuova comunità, ma non ha ancora gli effetti di temperamento, di giroscopio nel profondo della nave per stabilizzare i beccheggi e i rolli, che la comunità consolidata da sempre svolge a rendere sopportabile la rotta di navigazione delle nostre vite.

L’insorgenza culturale dell’arte si contempera sempre con la “coscienza possibile” (per usare un termine maoista) della comunità di riferimento e provoca gli avanzamenti del nostro modo di percepire il mondo.

Come nell’arte, anche in questa territorializzazione consapevole si attiva un processo (più o meno lungo ma mai istantaneo) in cui i singoli portatori di comportamenti innovativi metabolizzano la struttura/azione a partire dal paesaggio propria con quelle locali, e da quella sintesi, sempre sorprendente, sortiscono decisioni e strategie innovative, morfogenetiche.

Noi territorialisti, che vorremmo fare gli assistenti tecnici dell’insorgenza culturale, dobbiamo curare quella metabolizzazione, processo base del vivente, che richiede un atteggiamento che sarebbe bene assomigliasse all’idea di cura delle discipline orientali, tutto da studiare e da inventare. Certamente è un ruolo che ci costringe a rivedere la nostra cassetta degli attrezzi di ricercatori e di didatti, per mettere a punto strumenti adatti ai nuovi soggetti che ci troviamo di fronte e alle nuove tappe del processo di territorializzazione che loro (non noi) affrontano.

 

Fin qui una riflessione maturata nel tempo e verificata sul campo.

Ma l’urgenza degli interventi porta a mettere in gioco anche pensieri non ancora consolidati, per cominciare a concordare, con chi vuole partecipare a questa impresa, nuovi strumenti da attivare.

Credo che in questi anni si sia lavorato benissimo sui contenuti e si sia invece molto indietro nel modo di comunicarli, che è rimasto ottocentesco (come questo scritto!). Ora il problema da affrontare è principalmente quello della comunicazione a soggetti con storie, radici, età del tutto diverse dalle nostre e, a quanto sembra, molto suscettibili sugli aspetti formali.

Rivedere la strumentazione comunicativa porta a galla altre contraddizioni e aporie, ma discutere di queste aprirebbe un altro capitolo complicato da decifrare. Invece occorre procedere per piccoli passi e frequenti soste di discussione.

Quindi, per semplificare si condensano in poche intuizioni provocatorie le strumentazioni che dovremo evitare, dato che a questo punto della ricerca, con Montale, solo possiamo dire ciò che non siamo e ciò che non vogliamo.

 

Le guide della strutturazione. Il nostro lavoro più avvincente, quello in cui più ci divertiamo e in cui sentiamo di dare veramente un contributo è quello di dare un’interpretazione al mondo che incontriamo, organizzarlo mentalmente, prenderne le misure e le vitalità. Perché impedire questa avventura agli altri? Perché passare pacchetti preconfezionati di interpretazioni come le guide turistiche dei croceristi?

Per avviare i nuovi abitanti a essere nuovi territorialisti con le loro splendide strutture/azioni il massimo che possiamo comunicare delle nostre sono tracce, frammenti, fil rouge che speriamo risultino stimolanti come i punti di vista di uno scrittore, gli sguardi di un pittore o di un fotografo, i resti archeologici di una civiltà scomparsa.

 

Le mappe didattiche. Al nuovo abitante servono mappe fascinose, non per restituire il palese e raggiungere la meta conclamata, ma mappe per perdersi, mappe che generino serendipity, che è uno degli atti di territorializzazione più godibili e stimolanti.8

L’incontro con cose o persone impreviste sarà, nei tempi di dominio del web e dell’AI, uno dei pochi rimedi contro l’omologazione (insieme all’amore e all’amicizia).

Il nuovo turista che ci interessa sarà appassionato da questi aspetti, che le mappe stupide rischiano ogni giorno di rovinare.

La mappa virtuosa sarà probabilmente variabile e ricca di segnalazioni delle attività in corso, del “Paesaggio attivo”, dell’interpretazione artistica dei luoghi: insomma un invito ad andare di persona e incontrare là una irriducibile e benedetta diversità dal già saputo.

 

Il patrimonio museificato. La snellezza culturale (ai limiti dell’anoressia) delle nuove generazioni non è solo frutto di una pigrizia agevolata da Wikipedia ma è anche reazione all’inflazione delle informazioni ferme, storicizzate, ingombranti ogni percorso di percezione non guidata. D’altra parte i più giovani mostrano una passione smodata per gli eventi, per tutto ciò che è temporaneo, con una specie di smania “situazionista” che sembra il contraltare del rifiuto dei musei. È una condizione di passaggio, che reagisce alla bulimia del sapere nella formazione del ‘900, che oggi sembra imporre un drastico sforzo di innovazione nel porgere contenuti culturali, in modo che interagiscano creativamente con una loro libera percezione diretta, stimolanti esperienze intense che non derivano certo solo da apporti di nomenclatura.

 

La progettualità machista. Il segno forte nel contesto, la firma stilistica del progettista, la novità formale a tutti i costi sono sintomi di una malattia dei progetti del nostro tempo, che offende il senso comune del paesaggio tanto quanto le violenze di una dittatura offendono la democrazia.

Il narcisismo esibizionista delle “archistar” viene sempre più spesso spento dal disinteresse della gente proprio nei luoghi urbani che lo ospitano e certo non ha cittadinanza nei nuovi processi di territorializzazione. Nei luoghi riabitati si richiede una progettualità diffusa, continua, condivisa e non urlata (con Roberto Gambino avevamo coniato il “progetto umile” per il paesaggio montano), tutti requisiti per agevolare una godibilità plurale e duratura del Paesaggio che ne risulta e una personalizzazione delle esperienze di abitare o di visitare, queste sì nuovi argomenti del nuovo progetto.

 

1Dieta in greco antico significa “stile di vita”, con un senso molto più ampio della semplice regola alimentare, e ( credo non per caso) nell’alto Medioevo prende il significato anche di Assemblea ufficiale, giorno prefissato per riunirsi e decidere (da Carlo Magno in poi). In entrambi i casi i significati sono importanti per una temperie storica di nuove fondazioni, di riorganizzazione basilare dell’abitare, da soli o in collaborazione.

2L’orribile neologismo francese riproduce bene l’orribile forzatura della qualità in quantità di ogni definizione generalizzata di soglie dimensionali per segmentare fenomeni naturali continui o relazioni funzionali (o estetiche) di opere dell’uomo.

3Jean Piaget, Lo strutturalismo (1968) tr. it Il Saggiatore, Milano, 1971.

A Piaget non interessa capire se e come il contesto sia strutturato, interessa indagare come, da quando veniamo al mondo, ci attrezziamo per muoverci sempre più destramente nel contesto in cambiamento, adottando criteri di strutturazione sempre più potenti man mano che cresciamo. Studiando il bambino nel suo percorso di apprendimento Piaget individua stadi in cui il processo di strutturazione del sapere passa da una fase di pura sensazione ripetitiva a cui occorre adattarsi a una fase riflessiva, in cui le percezioni si relazionano e si generalizzano, a una fase adulta, di consapevolezza della propria azione strutturante e di suo utilizzo interattivo con il contesto.

4Nel film capolavoro di Kurosawa (1954), poi rifatto in chiave western da Sturges ne I magnifici sette (1960), si fa la storia del cinema con una trama archetipica: uno sperduto villaggio bullizzato e saccheggiato da una banda di predoni chiede aiuto a un samurai solitario, che aggrega altri come lui per andare a combattere e morire per i locali, solo alla fine insorgenti.

5 Oltre a vari testi di Piaget sullo “sviluppo” vedi Gregory Bateson, Verso una ecologia della mente (1972), tr. it. Adelphi, Milano, 1977 e id. Mente e natura (1980), tr. it. Adelphi, Milano, 1984.

6La definizione recita: "Paesaggio" designa una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni (in inglese: perceived by people), il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.

7Statu nascenti , il primo e migliore studio di Francesco Alberoni (il Mulino, Bologna, 1968), definisce la situazione iniziale ed entusiasmante di antagonismo alle istituzioni in crisi, momento in cui più facilmente opinioni personali si fanno “politica” e collaborano in decisioni di gruppo.

8 A Serendip (città immaginaria profumata d’Oriente) Horace Walpole nel 1754 colloca una storia basata sul vagare alla ricerca di qualcosa che non si trova, ma trovando invece cose e persone inaspettate e salvifiche. La serendipity diventa nel '900 proprietà di fenomeni storici e sociologici di provocare conseguenze inattese e positive e Arnaldo Bagnasco in un bel saggio la pone tra i motori d’attrazione della città. (Arnaldo Bagnasco, Fatti sociali formati nello spazio, Einaudi, Torino, 1998.)

ABITARE BENE IL MONDO: UN PROGETTO CULTURALE

INTERVENTI DI ROBERTO GAMBINO

 

(a cura di) Paolo Castelnovi

 

 

INDICE

 

- AVVERTENZA

- PREMESSA

  

- Introduzione: il contesto

- Il contesto ‘60: la prevalenza della periferia

- Il contesto ‘70: il paradosso dell’urbanistica

- Il contesto ‘80: finalmente la città nello spazio e nel tempo

- Il contesto ‘90: tutto è un ambiente, tutto è paesaggio

  

- Valorizzare il patrimonio storico: un dovere
1. Il contributo dell’ANCSA per la conservazione urbana

Dai centri storici al territorio contemporaneo

Nuovi paradigmi per una società che cambia

Temi emergenti: centralità urbana e paesaggio

 

2. Risorse e territorio: separazione/integrazione
Il principio di conservazione: dagli oggetti ai sistemi
La conservazione innovativa come fattore di sviluppo
Dalle risorse al patrimonio
Tra separazione e integrazione

Una prospettiva progettuale

 

 La stagione dei parchi: il grande laboratorio

3. APE Appennino Parco d’Europa. Inquadramento strategico

APE nel contesto euro-mediterraneo

Gli scenari di sfondo, tra immagini e strategie

Il senso di APE: riconoscimento, progetto o processo?

APE come territorio

Una strategia per APE

4. Parchi e paesaggio d’Europa. Una ricerca territoriale

Conservazione e innovazione, un rapporto inscindibile

I nuovi paradigmi per le aree naturali e protette

Il paradigma paesistico secondo la CEP

Dagli oggetti alle loro relazioni

Una risposta territorialista

I rapporti con il tempo e con la vita

Interpretazioni strutturali e strategia progettuali

Il progetto di territorio come processo sociale

Radicamento strutturale e “utopie concrete”

  

Il paesaggio, finalmente

5. Attualità del paesaggio

La questione paesistica

Il crocevia pesistico

Il significato del paesaggio

Quali progetti per il paesaggio?

6. Il paesaggio tra coesione e competitività

Il paesaggio, volto della società

Il paesaggio, fondamento dell’identità

Coesione e competitività

Regolazione versus percezione?

Conservazione e innovazione, un rapporto inscindibile

Il rapporto natura-cultura

Nuova centralità e diritto alla città

Nuove alleanze per il progetto di territorio

 

Le porte aperte

Rappresentazioni politecniche

Coppie motrici di progetto

 

 Riferimenti bibliografici

Storia

Ambiente

Paesaggio

 

 

Il paesaggio come creazione di valore: tre domande chiave

di Roberto Gambino

Intervento a convegno OLBIA 2009

 

 

I.

Il paesaggio come terreno di confronto

Nell’ultimo decennio, soprattutto a partire dalla Convenzione europea del paesaggio (CE, 2000), le esperienze di pianificazione territoriale, le pratiche di governo e il dibattito internazionale hanno conferito al paesaggio una crescente rilevanza politico-culturale. Il paesaggio è diventato sempre più, da semplice oggetto di studio, terreno di frontiera, di scontro o di confronto, che sfida la cultura del territorio reclamando risposte nuove a domande in parte antiche. Questo è particolarmente evidente se – come in questo convegno – si affronta il tema dei rapporti tra il paesaggio e il turismo. Nonostante il facile consenso che si raccoglie sull’interpretazione “positiva” di questi rapporti (e quindi dello slogan che dà il titolo al convegno: Paesaggio e turismo), non c’è dubbio che si tratta di rapporti potenzialmente conflittuali: le contese sulla pianificazione paesaggistica della Sardegna ne sono una prova eloquente. Basta pensare al paradosso di fondo che caratterizza il turismo: un’attività che dipende crucialmente dalla ricchezza e integrità di quelle stesse risorse, naturali e culturali, che tende a divorare. L’esperienza e le analisi valutative hanno da tempo messo in luce molti aspetti critici. Fra questi, l’ineguale distribuzione dei costi e dei benefici: in senso spaziale (il successo delle località turistiche è spesso pagato dall’abbandono di altre aree, anche contigue); in senso sociale (i vantaggi premiano di regola i cittadini istruiti del ceto medio, mentre le penalizzazioni si scaricano spesso sui contadini, i montanari e altre fasce deboli); e in senso temporale (molti benefici sociali od economici si manifestano nei tempi lunghi, mentre i costi o le ricadute negative spesso non si fanno attendere). In prospettiva internazionale, il divario tra gli interessi e bisogni locali e quelli che si manifestano nelle reti globali (in particolare dai grandi tour operator) è spesso tale da soverchiare la tradizionale contrapposizione tra benefici economici e costi ambientali: nel forum ospitato recentemente dall’Unione mondiale della natura, la domanda “a chi giova” ha messo impietosamente in discussione l’idea che lo sviluppo turistico possa comunque favorire il decollo dei paesi sottosviluppati, seppure a prezzo di danni ambientali. Nell’esperienza di molte regioni europee, i costi ambientali del turismo sono stati e sono tuttora pesantemente accentuati dalle spinte che il mercato immobiliare (seconde case, villaggi turistici, grandi complessi alberghieri, porti turistici ecc.) esercita sulle dinamiche dell’offerta turistica. I meccanismi della rendita tendono in sostanza ad esasperare le contraddizioni di fondo della fenomenologia turistica, che tende da un lato a promuovere la “modernizzazione” economica, sociale, culturale e paesistica, dall’altro a schiacciare le pulsioni innovative sotto il peso delle convenienze “inerziali”. Ciò è particolarmente evidente nell’esperienza dei “grandi eventi”, che spingono, in nome dell’“emergenza”, a “far piovere sul bagnato” – come tipicamente è successo nelle Olimpiadi invernali del 2006 nell’area torinese, che, ad onta delle buone intenzioni dichiarate, hanno finito col privilegiare le grandi stazioni esistenti, in grado di mettere rapidamente a disposizione un capitale importante di attrezzature, impianti e know how (Bottero, 2007).

Ma i conflitti che le politiche del paesaggio debbono affrontare non riguardano solo il turismo e i grandi eventi. Si configurano sindromi complesse di problemi irrisolti, criticità, attese e sofferenze, ambiguamente intrecciate con le nuove opportunità che si dischiudono, a fronte delle quali è lecito chiedersi se non si possa parlare di una “questione paesistica” (che si affianca e in parte si identifica con la “questione ambientale”), analoga alla “questione urbana” che si dibatté negli anni Settanta. Una questione del paesaggio che, incrociando i processi di globalizzazione, implica nuovi rischi e nuove minacce incombenti sulla società contemporanea e mette in discussione paradigmi, statuti e concezioni consolidate nei più diversi ambiti disciplinari, a cominciare da quello della geografia, nel quale il concetto stesso di paesaggio ha preso forma compiuta. La riflessione sui nuovi paesaggi della geografia può utilmente prendere le mosse da alcune domande cruciali che le politiche del paesaggio si trovano oggi a fronteggiare. Domande che affiorano nel dibattito internazionale (valga per tutti il riferimento all’UNESCO, impegnato ad andare ben oltre il riconoscimento, nel 1992, dei «paesaggi culturali» tra i siti inseribili nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità: Feilden, Jokilehto, 2007) e a maggior ragione nel quadro della Convenzione europea del paesaggio (CEP), promossa nel 2000 dal Consiglio d’Europa. Ma domande, anche, che trovano preciso riscontro nelle consolidate tradizioni italiane della tutela paesistica, nel riconoscimento costituzionale (Costituzione, art. 9) del primato accordato a tale tutela e nelle tormentate vicende di rielaborazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004-2008). Domande, quindi, che la pianificazione territoriale e paesaggistica, in tutti i contesti e a tutti i livelli, non può evitare di porsi e che possono così riassumersi:

1. Di quali valori tratta il paesaggio? Quali sono le poste in gioco nella sua tutela e gestione?

2. Si tratta di riconoscerli o di crearli? Che senso ha la loro conservazione?

3. Chi sono i soggetti coinvolti nella gestione del patrimonio paesaggistico? E in che modo?

 

 

2

Valori universali o valori territoriali locali?

La CEP ha sancito il principio che la tutela del paesaggio – in quanto espressione delle culture locali e fondamento delle loro identità – non riguarda poche aree di particolare pregio paesaggistico ma l’intero territorio; e vi è generale consenso nel constatare che tale affermazione non implica una semplice dilatazione spaziale del campo d’osservazione, ma costringe a ripensare il rapporto tra paesaggi e territorio.

Il paradigma implicito nella Convenzione UNESCO del 1972 non sembra adeguato a cogliere questi nuovi rapporti. Esso ruota infatti attorno al concetto di «eccezionali valori universali» e fa riferimento a beni o siti di intrinseca rilevanza, autenticità e integrità, in quanto tali distinguibili dal contesto, chiamati a rappresentare e celebrare una eredità che appartiene all’umanità intera, senza vincoli di proprietà, appartenenza o identità nei confronti delle comunità locali. In parte, questo paradigma ha trovato finora riscontro anche nella logica con cui l’Unione mondiale della natura ha promosso le politiche di conservazione della natura e più specificamente le politiche delle aree naturali protette. Queste fanno riferimento a sei categorie, di cui la quinta (assai diffusa nei paesi europei) è costituita dai «paesaggi protetti», nei quali la lunga interazione tra l’uomo e la natura ha prodotto aree di carattere distintivo, di significativo valore ecologico, biologico, scenico o culturale (IUCN, 1994). Sebbene sia attualmente in corso, in seno all’IUCN, un rilevante spostamento d’attenzione dalle singole aree alle loro «reti di connessione» (IUCN, 2003, 2004), il concetto dei paesaggi protetti, così come sono interpretati nella maggior parte delle esperienze europee (Gambino, Talamo, Thomasset, 2008) sembra in larga misura assimilabile a quello dei paesaggi culturali considerati dall’UNESCO.

È solo con la Convenzione europea del paesaggio che si propone un approccio esplicitamente “territorialista”, che sposta l’accento dai singoli paesaggi (le “isole di pregio”, le “eccellenze”, le aree di valore intrinseco ed eccezionale) al patrimonio paesaggistico diffuso in tutte le sue articolazioni locali. È in questo nuovo paradigma che prende forza il significato complesso e pervasivo dei valori paesistici locali e si delinea il necessario riferimento alle percezioni, alle attese e alle responsabilità gestionali delle popolazioni direttamente interessate. La tutela del paesaggio cessa di proporsi in nome soltanto di principi universali (la salvaguardia del Patrimonio culturale dell’umanità intera, come nella Convenzione UNESCO, o la conservazione della biodiversità come nello schema dell’IUCN) per collocarsi invece al centro delle rivendicazioni locali a favore della qualità e sostenibilità del contesto di vita delle popolazioni, della difesa delle culture locali e dei loro fondamenti identitari. La domanda sociale di paesaggio, in questa chiave interpretativa, si collega strettamente all’affermazione delle istanze dello sviluppo locale e dei diritti inalienabili delle popolazioni locali, compresi quelli che riguardano la qualità e la bellezza dei luoghi.

Tuttavia, nonostante il successo mediatico delle retoriche “localiste” e il forte impulso territorialista impresso dalla CEP, la questione del paesaggio non è certamente affrontabile senza un chiaro ed esplicito riferimento ai principi di base ed ai valori universali. Anzi, il preoccupante «arretramento dei valori universali» di fronte ai particolarismi dei gruppi e delle comunità (Touraine, 2008), la frantumazione dei valori identitari e la drammatica esplosione delle «identità armate» (Remotti, 1996) e delle affermazioni fideistiche pongono sempre più spesso il paesaggio al centro di scontri di valori. Valori locali e valori universali non sono necessariamente contrapposti, ma la loro tutela può richiedere strategie diverse, potenzialmente in contrasto. L’integrazione delle opzioni paesistiche nelle politiche e nel governo del territorio (esplicitamente richiesta dalla CEP) comporta difficili arbitraggi e richiede di rispondere a domande come le seguenti:

– Come si concilia il riconoscimento dei valori universali del paesaggio (quali quelli che determinano l’inclusione nelle liste del patrimonio mondiale) col riconoscimento dei valori identitari locali perseguito dalla CEP?

– Come si concilia la logica “delle eccellenze”, dei beni paesaggistici di intrinseco ed indiscusso prestigio (in quanto tali staccabili dal paese reale) con quella dei valori diversificati e diffusi in tutto il territorio, e dei sistemi di valore che fanno parte inscindibile del territorio?

– Come si concilia la difesa dei valori naturali e della biodiversità con quella dei valori estetici e simbolici (di cui ad esempio il Codice del 2004 afferma implicitamente la priorità)?

Per riscoprire il valore del paesaggio, uscendo dalla sterile contrapposizione tra valori locali e valori universali, occorre ripensarne il rapporto col territorio, tra visto e vissuto, tra la produzione incessante di nuove immagini e rappresentazioni paesistiche e i sottostanti processi di territorializzazione. In questo orizzonte dilatato, gli scontri di valori devono sempre più cedere il passo al confronto argomentato e trasparente dei diritti in gioco.

 

 

3

Riconoscimento o creazione di valori?

Piani e programmi degli ultimi decenni hanno sempre più spesso inseguito l’obiettivo di «ripartire dall’ambiente e dal paesaggio» come base o pre-condizione su cui costruire le scelte di trasformazione del territorio. L’interpretazione “strutturale” del territorio, il riconoscimento dei suoi caratteri stabili o permanenti, la ricostruzione degli «statuti dei luoghi», l’individuazione delle cosiddette «invarianti», hanno assunto il significato di un «riconoscimento pregiudiziale di valori» che le scelte di trasformazione non possono mettere in discussione. In alcune regioni, questo significato ha trovato anche riscontro nell’apparato legislativo. Questa attribuzione di una più o meno esplicita valenza “normativa” al riconoscimento dei caratteri e dei valori del paesaggio, ha richiesto e richiede un tentativo di lettura e comprensione olistica del territorio di cui il paesaggio stesso è l’espressione dinamica ed evolutiva. Lettura che non poteva non richiamare le suggestioni del pensiero geografico, a partire almeno da von Humboldt (1860; Quaini, 1992), ma che non può evitare di confrontarsi con gli altri sviluppi specialistici consolidatisi nell’ultimo secolo in diversi ambiti disciplinari: in particolare col ruolo egemone dell’ecologia del paesaggio – soprattutto dopo la svolta degli anni Sessanta in cui si profila il «new determinism» di McHarg (1966) ed altri, come Forman e Godron (1986), Steiner (1994) – con la solidità degli approfondimenti storici e archeologici, con le stimolanti provocazioni degli economisti, degli agronomi, dei sociologi ed antropologi, con le “incursioni” degli architetti e degli urbanisti, con i nuovi sviluppi delle analisi estetiche e semiologiche. Sviluppi ed approfondimenti che hanno favorito un approccio “scientifico” alla questione del paesaggio, concorrendo a superare il confuso impressionismo delle opzioni di tutela e i vagheggiamenti nostalgici di un passato pre-industriale e pre-moderno, non meno che l’arroganza progettuale implicita nel «plaisir superbe de maitriser la nature». È un approccio che tende a consolidarsi e che comporta una “interpretazione” multilaterale, che non può nascere dal semplice accostamento delle molteplici letture disciplinari, ma richiede che esse interagiscano confrontandosi e fecondandosi a vicenda e convergendo in un quadro interpretativo unitario. Nonostante le difficoltà che si frappongono ad ogni tentativo di ricognizione inter- o trans-disciplinare, gli sforzi in questa direzione consentono di radicare nelle concrete realtà territoriali le scelte di tutela e gestione del paesaggio, motivandole, argomentandole e giustificandole nei confronti di ogni altra scelta di trasformazione e di sviluppo. Ma l’ambiente e il paesaggio non sono mai “un dato”, fisso ed immutabile, non sono mai separabili dal loro divenire. Anche in presenza dei più intoccabili valori, anche di fronte agli «outstanding universal values» che meritano l’inserimento nel Patrimonio mondiale dell’umanità, l’azione conservativa e le misure di protezione devono confrontarsi con il cambiamento: cambiamento dei dati fisici dell’ambiente e del paesaggio o anche e soprattutto dei modi con cui tali dati sono percepiti e interpretati nella insopprimibile attualità del presente. Questo riguarda direttamente i paesaggi “culturali”, come gran parte dei paesaggi agrari ereditati dal passato, il cui interesse paesaggistico nasce non tanto dalla coerente rappresentazione delle attuali attività agroforestali, quanto piuttosto dalla memoria o dalla nostalgia di quelle pregresse: un desiderio di paesaggio che nasce dalla nostalgia del territorio (Raffestin, 2007). Ma il cambiamento incessante dei rapporti del paesaggio col territorio interessa tutti i paesaggi: «anche i paesaggi che crediamo più indipendenti dalla nostra cultura possono, a più attenta osservazione, rivelarsene invece il prodotto» (Schama, 1995).

Questo richiama l’attenzione sul ruolo culturale del paesaggio, in quanto processo di significazione (Barthes, 1985) e di comunicazione sociale (Eco, 1975). Se si riconosce il duplice fondamento – naturale e culturale – dell’esperienza paesistica, occorre anche riconoscere che il sistema segnico costituito dalla sostanza sensibile del paesaggio non può in alcun modo ridursi ad un insieme “dato” di significati. La semiosi paesistica è un processo sempre aperto, in cui la dinamica delle cose – l’ecosfera – è inseparabile dalla dinamica dei significati – la semiosfera – e quindi dai processi sociali in cui questa si produce (Dematteis, 1998). La complessità del paesaggio si manifesta proprio nell’insopprimibile apertura dei processi di significazione che riesce ad attivare, nella molteplicità ed imprevedibilità degli approdi semantici. D’altra parte, questa apertura dinamica investe l’ambiguità intrinseca del paesaggio, la sua capacità di alludere insieme alle cose e alla loro immagine, alla res extensa e alla res cogitans; ambiguità che non va confusa con le incertezze semantiche del termine e che appare feconda proprio perché mantiene aperto e metaforico il suo significato: se ridotto a realtà oggettivabile e neutralmente quantificabile il paesaggio perderebbe il suo significato primario di «processo interattivo, osservazione incrociata tra idee e materialità» (Bertrand, 1998).

Queste constatazioni, se da un lato inducono ad utilizzare con cautela il concetto, sopra richiamato e largamente frequentato, di “invariante strutturale”, dall’altro richiamano l’attenzione sul carattere intrinsecamente “progettuale” del paesaggio: spiegano in che senso si può affermare che non c’è paesaggio senza progetto (Bertrand, 1998). Se è vero, come afferma la CEP, che il paesaggio è l’espressione della diversità del patrimonio naturale e culturale delle popolazioni e fondamento della loro identità, e che dunque ogni paesaggio ha una intrinseca valenza culturale (pur in assenza di un progetto “esplicito” e di un insieme coerente di scelte intenzionali, quali quelle che costruiscono i paesaggi culturali riconosciuti dall’UNESCO), ci si deve chiedere se o fino a che punto il riconoscimento culturale dei paesaggi possa prescindere da scelte di valore o da conseguenti strategie di valorizzazione. Sembra infatti evidente che la conservazione dei valori del paesaggio, se da un lato trova il suo fondamento nell’interpretazione strutturale sopra accennata, dall’altro non può evitare di fare riferimento ad una strategia più o meno esplicita di valorizzazione: riconoscimenti strutturali e visioni strategiche del cambiamento svolgono ruoli distinti ma complementari. Quale significato assume, in questa prospettiva processuale, la “conservazione” del paesaggio? Fino a che punto la salvaguardia dei valori riconosciuti può distinguersi dalla creazione di nuovi valori? Quale senso preciso può essere attribuito alla conservazione “innovativa” del paesaggio, ad una conservazione pensabile non solo come gabbia di vincoli ma come «luogo privilegiato dell’innovazione» (ANCSA, 1990)? E quale ruolo vi svolgono i giochi della memoria e le nostalgie del passato, a fronte delle pulsioni verso il progetto, verso nuovi codici d’ordine da imprimere nella materialità dei luoghi e negli sguardi che vi si proiettano?

 

 

4

Oggettività o soggettività del paesaggio?

Nella prospettiva della CEP, una difesa efficace e non meramente vincolistica dei valori paesistici non può evitare di fare riferimento a un progetto sociale, fondato sulla percezione e sulle attese delle comunità e degli attori locali. Un progetto che non si limita a registrare neutralmente le esigenze di tutela scaturenti dalla ricognizione dei valori in campo, ma riflette più o meno tacite opzioni di valore e concorre a perseguire i «disegni territoriali» (Sereni, 1961) di comunità più o meno vaste. Un progetto, quindi, che anche quando applicato in territori che non hanno conosciuto cambiamenti radicali dei paesaggi “originari”, comporta una creazione di valori e mette in causa i rapporti del paesaggio con le formazioni sociali che lo abitano, lo vivono e lo lavorano. Rapporti di identificazione e appropriazione, prima ancora che di produzione e fruizione, che costruiscono e continuamente ripropongono la “territorialità” del paesaggio, nel suo significato più profondo (Raffestin, 1998).

La considerazione di questi rapporti, richiesta dalla CEP, pone in risalto la dimensione “soggettiva” del paesaggio, al di là dell’“oggettività”

scientifica dei suoi dati geomorfologici, ecologici, storici, urbanistici ecc. D’altra parte la tensione fra soggettività e oggettività sembra ineliminabile dall’esperienza paesistica: la libertà intrinseca di questa esperienza, il fatto che il paesaggio circonda il fruitore e lo forza a partecipare costringendolo ad una percezione attiva (Zube, Sell, Taylor, 1982) ed obbligandolo a scegliere almeno il punto di vista, sembrano destinare i paesaggi contemporanei ad una fruizione sempre più individualizzata, quasi come ipertesti (Cassatella, 2001). Ciò non impedisce che l’evidenza empirica attesti il ruolo del paesaggio nella comunicazione sociale, la sua funzione d’orientamento (Lynch, 1971), il suo insostituibile contributo a far sì che gli uomini «non abitino ciascuno nel proprio isolotto», creando legami che ci uniscono attraverso «il nostro contatto muto con le cose, quando esse non sono ancora dette» (Merleau Ponty, 1993), la sua capacità di esprimere «un senso comune che crea un legame silenzioso e latente tra ogni individuo e gruppo sociale e il resto del genere umano e dei suoi ambienti geografici» (Dematteis, 1998). Ma la imprevedibile complessità delle interazioni tra i processi naturali e culturali che modellano il paesaggio, le nuove forme di mobilità e fruizione turistica del paesaggio e degli spazi naturali, la progressiva scomparsa dei tradizionali referenti sociali e l’emergere di nuovi attori e di nuovi modi di produzione paesistica, indeboliscono la possibilità di riconoscere il «senso comune» del paesaggio, di gestirne l’«iper-testualità» e di individuare i nuovi soggetti che possono prendersene cura. Il paesaggio «degli abitanti», che rinvia al territorio dell’abitare (Magnaghi, 1990) in cui si invera l’equazione heideggeriana tra l’abitare e l’edificare, rischia di diventare un’astrazione.

Nel contempo ogni pretesa d’ordine sovralocale rischia di contrastare o soffocare le istanze democratiche delle comunità locali tese a fondare sull’appropriazione e la difesa del paesaggio le proprie affermazioni identitarie. Il riconoscimento “oggettivizzante” di valori sovralocali rischia di soffocare il paesaggio come spazio dell’identità, evidenziando la contrapposizione tra le visioni e gli interessi degli outsider e quelli degli insider (Cosgrove, 1984). E d’altra parte è chiaro che l’identità si costruisce sulla diversità e presuppone quindi l’alterità (Telaretti, 1997); il riconoscimento dell’identità dei luoghi è basato sull’esperienza dell’altrove e del diverso, che coinvolge anche gli outsider, gli osservatori e i landscape users, come tipicamente nel caso del turismo.

Come conciliare allora l’oggettività razionale dei riconoscimenti e delle conseguenti misure di tutela con l’imprescindibile soggettività delle percezioni e delle attese locali? Come evitare da un lato l’arroganza dei piani e del sapere esperto, l’autoreferenzialità dei progetti che calano dall’alto e, dall’altro, la frantumazione delle azioni di difesa e la chiusura autistica dei sistemi locali?

 

Riferimenti bibliografici

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ZUBE E. H., SELL J. L., TAYLOR G. (1982), Landscape Perception: Research, Application and Theory, in “Landscape Journal”, 9, 1, p. 33.

Martedì, 23 Gennaio 2024 17:02

Landscape Planning: invarianti e criticità

Landscape Planning: invarianti e criticità

Roberto Gambino

in Maria Mautone e Maria Ronza (a cura di), Patrimonio culturale e paesaggio: un approccio di filiera per la progettualità territoriale, Roma, Gangemi editore 2009

 

Abstract Landscape analysis and planning are assuming a growing relevance in territorial government processes, in relation to the scaling-up of many environmental problems and their complex interference with the social and economic ones.

According to the European Landscape Convention, landscape has to be conceived not only as the result of the interaction between natural and cultural factors, but also as the expression of the diverse common heritages and the foundation of the population’s identities. It requires a new paradigm for landscape policies, that cover the entire territory and invest a wide range of different administration sectors.

Landscape may be considered with diverse scientific approaches, ranging from geography and geomorphology to ecology, economy, history, antropology, semeiology, aesthetics and so on. But we need also a holistic vision, based on a structural interpretation of the territorial context, pointing out the "invariants” to be rispected, as well as the pressures and critical factors threatening them.

The structural interpretation is a crucial step towards the landscape planning, where the special protection granted to the outstanding values must be reconciled with the need for a careful and sustainable management of the entire territory.

 

La questione del paesaggio: rilevanza e attualità

Il paesaggio ha assunto negli ultimi due o tre decenni una crescente importanza nei processi di gestione e di pianificazione territoriale. La “domanda di paesaggio”, lungi dal ridursi ad una pulsione edonistica schiacciata dai bisogni primari, riflette il tentativo di ridefinire i rapporti dell’uomo con la terra (Berque, 1995). Essa è entrata da tempo nelle rivendicazioni con cui comunità più o meno ampie tentano di difendere o di ricostruire la propria identità. La rivalutazione della estrema diversità del proprio patrimonio paesistico fa parte delle politiche con cui l’Europa È in cerca di se stessa, ma l’identità paesistica È spesso orgogliosamente difesa anche dai paesi emergenti, non senza drammatiche contrapposizioni etniche e culturali. A scala locale, molte piccole comunità “perdenti”, emarginate dallo sviluppo economico e sociale, affidano alle proprie risorse paesistiche e ambientali le residue speranze di sopravvivenza o di rinascita.

L’obiettivo della valorizzazione del paesaggio figura quasi ritualmente nelle dichiarazioni e nei programmi strategici con cui le amministrazioni pubbliche ai diversi livelli tentano di disegnare il proprio sviluppo economico e sociale.

D’altra parte, a dispetto di tali programmi e dichiarazioni, la “questione del paesaggio”, in quanto groviglio inestricabile di problemi, di rischi e di minacce che hanno a che fare con il patrimonio paesistico, sembra destinata ad aggravarsi e complessificarsi, stando ai Rapporti ambientali internazionali, che evidenziano congiuntamente:

  • l’incessante salto di scala di molti problemi ambientali, quali quelli connessi al global change, che pongono crescenti difficoltà di controllo, di regolazione e di governo alla scala locale;

  • la crescente interferenza dei problemi ambientali con quelli economici e sociali, quali quelli che concernono la povertà, l’accesso all’acqua ed alle risorse primarie, l’accesso all’informazione e alla cultura.

In questo contesto, il paesaggio gioca un ruolo centrale. Esso lancia un ponte tra natura e cultura, non soltanto perchè storicamente è sempre il risultato storico dell’interazione tra fattori naturali e culturali, ma anche perché (come dice la Convenzione Europea del Paesaggio: CEP, CE 2000) È “una componente essenziale del quadro di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità”. Infatti, non esiste paesaggio, per quanto remoto, che possa dirsi esente da ogni influenza antropica (Shama, 1995).

Questa affermazione trova riscontro anche in situazioni di estrema dominanza dei fenomeni naturali, come le grandi vette o i grandi complessi vulcanici (nei quali, come dimostra esemplarmente il caso del Vesuvio, le dinamiche eruttive hanno spesso coabitato per secoli con le attività antropiche). Ma vale anche in assenza di trasformazioni fisiche indotte dall’uomo: è lo sguardo dell’uomo, la sua interpretazione del dato naturale che dà senso e “crea” il paesaggio, inventandolo (come nell’”invenzione delle Alpi” da parte dei grandi viaggiatori del ‘600 e ‘700: Joutard, 1986) o scoprendolo (come nei “paesaggi della scoperta”).

In entrambi i casi la creazione del paesaggio implica una qualche forma di controllo della realtà materiale da parte della cultura umana (Raffestin, 2007). In entrambi i casi lo sguardo dell’uomo lascia il segno. Da

UNIVERSITA’DI CAMERINO

SEMINARIO

Riconoscere e ri-progettare la città contemporanea

Ascoli Piceno, 20-5-2011

 

I TEMI DELLA TRANSIZIONE

Roberto Gambino *

 

 

 

1.Una fase di transizione?

 

Le notizie e le immagini della immane tragedia del Giappone sembrano travolgere ogni possibilità di approccio razionale, scientificamente orientato, alle grandi questioni dell’insediamento umano contemporaneo. Nonostante il clamore mediatico e la “domanda di verità” che accompagnano di regola le emergenze ambientali, è spesso troppo arduo o forse impossibile distinguere le questioni d’emergenza da quelle che si manifestano nel segno della quotidianità e dell’ordinarietà. Difficili, largamente inadeguati, i tentativi di cogliere i nessi che legano le catastrofi “naturali” all’opera più o meno consapevole e intenzionale dell’uomo. Non meno difficili i tentativi di riportare ad un’interpretazione unitaria, anche alla luce della teoria Thomiana delle catastrofi, gli esiti che si manifestano nei diversi settori dell’attività antropica, da quelli che riguardano le trasformazioni fisiche del territorio a quelli che riguardano l’uso ed i consumi delle risorse naturali, o le dinamiche sociali e culturali, o i processi economici e finanziari. E le difficoltà sono tanto maggiori quanto più all’interpretazione si tenta di associare la previsione: ”nel buio discernere il futuro”.

 

Ma davvero stiamo attraversando “la fase dei grandi rischi” (Scalfari 2011)? Davvero non è casuale la concomitanza tra sommovimenti tellurici di inedita violenza, effetti disastrosi del cambio climatico globale (Kushner, 2011), drammatiche scosse d’assestamento geopolitico su scala internazionale, crisi economica globale ed esplosione della “bolla speculativa”? Non è certo questa la sede per rispondere a domande come queste. Ma, anche se si concentra l’attenzione sull’urbanistica e la pianificazione, non si può fare a meno di interrogarsi sui grandi cambiamenti che attraversano i territori della contemporaneità e sulle risposte che la cultura tecnica e scientifica ha elaborato o sta elaborando agli albori del terzo millennio. La “crisi della modernità” (Harvey 1990) consumata nel corso degli ultimi decenni aveva segnato la decadenza delle grandi narrazioni, delle idee di progresso e di giustizia sociale, delle questioni generali come quelle legate al controllo agli usi del suolo e delle risorse primarie. La frammentazione ecosistemica, prodotto perverso dell’urbanizzazione totale del territorio, sembrava trovare riscontro nella frantumazione del tessuto sociale e dei sistemi di relazione, nella estrema diversificazione degli interessi e delle domande sociali. E. di conseguenza, negare spazio alle interpretazioni unificanti, all’idea stessa di interesse pubblico.

 

Nel corso degli anni ’80, i dibattiti sulla crisi dell’urbanistica, caratterizzati dalla contrapposizione quasi caricaturale tra la cultura del piano e la cultura del progetto, sembravano destinati a smentire definitivamente l’efficacia sociale della pianificazione. Luigi Mazza, in una lucida analisi su Urbanistica (n.98, 1990) riprendendo una nota di Bernardo Secchi (Casabella n.530, 1986), osservava come “la domanda sociale a cui tradizionalmente gli urbanisti davano risposta sarebbe mutata, non più ‘questione generale’, ma problema di minoranze; di questo gli urbanisti non si sarebbero accorti e perseguendo una ‘questione generale’ ormai inesistente avrebbero aggravato il sistema di disuguaglianze anziché attenuarlo”. Problemi d’ordine generale come quelli legati ai rapporti tra stato e mercato nella costruzione del territorio, e quindi al controllo dei valori del suolo, sembravano “rimossi dalle passioni e dagli interessi di buona parte degli urbanisti. L’attenzione di molti è piuttosto concentrata sulla questione della forma e del disegno della città”. Affascinata dai problemi dell’identità complessiva dell’urbs, la pianificazione sarebbe incapace di affrontare quelli della “frammentazione e l’articolazione della civitas e quindi la molteplicità delle forme secondo cui la nostra società tende ad autorappresentarsi”. Il contributo della pianificazione urbana e territoriale alla risoluzione della “questione urbana” su cui si era concentrata nei decenni precedenti la riflessione di studiosi come Castells, non senza potenti riscontri nei movimenti di base della società, sembrava indebolirsi; ed anzi la stessa questione - come questione, appunto, generale - sembrava perdere d’attualità e rilevanza nelle domande e nelle percezioni della società contemporanea.

 

A più di vent’anni di distanza, ci si può chiedere se queste osservazioni siano ancora valide, se la questione urbana costituisca ancora o nuovamente il quadro problematico con cui la pianificazione deve confrontarsi. E se l’uscita dalla crisi che sembra pervadere le nostre città e i nostri territori richieda la costruzione di un quadro interpretativo ampio e comprensivo: un quadro nel quale si possa tentare di situare coerentemente i grandi problemi della società contemporanea, da quelli che concernono le trasformazioni fisiche del pianeta a quelli che riflettono la radicalizzazione delle diseguaglianze economiche e sociali, le carenze ed il degrado delle condizioni abitative, la crescente mobilità delle popolazioni, delle attività e delle idee. In altre parole, dobbiamo chiederci se e come la cultura della pianificazione (in termini di statuti scientifici e competenze disciplinari, di capacità tecniche professionali, di apparati amministrativi, di strumenti giuridici e di quadri istituzionali, ma anche di attitudini e sensibilità culturali) possa oggi tradurre “le preoccupazioni individuali in questioni pubbliche” (Bauman, 2008). . Si impone un cambio di prospettiva, per passare da una visione patrimoniale statica e inventariale – quale quella che ha orientato e tuttora in larga misura orienta l’azione di tutela del patrimonio culturale e naturale (Choay 1993) - a una visione dinamica e strutturale, in grado di cogliere le drammatiche criticità e l’attualità del territori. E’ una visione che sconta l’impossibilità di archiviare l’eredità storica nelle memorie e nei reperti del passato e spinge invece a riconoscere l’attualità del territorio storico nella sua incessante contemporaneità con la cultura della società che lo abita e lo produce. Una visione che, incrociando più vaste riflessioni sulle dinamiche della società contemporanea, ha aiutato a comprendere la (ri)scoperta del territorio come risorsa a rischio di perdita e di degrado, ma anche come insostituibile fondamento dell’azione politica e culturale.

 

Nel tentativo di offrire qualche risposta a tali interrogativi, non si può prescindere da una constatazione quasi banale, che riguarda l’incrocio della questione urbana con la “questione ambientale” latamente intesa. Espressione, quest’ultima, che evoca un groviglio inestricabile di problemi, di rischi e di paure, ma anche di speranze, di domande e di attese che hanno assunto nella seconda metà del secolo scorso crescente importanza per la società contemporanea. Da un lato infatti i processi di urbanizzazione e di trasformazione territoriale hanno accelerato e amplificato la frantumazione dell’ecosfera, moltiplicando le diseguaglianze e gli squilibri che richiedono specifica attenzione e quindi specifici “progetti”. L’enfasi sulla diversità (che, a livello internazionale, si è progressivamente spostata dalla sfera biologica –oggetto degli accordi di Rio nel 1992- alla sfera bio-culturale su cui l’Unesco e l’Unione mondiale della natura hanno ancora recentemente portato l’attenzione), la ricerca dei valori di identità (su cui la stessa Convenzione Europea del Paesaggio concentra le sue raccomandazioni: CoE, 2000), la rivendicazione dei nuovi diritti di cittadinanza (che includono la difesa delle proprie peculiarità), il rilievo politico e socioculturale attribuito allo sviluppo locale (che pervade le dichiarazioni e gli atti di indirizzo delle amministrazioni pubbliche a tutti i livelli), sono alcuni tratti fondamentali dei cambiamenti verificatisi in quei decenni, che spingono assai più di prima, a “rendere disomogeneo lo spazio e a definire al suo interno differenze” (Secchi, ibidem). Ma dall’altro lato, l’esplosione dei rischi ambientali e il “salto di scala” di gran parte dei problemi ambientali, economici e sociali (sempre meno trattabili a scala locale, sempre più richiedenti azioni e apparati di controllo a livello regionale, nazionale e soprattutto internazionale), ripropongono i grandi temi dell’integrazione trans-scalare delle azioni pubbliche di regolazione, dei grandi racconti e delle “big pictures” su cui si fondano le strategie d’insieme (basti pensare ai sistemi infrastrutturali). Emblematico, in questo senso, il tema del “global change” e dello sconfinato insieme di attività e di politiche che dovrebbero contrastarne o mitigarne gli effetti indesiderabili.

 

2. Luoghi, reti e paesaggi nella transizione in corso

 

La grande transizione in cui siamo impegnati non riguarda soltanto i cambiamenti reali del mondo contemporaneo, ma anche i modi con cui li osserviamo, le concezioni, i miti e le utopie che guidano le nostre analisi e le nostre scelte. Non possiamo evitare di misurarci coi processi emergenti, ma “per farlo dobbiamo poterli riconoscere. E per riconoscerli capire quanto sta accadendo” (Hillman, 2011). A questo fine l’approccio “territorialista” – quale quello recentemente proposto dalla neonata “Società dei territorialisti”: Magnaghi 2010 - ha svolto e può svolgere un ruolo significativo. “Questo approccio ha posto al centro dell’attenzione disciplinare il territorio come bene comune, nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva, e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile […]. Il ritorno al territorio come culla e risultato dell’agire umano esprime e simboleggia la necessità di reintegrare nell’analisi sociale e quindi anche economica, gli effetti delle azioni umane sulla mente umana e sull’ambiente naturale, sempre storicamente e geograficamente determinati”. Il territorio, dunque, non come inerte supporto delle attività antropiche, ma come sistema costitutivo delle relazioni che esse intrattengono con le dinamiche naturali.

 

In questa prospettiva, il rapporto tra natura e cultura svolge un ruolo cruciale, tutt’altro che scontato. Respinte le schematizzazioni meno sostenibili (come la divisione dicotomica del territorio in spazi naturali  e spazi antropizzati: divisione che tuttavia ricorre ancora non solo nelle politiche dei parchi e delle aree protette "insularizzate", ma anche in molte politiche territoriali volte a contrastare con misure di esclusione i consumi dissennati di territorio)  occorre riconoscere che la discussione è aperta, sul piano teorico non meno che  politico ed operativo. Occorre da un lato de-naturalizzare le scelte di trasformazione antropica, troppo spesso occultate da generici richiami  agli eventi naturali (le false emergenze naturali  che coprono autentiche  "calamità pianificate"  e  logiche devastanti di gestione "emergenziale" del territorio, ma anche quelle interpretazioni strutturali di piani urbanistici e territoriali che confondono il "dato" col progetto). Dall'altro occorre, dopo la svolta ecologista della metà del secolo scorso e le sue ricadute deterministiche (McHarg 1966), ricostruire i rapporti tra naturalità, ruralità e urbanità, riconoscendone la compresenza pervasiva in ogni angolo del pianeta. Si configura un radicale superamento di quella contrapposizione tra natura e cultura che ha svolto un ruolo centrale nella civiltà occidentale in età moderna, a partire dalle grandi utopie rinascimentali. Se ancora alla fine dell’800 Ebenezer Howard (1898) poteva proporre con la teoria dei tre magneti e l’idea della “Città giardino” una sintesi creativa, i grandi cambiamenti del secolo scorso (come l’industrializzazione dell’agricoltura o l’urbanizzazione “totale” dello spazio abitabile e la reciproca contaminazione dei rispettivi spazi dedicati) hanno messo fuori gioco i tradizionali modelli interpretativi e sollecitato l’elaborazione di nuovi rapporti.

 

Si afferma faticosamente una crescente consapevolezza delle responsabilità antropiche nella determinazione o nell’aggravamento dei rischi, delle calamità e del degrado ambientale, mentre i “nuovi paradigmi” che si profilano a livello internazionale (IUCN 2003) legano ormai ogni prospettiva di conservazione della natura alla promozione e regolazione dello sviluppo culturale, economico e sociale sostenibile. Da un lato l’enfasi sull’impegno internazionale per la difesa della bio-diversità concede uno spazio crescente all’importanza della diversità bio-culturale, ostaggio dei processi di urbanizzazione totale ma mai indipendente dalle dinamiche naturali (Unesco 2009). E’ questa la diversità che costituisce la ricchezza (il “capitale”) su cui basare lo sviluppo sostenibile del territorio. E d’altro canto non si può certo ignorare il significato culturale connesso all’utilizzazione antropica delle risorse naturali, alla fruizione, alla percezione e all’apprezzamento individuale e collettivo dei paesaggi e delle “bellezze naturali”. Già la scoperta humboldtiana del “nuovo mondo” (von Humboldt, 1860), come l’”invenzione” sette-ottocentesca delle Alpi, orientano gli sguardi e umanizzano irreversibilmente il mondo naturale, anche in assenza di rilevanti trasformazioni fisiche. Soprattutto nei territori europei in cui più densa e pervasiva è stata la sedimentazione culturale, la naturalità con cui abbiamo a che fare è quella storicamente determinata dalle vicende pregresse dell’appropriazione antropica dello spazio: non solo da quella che ci ha lasciato un patrimonio ammirevole di paesaggi culturali, ma anche dalle spinte omologatrici che hanno investito la campagna, ipersemplificato e banalizzato i paesaggi agrari ereditati da secoli di storia, piegato le dinamiche naturali alle logiche, spesso indecifrabili, dell’espansione urbana e della dispersione insediativa, ”, smantellato i reticoli ecologici (fossi, canali, siepi ed alberate, ecc.), presidio prezioso della diversità paesistica e della stabilità ecosistemica. (Gambino 2000). Negli scenari che si vengono delineando a livello globale, la naturalità così “storicizzata” non è in alcun modo confinabile in “aree naturali” sottratte (illusoriamente) all’influenza antropica, ma incrocia ovunque l’opera dell’uomo, sia che essa si allei assecondandole con le dinamiche naturali, sia che le contrasti in forme più o meno calamitose.

 

E' in questo contesto complesso e problematico che va concentrata la ricerca di  una nuova territorialità, gravida di memorie e di consapevolezza ambientale, sullo sfondo di un'evoluzione del pensiero scientifico contemporaneo che sembra mutare il senso della presenza umana nel mondo. In questa ricerca il riferimento alla dimensione locale è fondamentale. Una dimensione che evidenzia le identità e i caratteri su cui riposa la diversificazione del territorio, senza vincoli di scala. Che crea i paesaggi, con visione dinamica e trans-scalare, con collegamento incessante alle percezioni, alle attese ed ai progetti degli abitanti. ma i luoghi non sono frammenti autonomi e indipendenti, non sono mondi separati, sono “schegge del mondo” (Magris…). La loro capacità di conservare i propri caratteri identitari dipende, non meno che dalle “chiusure operative” dei sistemi locali, dall’apertura verso il cambiamento e quindi dalla loro capacità di affacciarsi efficacemente sulle reti di relazioni che agiscono nel contesto territoriale, alle diverse scale.

 

E’ qui che si concreta il rapporto tra valori locali e valori universali. Negli scenari internazionali anche il riferimento prioritario ai sistemi di valori sovra-locali è oggi in discussione. Da un lato infatti l’indietreggiamento dei valori universali, minacciati od aggrediti dagli attuali modelli di sviluppo, spinge a misure esemplari di tutela, quali quelle accordate ai siti inseriti nel World Heritage. Ma dall’altro lato, la rivalutazione dei sistemi locali e delle ragioni dello sviluppo locale, soprattutto in situazioni di marginalizzazione o di declino, trova riscontro nella riaffermazione dei valori identitari locali, visti spesso dalle comunità perdenti come le “radici del proprio futuro”. Sebbene le rivendicazioni identitarie non siano certo esenti da chiusure autistiche e aspre conflittualità (le ”identità armate”), è nei sistemi culturali locali che si radicano i valori universali, come dimostrano le ricerche e i dibattiti che hanno accompagnato varie esperienze di riconoscimento di Siti Unesco, compresa quella recente, relativa alle Dolomiti: inserite come “sito naturale” ma per ragioni che richiamano esplicitamente la rilevanza dei patrimoni culturali locali. Tra i valori locali e i valori universali sembra così delinearsi un rapporto di complementarietà, o più precisamente di forte interazione, che non cancella la possibilità di conflitti e di contraddizioni. (Gambino 2010). Pensata come un argine contro la perdita o la regressione dei valori universali, la difesa del migliaio di siti del World Heritage sparsi in tutti i continenti sembra spesso portare piuttosto il vessillo di “peculiari” valori locali, capaci di competere vantaggiosamente sull’arena globale. Non a caso le battaglie politico-culturali per le “nominations” dei Siti da inserire nelle liste Unesco sono sempre più spesso ingaggiate in nome del rilancio e del consolidamento di culture e di paesaggi locali (come tipicamente nel caso dei paesaggi viticoli francesi od italiani).

 

La tensione tra valori naturali e culturali, tra valori locali e universali, evoca inevitabilmente il rapporto tra i luoghi e le reti. Luoghi e reti sono da tempo pensati come metafore complementari, per l’interpretazione e il progetto dei territori della contemporaneità (Gambino1994?). Esse possono aiutare a riconoscere la “territorialità del paesaggio” nell’ampio significato attribuitogli dalla Convenzione Europea promossa dal Consiglio d’Europa nel 2000. E’ nel paesaggio, quale risulta dall’incessante interazione delle dinamiche antropiche e naturali, che l’insediamento storico prende il suo pieno significato, di storicità ed attualità. E’ nel paesaggio che i centri storici dialogano non solo con la campagna “edificata” (Cattaneo 1845), nel corso dei secoli e dei millenni dalle reti agrarie, dai sistemi delle acque e dai sistemi della viabilità e delle infrastrutture, ma anche con la presenza mobile della natura, che, riluttante ad ogni confinazione, pervade e diversifica gli spazi che circondano le aree in vario modo costruite. Nonostante i processi di urbanizzazione diffusa, la proliferazione delle maglie infrastrutturali e la stessa “modernizzazione” della pratiche colturali – soprattutto nell’ultimo mezzo secolo - abbiano profondamente ed estesamente intaccato i paesaggi ereditati dal passato, frantumandone i reticoli connettivi e i caratteri identitari, è ancora in quei paesaggi e nella loro coerente evoluzione che si può tentare di recuperare la qualità, la bellezza e la riconoscibilità dei territori contemporanei. La ricostruzione di migliori equilibri ecologici e di più accettabili condizioni di sicurezza nel quadro di vita delle popolazioni, non meno che la ricerca di nuovi fondativi rapporti coi luoghi, trova nella diversità dei paesaggi un’espressione fondamentale. Ma anche, inversamente, la piena considerazione dei nuovi significati di centralità sociale spinge ad interpretarli nel quadro della reinvenzione dei paesaggi della modernità. La chiave paesistica offre un ausilio potente per orientare il progetto di territorio al riconoscimento delle nuove forme del rapporto tra cultura e natura: passo obbligato per migliorare la qualità complessiva offerta agli abitanti non meno che ai turisti e ai visitatori.

 

3. La riarticolazione della centralità urbana.

 

In particolare, è il paesaggio urbano storico, che compone forme propriamente urbane con frange peri-urbane di “campagna urbana” (Donadieu 2006), ad attrarre sempre più (come già rilevava il Memorandum di Vienna nel 2005) visitatori, residenti e capitali. Nella transizione verso la società della cultura e della conoscenza, e a fronte delle spinte omologanti determinate dai processi di globalizzazione, il ruolo della centralità è sempre meno affidato alle relazioni strettamente economiche e funzionali (le funzioni “centrali” del terziario e del quaternario) e sempre più alle relazioni simboliche, alle immagini identitarie e alle dinamiche “intangibili”. E’ soprattutto su queste che fanno leva le politiche di marketing con le quali città e territori cercano di affrontare con speranze di successo le sfide competitive che si profilano a livello internazionale. E’ su queste che recenti documenti Unesco (2009) richiamano l’attenzione, sottolineando il ruolo complesso che la “messinscena” paesistica svolge combinando le immagini durevoli della città storica con le suggestioni delle nuove architetture che ne ridisegnano i rapporti col contesto extraurbano. Le tensioni che ne derivano non sono certo esenti da equivoci e contraddizioni. Come dimostrano le aspre contese che hanno accompagnato la “verticalizzazione” di tante città europee (i grattacieli di Londra o di Parigi o di Milano) è evidente il rischio che proprio le nuove immagini della “modernizzazione urbana”, prendendo le distanze dall’eredità storica dei singoli paesaggi urbani e mettendosi al servizio degli stessi meccanismi speculativi che dominano il mercato immobiliare, ne configurino paradossalmente la sostanziale omologazione. In prospettiva internazionale, il rischio che i sogni della “città europea”, orgogliosamente contrapposta alla città “americana” per la complessità della sua stratificazione storica, cancellino ogni attenzione per i caratteri distintivi, le regole di coerenza e le qualità specifiche dell’urbanità contemporanea.

 

E’ questa la posta in gioco: la centralità urbana e il suo significato per la società contemporanea, come livello specifico dell’urbanità, essenza ultima di quel “diritto alla città” (Lefebvre 1970) su cui si svilupparono le lotte urbane degli anni ’70; ma nuovamente al centro della domanda sociale di città e di memoria. E’ il caso paradigmatico dell’Aquila, dove l’urgenza dei nuovi interventi sostitutivi per i “terremotati” ha gettato nell’ombra l’esigenza di recuperare la città storica e i suoi valori socioculturali, appassionatamente propugnata dai suoi abitanti. In prospettiva internazionale, la crisi delle politiche “centriste” (emblematizzate dalle new towns e dalle villes nouvelles) concorre a mettere in discussione l’idea che soltanto lo spazio della convergenza e dell’aggregazione fisica – la piazza – possa ospitare i valori di centralità e che al contrario gli spazi aperti, la campagna e gli spazi della “dissoluzione urbana” vi si oppongano dialetticamente. Questa discussione ha particolare rilevanza per i centri storici. Essa ne investe anzitutto il ruolo “centrale” sotto il profilo economico-funzionale, sociale e culturale, nell’ambito dei rapporti tra città compatta e città diffusa. Rapporti assai più problematici di quanto non emergesse nelle critiche alla dispersione urbana dei decenni scorsi, che vanno ripensati a fronte dell’emergere della città “reticolare” (Dematteis 1995, Gambino 2009), preludio forse di nuove più complesse forme di metropolizzazione (Indovina 2010), In queste nuove configurazioni urbane i grandi eventi prendono sempre più spesso forma fuori dei luoghi tradizionali, la quotidianità si appropria di spazi inconsueti, i giovani reinventano continuamente gli spazi della creatività. Ma la discussione investe anche l’altro termine del concetto di centro storico, la sua storicità, negandone in radice la possibilità di ancorarla a precise e stabili delimitazioni spaziali. La riarticolazione della centralità urbana non riguarda pezzi di città o brani staccabili di territorio, ma il territorio storico nella sua complessità.

 

4. Il nuovo ruolo degli spazi liberi

 

Nella città e nel territorio storico contemporaneo, dentro o ai bordi dello spazio “costruito”, gli spazi liberi sono sempre meno interpretabili con la metafora ambigua del ”verde urbano”, sempre più spesso teatro della nuova fenomenologia urbana. Teatro che non si racchiude nei confini stabili dell’urbano, poiché si ramifica dinamicamente nelle reti territoriali, che entrano ed escono dalla città compatta (tipicamente con le fasce fluviali e i sistemi delle acque), la attraversano e la legano al contesto territoriale. In questo quadro la “rinaturalizzazione” della città, oggetto di politiche urbane e territoriali ricorrenti a livello internazionale, può assumere un significato nuovo e diverso. Va pensata non tanto per concedere al verde qualche metro in più, quanto per riportare la natura in città restituendole la pienezza di quel significato ecologico, storico e culturale, che traspare vividamente dall’iconografia storica. Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e attualizzare l’idea delle “cinture verdi”, nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul territorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e paesaggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. In questa direzione le politiche di conservazione della natura e del paesaggio sembrano destinate a sfidare la cultura urbanistica, costringendola ad uscire dai suoi recinti tradizionali (legati più o meno rigidamente all’ambiente costruito) per assumersi nuove più pesanti responsabilità in ordine alla realizzazione dello spazio pubblico e dello stato sociale.

 

D’altronde, nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche – per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesistica del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate – ha già assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (Ced-Ppn, 2008). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni biologiche, di collegamento tra habitat e risorse naturali che rischiano l’insularizzazione, ma assumono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegando risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove “infrastrutture ambientali” capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno importante di quello tradizionalmente assegnato alle reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo “in uscita” dalla città, vale a dire verso i territori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche “in entrata”, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a riportare la natura in città (“greening the city”), per i progetti di recupero e riqualificazione delle fasce fluviali e per i sistemi delle acque storicamente consolidati, per il riuso non meramente immobiliare dei “vuoti urbani” e delle grandi aree dismesse, segnala il maturare di una nuova consapevolezza dei grovigli di deficit che occorre rimuovere.

 

5. Parchi e paesaggi, nuove alleanze

 

Lungi dal potersi rinchiudere in orizzonti settoriali e in pericolose politiche d’emergenza, la conservazione innovativa della qualità del territorio richiede strategie lungimiranti d’intervento strutturale e preventivo, che guardino non solo alle “eccellenze” ma all’insieme del territorio; è questo che va salvato e valorizzato, non le singole “cose” che ospita. Le nuove visioni che caratterizzano gli scenari internazionali, i nuovi paradigmi che dovrebbero guidare la conservazione della natura, le prospettive reticolari che si profilano nelle città e nei territori contemporanei, sollecitano strategie diramate e complesse, trans-scalari e pluri-settoriali. Calamità falsamente naturali e tragedie ambientali quotidiane ribadiscono la necessità e l’urgenza di collegare la tutela e la valorizzazione delle città e dei centri storici, dei paesaggi e del patrimonio culturale al rispetto della natura e del contesto ambientale, oggi oggetto di politiche largamente, drammaticamente separate. Convergono, nella crisi che attraversiamo, cause diverse, che attengono all’indebolimento e alla inadeguatezza degli apparati istituzionali e di governo, ma anche alla scarsa fiducia negli atteggiamenti cooperativi, nelle possibilità di partnership e di collaborazione inter-istituzionale: anche quando, come nel nostro paese, la “leale collaborazione” tra le istituzioni di governo è esplicitamente richiesta dalla stessa Costituzione. Si determina quindi una difficoltà insuperabile nella costruzione di quella “intelligenza collettiva” dell’impresa, della politica e del progetto (SIU, 2011) che costituisce una condizione indispensabile per affrontare con speranza di successo le sfide del territorio.

 

Nel tentativo di cambiare rotta, si profilano in particolare nuove alleanze tra politiche per la natura e politiche per il paesaggio (Gambino 2009, 2010). Le ragioni sono molteplici e affondano le radici nella comune esigenza di incidere positivamente nel governo del territorio. Da un lato si constata che le politiche di conservazione della natura, nonostante le carenze e le contraddizioni dell’azione pubblica, stanno assumendo un rilievo inaspettato nelle politiche locali e regionali. In particolare, nel 2010, l’Anno della Biodiversità, è stato largamente ribadito il ruolo centrale dei parchi e delle “aree naturali protette”, sia di quelle istituite dai singoli Stati con riferimento alle definizioni dell’Unione Mondiale della natura (IUCN 1994), sia di quelle istituite a livello sovra-nazionale, come la Rete Natura 2000 per i paesi dell’Unione Europea. Una spettacolare e incessante crescita dell’insieme di aree protette ha portato negli ultimi decenni ad estenderle ad una quota assai rilevante del territorio complessivo: in Europa si stima che oltre un quarto ne sia coperto e che quindi oltre un quarto della popolazione sia direttamente influenzata dalla loro gestione (CED-PPN 2008). Tale quota può essere ulteriormente aumentata se si considera che i “nuovi paradigmi” sanciti dall’IUCN spingono ad estendere i benefici delle aree protette ai rispettivi contesti territoriali (IUCN 2003). Dall’altro lato, le politiche del paesaggio, secondo gli orientamenti fissati dalla Convenzione Europea, riguardano l’intero territorio e sono esplicitamente chiamate ad incidere su ogni politica, dall’urbanistica ai trasporti all’agricoltura, che possa comportare la conservazione e la trasformazione del paesaggio. Ma, nonostante la concordanza dei fini e la larga sovrapposizione tra le aree naturali protette e i paesaggi a vario titolo tutelati, le rispettive politiche sono, in generale, sostanzialmente separate: le politiche dei parchi fanno capo ad istituzioni, a strumenti e forme di regolazione e a strategie generalmente diverse, salvo che nel caso di vera e propria sovrapposizione (come per le “aree protette” ricadenti dei “paesaggi protetti” così classificati dall’IUCN, che coprono peraltro più di metà del territorio protetto). Nel caso dell’Italia, la difficoltà del raccordo tra i due ordini di politiche è ben rappresentata dalla contraddizione tra l’art.12 L.394, che affida ai Piani dei Parchi un ruolo “sostitutivo” nei confronti di ogni altro piano, e l’art…. del Codice … che attribuisce invece ai Piani Paesaggistici una sorta di primato nei confronti anche dei Piani dei Parchi.

 

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, sembra dunque profilarsi una doppia necessità di integrazione, delle politiche della natura e del paesaggio con le politiche del territorio. Un ambizioso programma di ricerca in tal senso, avente come campo d’attenzione l’intera Europa, fu presentato a Barcellona nell’ambito del Congresso IUCN (Gambino…). L’alleanza tra parchi e paesaggi non può che trovare un terreno comune di applicazione nel contesto territoriale e in una prospettiva autenticamente progettuale. Il “progetto di territorio” (Magnaghi 1998) è stato da tempo indicato come il luogo dell’integrazione degli interessi pubblici diversi, della valutazione e composizione dei valori e dell’orientamento strategico delle politiche di regolazione dei processi trasformativi. E già 50 anni fa documenti come la Carta di Gubbio (ANCSA1960) attribuivano al Piano Regolatore il compito di delineare le “azioni d’insieme” necessarie per il risanamento dei centri storici. Molti altri problemi attinenti l’insediamento umano hanno concorso in seguito a complessificare ed aggravare la questione urbana, sollecitando politiche pluritematiche convergenti, in grado di contrastare la settorialità dell’azione pubblica e la sua schiacciante dipendenza dalle logiche dell’emergenza E’ difficile pensare che esse possano fare a meno del “progetto di territorio” latamente inteso, come processo sociale ampio e condiviso, capace di rispecchiare, per dirla col Sereni, i “disegni territoriali” delle popolazioni locali. Processo che non può evitare di muoversi in un orizzonte cooperativo, in cui l’azione fondamentale dei soggetti e dei poteri locali trovi i necessari riscontri a livello regionale, nazionale e sovra-nazionale.

 

 

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Il testo riprende in parte la relazione dell’autore al Convegno internazionale dell’ANCSA su “Attualità del territorio storico” a Bergamo nel 2011.

 

Riferimenti

 

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Estratto da AAVV WWF 2010 su “Le prospettive territoriali delle aree protette” (cap.10)

Roberto Gambino

 

 

3. Parchi e continuità ambientale: da Caracas a Barcellona

 

3.1. Una piattaforma stabile

Pochi mesi fa a Barcellona, aprendo il IV Congresso Mondiale per la Conservazione della Natura, davanti a 7500 delegati di 177 paesi, Julia Marton-Lefevre (Direttrice dell’Unione Mondiale della Natura: IUCN 2008) ha richiamato la drammatica attualità dell’impegno assunto 60 anni prima a Fontainebleau dai fondatori dell’Unione. Cambiamenti globali, crisi energetica, conflitti armati per l’uso delle risorse di base, persino la crescita degli investimenti in campo ambientale e dell’eco-business, sembrano indicare altrettanti punti di svolta e sollecitare ripensamenti delle tradizionali posizioni ambientaliste.

Qualche anno fa, a conclusione del V Congresso Mondiale dei Parchi a Durban (IUCN 2003) l’allora Direttore dell’Unione, Achim Steiner, indicava l’urgenza di uno shift in focus, uno spostamento d’attenzione, nelle politiche dei parchi, delle aree protette e della conservazione della natura. Anche allora, l’impegno ad incidere sul futuro sembrava porre in discussione l’efficacia e l’affidabilità dei paradigmi tradizionali.

Continuità e cambiamento si inseguono nella storia dell’IUCN. Se si leggono con attenzione I documenti relativialleprimeAssembleegeneralidell’Unione,neglianniè50,in un mondo uscito stremato dalla guerra e scosso da potenti spinte di riorganizzazione globale politica ed economica, non È difficile cogliere anticipazioni tematiche che dovevano trovare nei decenni successivi più maturi sviluppi, sia nei documenti dell’IUCN, sia in quelli di altri organismi internazionali (UNCED,1992).Ed È interessante notare che fin dalle prime affermazioni di principio l’attenzione per la conservazione della natura ñ che ovviamente costituisce l’asse portante del pensiero dell’Unione, ancora recentemente ribadito a Barcellona nei dibattiti sulla ridefinizione del concetto di area protetta ñ non si stacca dalle preoccupazioni per i problemi di sviluppo e di qualità della vita. L’idea che la protezione della natura costituisca non soltanto un limite allo sviluppo (come nelle elaborazioni degli anni 60 del Club di Roma: Meadows et al., 1972) ma la base di ogni autentico sviluppo, sembra affiorare ñ non senza ambiguità e contraddizioni ñ nelle riflessioni dell’IUCN fin dai primordi.

Il rapporto tra ecologia e sviluppo (anche in armonia con gli slogan dell’UNEP circa l’Economic Ecology e più in generale con la svolta ecologica degli anni sessanta ) prende rilievo già a Caracas, 1952, o a Edimburgo, 1956, ben prima del Rapporto Bruntland del 1987, grazie alla visione globale che caratterizza l’evoluzione del pensiero IUCN. In questa visione campeggiano problemi come quelli delle carestie, della scarsità d’acqua, dell’indigenza estrema e delle nuove forme di sfruttamento, prevaricazione e schiavitù, che in nessun modo potrebbero essere ignorati dalle politiche di conservazione della natura. Anzi sono proprio questi problemi a spostare il fuoco dell’attenzione da una visione euro-centrica quale quella che ha plasmato a lungo le concezioni dominanti dei parchi e delle aree protette - ad una visione eco-centrica, quale quella che si È progressivamente consolidata attraverso le General Assemblies (da Fontainebleau,1948,a Buenos Aires,1994) e poi i World Conservation Congress (daMontreal,1996,aBarcelona,2008).Il concetto di Ecospace, su cui si concentra nel 2000 il Congresso di Amman, riflette la convinzione che gli obiettivi della

conservazione non possono essere raggiunti all’interno dei con fini nazionali. Si afferma una sorta di grande utopia, che porta a sperare ñ nonostante tutto - in un peaceable kingdom, a place of harmony and compromise between ourselves and our natural environmentî (Kakabadse, 2000), scavalcando ogni barriera.

Non È questa la sede per una riflessione critica sulle politiche internazionali che contrastano questa utopia, disegnando traiettorie di sviluppo che vanno spesso in direzione del tutto opposta.

Ma sembra lecito riconoscere nella storia dell’IUCN un filo conduttore che collega le sue proposte e i suoi dibattiti alla maturazione globale della questione ambientale e dei suoi rapporti con le grandi questioni irrisolte della società contemporanea. Seguendo questo filo conduttore, i documenti prodotti dall’IUCN in 60 anni di attività e la sequenza delle assemblee e dei congressi mondiali promossi dall’Unione possono essere riguardati come momenti diversi di un discorso ininterrotto sul grande tema dei rapporti tra l’uomo e la natura, che ha consentito l’edificazione di una stabile piattaforma di idee. Questo discorso ricco di spunti che possono variamente ispirare un ampio spettro di politiche pubbliche largamente interconnesse, da quelle riguardanti l’uso delle risorse o la produzione energetica a quelle per gli sviluppi insediativi a quelle per l’educazione, l’informazione e la cultura. Se si concentra l’attenzione sulle politiche più direttamente concernenti i rapporti tra pianificazione e biodiversità, È possibile riconoscere alcune linee evolutive di particolare interesse come le seguenti.

 

3.2. Dalle isole alle reti

Una prima linea evolutiva riguarda i parchi e le aree protette, tema centrale nell’attività dell’IUCN che gli ha dedicato, in parallelo alle Assemblee e ai Congressi Mondiali sopra richiamati, una apposita serie di appuntamenti mondiali, da quello di Seattle del 1962 a quello di Durban del 2003. I 5 congressi mondiali sui parchi, distribuiti nell’arco di 40 anni, hanno scandito un processo di profondo cambiamento nei paradigmi della concezione, gestione e pianificazione, secondo l’analisi di Adrian Phillips, a lungo presidente della apposita Commissione WCPA (Phillips, 2002?). Un cambiamento che nell’arco di più di un secolo ha accentuato il distacco dal modello nordamericano, sia per quanto concerne la realtà dei parchi (sempre meno riferibili all’archetipo del santuario della natura al riparo da ogni influenza antropica) sia per quanto concerne le forme di tutela e di gestione e il ruolo in proposito delle comunità locali (sempre meno riducibile ad un sistema di comandi top-down). Cambiano, dal primo Congresso ai successivi, le raccomandazioni finali di ciascun Congresso, anche se quelle indicate dal primo, quello di Seattle (concernenti la conservazione degli ecosistemi, la definizione degli standard, i rischi e le minacce da fronteggiare, l’assistenza tecnica, i servizi interpretativi, le misure specifiche per la biodiversità, l’apporto della ricerca scientifica) non mancano di essere richiamate in quelli successivi. Già a Bali, 1982, si mette l’accento sul contributo delle aree protette e più in generale delle Risorse viventi allo sviluppo sostenibile, tema centrale della World Conservation Strategy che proprio nel 1980 viene lanciata dall’IUCN con UNEP e WWF. Il tema È poi ripreso a Caracas, 1992,a poca distanza dal grande meeting di Rio de Janeiro (UNCED,1992),approfondendo i rapporti delle politiche delle aree protette con i problemi del global change, della perdita di biodiversità, delle comunità locali e delle popolazioni indigene, dell’uso sostenibile delle risorse primarie, del cambiamento del ruolo dei gestori (da ì manager a ì regolatori).

Ma È forse soltanto a Durban, 2003, che il cambiamento di paradigma si profila in tutta la sua portata. Esso puÒ essere riassunto (Phillips, 2003) mettendo a confronto le concezioni con cui le aree protette erano viste e quelle con cui dovrebbero ora essere viste:

-pianificate e gestite contro le popolazioni locali - ora attivate con, per e talora da loro;

-governate centralmente - ora da molti partner;

-messe da parte per essere conservate- ora governate anche per scopi economici e sociali;

-pagate dal contribuente- ora pagate anche da altre fonti;

-gestite dagli scienziati e dagli esperti naturalisti- ora da esperti di varia competenza;

-gestite senza cura per le comunità locali- ora per venire incontro ai loro bisogni;

-sviluppate separatamente- ora pianificate nel quadro nazionale, regionale e internazionale;

-gestite come isole- ora come reti (aree di stretta protezione, buffer e connessioni verdi);

-istituite soprattutto per tutela scenica- ora spesso per scopi scientifici, economici e culturali;

-gestite principalmente per visitatori e turisti- ora con più riguardo per le popolazioni locali;

-gestite reattivamente per il breve termine- ora adattivamente e in prospettive di lungo termine;

-pensate per la protezione- ora anche per il restauro e la riabilitazione;

-viste principalmente come una risorsa nazionale- ora anche delle comunità locali;

-viste soltanto come un problema nazionale- ora anche internazionale;

-gestite in modo tecnocratico- ora sulla base di esplicite considerazioni politiche.

 

Il Congresso di Durban, fin dal titolo (Benefits beyond Boundaries), pone vigorosamente l’accento sulla necessità di superare l’insularizzazione delle aree protette, in senso ampio.

Soprattutto nel senso di estendere al di là dei loro confini le politiche di tutela (nessun parco è grande abbastanza da poter racchiudere nel suo perimetro efficaci politiche di conservazione della biodiversità) e nel senso di coinvolgere le popolazioni locali nelle azioni di valorizzazione, indipendentemente dai confini amministrativi. A sostegno di queste affermazioni convergono ragioni diverse, come i cambiamenti ambientali dei territori interessati ñ in particolare il progressivo aggravamento dei processi di frammentazione ecologica determinati dalla crescente espansione e dispersione degli insediamenti urbani e delle maglie infrastrutturali-oi cambiamenti sociali, economici e culturali ñ in particolare la crescente consapevolezza dei bisogni e dei diritti inviolabili delle comunità locali nella gestione delle risorse primarie. Questi cambiamenti sono resi più evidenti dalla stessa crescita, in numero ed estensione, delle aree protette, crescita che accentua le tensioni tra esigenze di conservazione della natura e spinte di sviluppo. Ciò è particolarmente evidente in Europa (dove la superficie protetta si È più che decuplicata nell’arco di un trentennio, ed ancora nell’ultimo decennio È cresciuta del 23%,impegnando ormai il 18% del territorio complessivo: Gambino et al. 2008); ma, in misure e forme diverse, riguarda tutto il pianeta. Il superamento della insularizzazione non comporta però soltanto un allargamento spaziale delle misure di protezione, come nel tradizionale concetto delle buffer zone o delle aree contigue, poste a riparo delle aree protette. Altre due strade vengono in evidenza.

La prima consiste nella pianificazione ecosistemica dei territori coinvolti, che prende in considerazione le unità ecosistemiche o le bioregioni interessate, indipendentemente dai perimetri delle aree protette (spesso delimitate in base a decisioni politico-amministrative scarsamente sorrette da motivazioni scientifiche).Al servizio di approcci ecosistemici, volti a contestualizzare adeguatamente le aree protette, viene chiamata anche la pianificazione paesistica, più spesso intesa come pianificazione a scala di paesaggio ,estesa ampiamente fuori dei perimetri delle aree protette, sulle aree terrestri o marine che le circondano. Si situa in questa logica l’attenzione (IUCN,2000) per le big pictures, per i grandi sistemi d’interesse regionale o interregionale, per lo scaling-up di molte tematiche ambientali.

Ma una seconda strada, concettualmente distinta, riguarda le reti di connessione, ossia i sistemi di relazioni ecologiche in cui le aree protette dovrebbero integrarsi, collegandosi (mediante opportuni corridoi o stepping stones) con altre risorse naturali con cui possono interagire indipendentemente dalla loro omogeneità e contiguità. Nella ricerca di politiche più efficaci per le aree protette irrompe quindi una logica reticolare che sostituisce od integra la logica areale finora dominante. Nonostante le critiche che da tempo hanno investito i fondamenti scientifici delle reti ecologiche (in primo luogo la possibilità di concepirle in funzione di protezione specie-specifica dei flussi di migrazione e dispersione realmente interessanti), sembra innegabile che la logica delle reti abbia intaccato profondamente il paradigma classico delle aree protette. Ciò è particolarmente visibile in Europa (basti pensare alle prime proposte per Eeconet, inizio anni 90, e alla Rete Natura 2000 e ad iniziative come il Progetto APE per la catena appenninica) ma trova riscontro anche in alcune grandi linee di connessione internazionali, come il corridoio delle Ande o dell’Amazon.

Anzi, si può osservare che soprattutto nell’ultimo decennio la logica reticolare esce dal campo strettamente biologico per assumere significati diversi, come quelli della fruizione paesistica o quelli dei legami storici e culturali (Gambino 2007?).

 

3.3. Dalla natura al paesaggio

Quest’ultima osservazione spinge a considerare una seconda linea evolutiva della filosofia IUCN, che riguarda i rapporti tra natura e cultura nelle concezioni e nelle politiche di conservazione. Rapporti non esenti da una certa ambiguità, fin dai documenti fondativi e soprattutto dalla World Conservation Strategy del 1980,la cui sfida centrale riguarda il contributo che la protezione dei sistemi viventi assume per lo sviluppo sostenibile. La sfida si precisa nel documento strategico del 1991 (Caring for the Earth, sempre di IUCN,UNEP,WWF),che prende le mosse dai principi per l’edificazione di una “società sostenibile”, per la cura e il rispetto delle comunità viventi, per il miglioramento progressivo della qualità della vita. Documenti e prese di posizione che tendono a dilatare le responsabilità della società contemporanea nei confronti del patrimonio naturale e culturale che ha ereditato e che deve trasmettere alle future generazioni, mettendo inevitabilmente in discussione la contrapposizione tra natura e cultura (tra l’ordine naturale e l’ordine razionale) che segna l’inizio dell’età moderna. Discussione che tuttavia non scalfisce l’attenzione prioritaria dell’IUCN per la natura e più precisamente per la biodiversità che la struttura.

In realtà, la storia dei parchi, da Yosemite e Yellowstone in avanti, riflette essa stessa una certa ambiguità, che ha variamente impregnato il dibattito e le riflessioni dei Congressi Mondiali IUCN. Essa nasce e si sviluppa, nella tradizione nordamericana, dall’intento dichiarato di celebrare la natura, dote fondativa del nuovo mondo; ma dà spazio crescente ai significati culturali

delle aree protette, nelle più diverse forme, dai paesaggi culturali, ai luoghi della memoria, ai monumenti naturali di precipuo valore simbolico e identitario. D’altronde la duplice missione assegnata ai parchi nel pensiero dei padri fondatori (conservation and public enjoyment, per F.L.Olmsted: Fein 1972) e la stessa filosofia di gestione sviluppata fin dai primi anni del 900 dal National Park Service americano (con l’importanza assegnata alle attività interpretative e all’organizzazione della fruizione), mescolano inevitabilmente natura e cultura nelle finalità dei parchi (Gambino, 2002).

Questa mescolanza assume contorni più precisi con riferimento ad alcune delle categorie di aree protette definite dall’IUCN (1994), segnatamente quella dei Paesaggi Protetti (Protected Landscapes/seascapes),il cui interesse deriva proprio da forme peculiari di interazione dell’azione antropica con le dinamiche naturali. Categoria che copre in Europa il 52% della superficie protetta (Gambino et al.2008),ma tende a diffondersi anche in altri continenti. Ma il riferimento al paesaggio come luogo d’incrocio di natura e cultura, che ha assunto una rilevanza centrale nel dibattito sulla classificazione delle aree protette ancora nel recente Congresso mondiale di Barcellona (IUCN, 2008), costringe a confrontarsi con altre concettualizzazioni, in particolare quelle maturate in seno all’UNESCO e al Consiglio d’Europa. Quanto all’UNESCO, non si può non constatare l’importanza assunta dalla categoria dei paesaggi culturali introdotta nel 1992 tra quelle dei siti eligibili nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità: l’inserimento nella Lista si basa sulla presenza di eccezionali valori universali e comporta uno screening estremamente selettivo (i siti attualmente inseriti nella Lista nel 2007 sono 878 in tutto il mondo, di cui il 20% naturali e il 77% culturali).

Ma se la logica con cui l’UNESCO seleziona i paesaggi di pregio non È molto distante da quella con cui l’IUCN classifica i “paesaggi protetti”, molto diversa È invece quella con cui i valori paesistici sono trattati dalla Convenzione Europea del Paesaggio, proposta nel 2000 dal Consiglio d’Europa e firmata da 45 paesi (CE,2000).Due aspetti soprattutto fanno la differenza: l’affermazione che tutto il territorio, e non solo singole aree, ha valenza paesistica; e quella secondo cui il paesaggio non È solo una componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, ma anche l’espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità. Se la prima affermazione è palesemente in sintonia con la linea evolutiva del pensiero IUCN sopra richiamata (dalle isole alle reti), la seconda trova anch’essa riscontro nei dibattiti recenti in seno all’IUCN, che spostano l’attenzione sul significato culturale del paesaggio (di ogni paesaggio),molto al di là di quel significato strettamente ecologico su cui la Landscape Ecology e i nuovi determinismi ad essa associati negli anni è50 e è60 avevano posto l’accento.

Capitolo X

 

3.4. Dai vincoli alla governance

Il richiamo alla Convenzione Europea del Paesaggio incrocia una terza linea evolutiva, che riguarda i sistemi di governo e di gestione posti in campo ai fini della conservazione della natura. Come nella Convenzione, così nei documenti enei dibattiti IUCN,il richiamo al paesaggio È infatti strettamente associato al ripensamento del ruolo delle popolazioni locali nei processi decisionali concernenti l’uso delle risorse e la gestione del territorio. E’ dalle loro percezioni, dalle loro attese e dalle loro scelte che si precisa il significato culturale del paesaggio. Ma il richiamo al paesaggio sembra assumere maggior concretezza in rapporto alle finalità IUCN, in quanto la stessa conservazione della natura dipende largamente dal supporto di quelle comunità che nel paesaggio vivono, usano le risorse e accumulano significative esperienze prendendo ogni giorno le scelte che lo riguardano (Borrini-Feyerabend, Philips 2008). Questa attenzione per i soggetti sociali, di cui le politiche di conservazione dovrebbero prendersi cura, non nasce dal nulla. Essa presuppone che le finalità generali della conservazione si misurino con le questioni globali economiche e sociali da cui la vita stessa delle comunità locali inesorabilmente dipende.

Questa esigenza È stata affermata come si È ricordato nel cap.1-fin dai primi atti dell’IUCN ed ha trovato piena espressione nel Congresso di Bangkok, 2004, e nel suo stesso titolo (People and Nature: only one World) che esplicitamente dichiara l’impossibilità di separare i bisogni e i problemi delle comunità umane da quelli del libero dispiegarsi delle dinamiche naturali. Più recentemente,nel Programma 209-2012 (Shaping a sustainable future),si ribadisce l’esigenza di “gestire gli ecosistemi per il benessere umano”. Ma già nei decenni precedenti, segnatamente nel Congresso di Montreal, 1996, queste affermazioni si collocano in una prospettiva cooperativa, che tende a ribaltare il tradizionale approccio top-down in favore di un approccio bottom-up, che sale dal basso. In questa prospettiva la cooperazione nella gestione delle risorse si configura come “la faccia emergente della conservazione”. Si fa strada l’idea che “la condivisione dei diritti e della responsabilità di gestione con una pluralità di portatori di interesse ñ in particolare le comunità locali - sia il modo più sicuro per conservare nel lungo termine le risorse naturali (IUCN, 1996).

Farsi carico delle comunità locali, in questa prospettiva, non risponde soltanto ad un cambiamento nella Gestione delle aree protette(i nuovi paradigmiîdelcap.2);risponde anche e in primo luogo all’esigenza di attuare, dentro e fuori delle aree protette, politiche di conservazione attiva più efficaci di quelle tradizionalmente basate sui vincoli e le limitazioni, e su apparati di comando e di controllo che si sono rivelati crescentemente inadeguati, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Di qui il crescente interesse, ribadito a Barcellona nel 2008, per i temi della governance; ossia per la ricerca di forme di gestione che favoriscano la coerenza, la convergenza e la sinergia tra le azioni che competono ai diversi soggetti operanti sul territorio, sia in senso verticale (dai poteri locali ai poteri globali), sia in senso orizzontale, tra le diverse politiche settoriali e tra i diversi saperi (compresi quelli incorporati nelle culture locali) che in vario modo incidono sui processi di trasformazione ambientale.

In questa ricerca si scontrano valori diversi, da quelli su cui si fondano le identità locali a quelli che rispondono ai principi universali dell’umanità. Gli atti dell’IUCN (in particolare i World Conservation Congress) hanno, nel corso di 60 anni, offerto un’arena in cui confrontare i diversi sistemi di valori, mettendone a nudo le ragioni e le implicazioni, al di là dei generici appelli al pubblico interesse, spesso intrinsecamente contraddittori, che hanno frequentemente inquinato il dibattito sulla questione ambientale. Ma i dibattiti e le riflessioni più recenti sembrano anche aprire uno spazio importante per il riconoscimento dei diritti che, ai diversi livelli e nei diversi campi d’interesse, dovrebbero trovare presidio e salvaguardia nelle strategie di conservazione della natura per la società contemporanea.

 

 

 

Bibliografia

-Borrini-Feyerabend G., Phillips A. 2008: : The landscape dynamic mosaic: embracing diversity, equity and change,Workshop, World Conservation Congress, Barcelona.

-CE (Consiglio d’Europa), 2000: Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze.

-Fein A.(ed.), 1972: F.L. Olmsted and the American Environmental Tradition, Braziller, New York.

-Gambino R., 2002:ìParks Policies: a European Perspectiveî, Environments: a journal of interdisciplinary studies,Vol. 30, n.2,Toronto, Ontario.

-Gambino R., 2007:ìParchi, paesaggio, territorioî, in Parchi n.50, Federparchi, La grafica Nuova ,Torino.

-Gambino R., Talamo D., Thomasset F. (a cura di): Parchi d’Europa: verso una politica europea per le aree protette, ed. ETS, Pisa.

-Kakabadse Y., 2000:ìThe spirit of Ammanî, World Conservation Congress, IUCN, Amman.

-IUCN (Unione Mondiale della Natura):

General Assembly:

1a, 1948, Fontainebleau,

2a, 1950, Brussels,

3a, 1952, Caracas,

4a, 1954, Copenhagen,

5a, 1956, Edinburgh,

6a, 1958, Atene,

7a, 1960,Vasavia,

8a, 1963, Nairobi,

9a, 1966, Lucerna,

10a, 1969, New Delhi,

11a, 1972, Banff,Alberta,

12a, 1975, N’sele kinshasa,

13a, 1977, Geneve,

14a, 1978, Ashkhabad,

15a, 1981, Christchurch,

16a, 1984, Madrid,

17a, 1988, San JosÈ,

18a, 1990, Perth,

19a, 1994, Buenos Aires.

 

World Conservation Congress:

1∞, 1996, Montreal,

2∞, 2000, Amman,

3∞, 2004, Bangkok,

4∞, 2008, Barcelona.

 

World Park Congress:

1∞, 1962, Seattle,

2∞, 1972,Yellowstone,

3∞, 1982, Bali,

4∞, 1992, Caracas,

5∞, 2003, Durban.

 

-IUCN, UNEP,WWF, 1980: World Conservation Strategy, IUCN, Gland.

-IUCN, ENEP,WWF, 1991: Caring for the Earth, Sadag, Bellegarde-Valserine.

-Meadows D.H. et al., 1972: I limiti dello sviluppo, Club di Roma, Mondadori, Milano.

-Phillips A., 2003: Turning Ideas in their Head.The New Paradigm for Protected Areas, IUCN, Durban.

-UNCED (Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo), 1992: Convention on Biological Diversity, Rio de Janeiro.

 

 

 

 

La dimensione contemporanea del territorio storico

Roberto Gambino

POLITECNICO DI TORINO, DIPARTIMENTO INTERATENEO TERRITORIO

 

 

 

1. L’ATTUALITA’ DEL TERRITORIO STORICO

Varie ragioni concorrono oggi a restituire piena attualità alla questione dei centri storici, e più latamente del territorio storico. In primo luogo, la società contemporanea sembra incline o in qualche misura costretta a riportare l’attenzione sul territorio storico perché lo sente minacciato: le trasformazioni in corso mettono palesemente a repentaglio quell’insieme complesso di eredità naturali e culturali, di risorse infrastrutturali, di memorie, depositi immateriali e valori identitari, nonché di valori economici e sociali che forma il capitale territoriale. La difesa di questo capitale collettivo incorporato nel territorio figura sempre più spesso nelle rivendicazioni e nei programmi di ‘resistenza’ delle comunità locali, pur ambiguamente mescolata ad intenzioni di segno opposto. L’erosione di questo capitale, resa evidente dalla scomparsa dei paesaggi tradizionali e di gran parte dei segni superstiti del passato, è avvertita come un sorta di espropriazione collettiva. In secondo luogo, l’attenzione sul territorio storico si nutre di speranze o illusioni sulla possibilità di radicarvi forme anche innovative di sviluppo endogeno e auto-gestito e di recuperare e rafforzare il proprio patrimonio di valori; speranze o illusioni oggettivamente alimentate dal ruolo crescente che le ‘specificità’ territoriali, consolidatesi nei secoli o nei millenni, vanno acquistando nelle dinamiche competitive che si dispiegano alla scala globale. La valorizzazione delle specificità naturali-culturali, non a caso, si ritrova spesso nelle linee strategiche dei programmi di marketing territoriale e dei piani di sviluppo sostenibile, non senza più o meno ambigue alleanze con la rivalorizzazione dei ‘saperi e dei sapori locali’, dei prodotti tipici e del turismo enogastronomico. Se a scala locale la città, con le sue articolate centralità storiche, può essere di nuovo pensata come ‘motore’ dello sviluppo territoriale, a scala globale il patrimonio storico è celebrato come risorsa strategica del ‘sogno europeo’ da contrapporre a quello americano, per la costruzione di quella identità europea di cui l’Europa che si ‘allarga’ è tuttora in cerca. In terzo luogo, l’attenzione per il territorio geograficamente e storicamente determinato, è mossa dall’esigenza di conferire maggior efficacia alle politiche ambientali: la «territorializzazione» delle politiche ambientali – vale a dire l’impegno a calarle il più possibile nelle realtà locali, misurandole coi problemi, le peculiarità, i bisogni e le attese delle comunità locali – è stata riconosciuta con enfasi crescente da Rio (1992), a Bangkok (2004), come un passaggio obbligato per migliorarne l’efficacia.

Ma l’attualità del territorio storico non consiste soltanto nell’importanza che la sua difesa e la sua valorizzazione stanno assumendo nelle dinamiche economiche, sociali e culturali contemporanee. Essa consiste anche e soprattutto nel significato culturale attuale che esso presenta per la società contemporanea. Un significato che, lungi dal potersi ricondurre sempre e soltanto ai valori del passato, trova alimento in processi di significazione aperti e mai conclusi, che continuamente rimettono in discussione i rapporti di percezione e conoscenza, identificazione e appropriazione, uso e fruizione tra le formazioni sociali e i loro territori di riferimento. L’attualità che questi processi continuamente ricreano non nasce quindi da una semplice coincidenza temporale tra dinamiche sociali e dati sistemi di valore, in qualche modo riconosciuti e fissati nella coscienza collettiva, ma nasce ed evolve in funzione della rivisitazione continua delle relazioni che legano soggetti e oggetti, società e territorio. È un’attualità che ricorda da vicino l’«attualità del bello» teorizzata dal Gadamer (1986), fondata sulla perenne e inestinguibile contemporaneità tra l’osservatore e l’opera osservata. È nell’attualità del presente che continuamente si riproduce la contemporaneità del rapporto tra il territorio e i suoi fruitori. Questa contemporaneità implica la relatività storica dei giudizi di valore, attorno ai quali si costruiscono i sistemi di percezione, le immagini e le attese delle comunità insediate. Relatività ribadita dalle evidenze empiriche: basti pensare alla trasformazione dell’orrido in ‘sublime’ nella «invenzione delle Alpi» tra Seicento e Settecento, o all’apprezzamento naturalistico di paludi e zone umide, fino alla prima metà del secolo scorso pensate come terre da bonificare, o alla scoperta dell’archeologia industriale, o all’enfasi sui «paesaggi culturali», solo dal 1992 ammessi dall’Unesco a far parte del patrimonio mondiale dell’umanità. Ma la contemporaneità dei rapporti tra il territorio e i suoi fruitori stimola anche a ripensare le ragioni e il senso della conservazione (del patrimonio naturale-culturale) e la sua tradizionale contrapposizione all’innovazione: se la conservazione «è il luogo privilegiato dell’innovazione» per la società contemporanea, allora molte delle pratiche conservative e il concetto stesso di restauro vanno rimessi in discussione.

 

 

2. LA DILATAZIONE DEL CAMPO

Per tentar di capire i nuovi rapporti, è necessario riprendere il filo di un ragionamento che ha percorso i dibattiti e le riflessioni sulla questione dei centri storici, sfociando nella Nuova Carta di Gubbio del 1990. Proponendo a trent’anni di distanza un aggiornamento integrativo della Carta fondativa del 1960, l’Associazione nazionale centri storico-artistici (Ancsa) affermava allora che il centro storico, «l’area ove si sono concentrati, in ogni città europea, i valori della civitas e dell’urbs, costituisce al tempo stesso il nodo di una struttura insediativa più ampia. Tale struttura, interpretata nel suo secolare processo di formazione, deve essere oggi riguardata come «territorio storico», espressione complessiva dell’identità culturale e soggetto quindi in tutte le sue parti (città esistente e periferia, paesaggi edificati e territorio rurale) di una organica strategia di intervento». Questa affermazione segnava sinteticamente l’approdo di elaborazioni scientifiche, politiche e culturali che avevano costretto ad allargare progressivamente lo sguardo dai singoli monumenti e dai beni culturali al patrimonio insediativo della città esistente, ai paesaggi estesi, ai «sistemi culturali territoriali» ed al territorio intero, infine, nella pienezza dei suoi valori storici e naturali e delle sue articolazioni spaziali; e che conseguentemente avevano dilatato il senso e il campo dell’opzione conservativa, «fondamento di ogni azione innovativa», sempre meno riducibile alla mera preservazione difensiva dei valori in atto, sempre più fondata sul progetto, per essere luogo privilegiato di produzione dei nuovi valori della società contemporanea. Cambiavano le ragioni stesse della conservazione patrimoniale, indissociabili dalle percezioni, dalle attese e dai disegni territoriali delle popolazioni e dai nuovi diritti di cittadinanza (di identità, di natura e di bellezza). Si profilavano nuovi rapporti, più complessi e interattivi, tra conservazione e sviluppo, tra memorie e innovazione, tra riconoscimenti di valore ed opzioni progettuali. La conservazione, si è detto, presuppone sempre – in gradi e forme diverse a seconda della natura, della qualità e dello stato degli oggetti interessati – una certa tensione innovativa, anche soltanto in termini di nuove attribuzioni di senso; e simmetricamente ogni autentica innovazione propone alla società contemporanea un crescente impegno conservativo nei confronti dei siti e delle risorse che costituiscono i materiali stessi degli attuali processi di trasformazione. La produzione di nuovi valori non può separarsi dalla rielaborazione continua di quelli preesistenti (Gambino 1997). Si affermava, così, non una semplice dilatazione spaziale del campo d’attenzione, non un mero cambiamento di scala, ma una nuova filosofia di comportamento nei confronti dell’eredità storica e naturale e dei suoi rapporti con i territori della contemporaneità, destinata a ripercuotersi sulle concezioni della città, dei centri storici e del paesaggio, travolgendo molte consolidate separazioni e aprendo attese di riforma.

 

 

3. I CAMBIAMENTI DEL CONTESTO

L’allargamento del campo d’attenzione proposto dalla Carta del 1990 ha consentito di percepire tempestivamente (pur senza significative ricadute operative) alcuni aspetti chiave dei cambiamenti in corso: cambiamenti che tuttavia hanno subìto in questi anni drammatiche accelerazioni. Una particolare considerazione va rivolta al paesaggio, in quanto parte integrante (come recita l’art. 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, del 2004) del patrimonio culturale. A dispetto dell’attenzione che le amministrazioni pubbliche e la stessa opinione pubblica sembrano tributare alla questione del paesaggio non solo nel nostro paese, non si può evitare di constatare che il patrimonio paesistico ha subìto negli ultimi cinquant’anni un processo disarmante di devastazione e di degrado. Potenti fattori di cambiamento – come l’espansione delle città e la diffusione insediativa extraurbana, la proliferazione delle infrastrutture, l’industrializzazione agricola, la riconversione produttiva e lo sviluppo del turismo – hanno investito l’intero territorio, interagendo con esiti diversificati, a seconda dei caratteri generali dei quadri ambientali interessati e dei caratteri specifici determinati, nei diversi contesti, dagli sviluppi storici pregressi. Quei paesaggi che ancora alla metà del secolo scorso si presentavano relativamente omogenei, come i tipi di paesaggio individuati in Italia dal Sestini (1957) sono stati attraversati da dinamiche di trasformazione, che hanno tranciato, spesso irreversibilmente, i preesistenti equilibri, cancellato le dense trame delle antiche articolazioni produttive e i segni diffusi del lavoro della terra, disperso un patrimonio inestimabile di valori. Le spinte omologatrici che hanno investito la campagna hanno ipersemplificato e banalizzato i paesaggi agrari ereditati da secoli di storia e descritti dal Sereni (1961), in larga misura identificabili come irripetibili «paesaggi culturali», smantellandone i reticoli ecologici (fossi, canali, siepi ed alberate, etc.), presidio prezioso della diversità biologica e della stabilità ecosistemica. Lungo le coste, lo sviluppo distorto del turismo ha ormai colpito quasi ovunque il rapporto complesso, ecologico e paesistico, tra la terra e il mare, con effetti pervasivi assai più pesanti di quelli determinati dagli ‘ecomostri’ che richiamano saltuariamente l’attenzione mediatica. Nelle inconfinabili periferie urbane e metropolitane e nelle aree della diffusione insediativa l’erosione dello spazio rurale è generalmente lontana da ogni tentativo di dar forma e qualità ai nuovi contesti abitativi, crescentemente dominati dalle emergenze fisiche dei ‘non luoghi’ commerciali, produttivi o tecnologici. Non minor indifferenza per le specificità dei luoghi e per i valori dei «paesaggi originari» caratterizza lo sviluppo imponente degli apparati infrastrutturali (dalle autostrade alle nuove ferrovie, alle reti energetiche, etc.). E, d’altra parte, le nuove differenze prodotte dalle spinte innovative e dalla specializzazione delle traiettorie evolutive, se concorrono a formare nuovi «ambienti insediativi» in esito ad inediti incroci tra quadri ambientali, matrici territoriali e forme insediative (Clementi et al. 1996), ben raramente pervengono a disegnare nuovi credibili paesaggi, in grado di prendere il posto di quelli alterati o distrutti. Una generale, insondabile, perdita di memoria sembra caratterizzare la trasformazione territoriale dell’ultimo mezzo secolo e legare strettamente la questione del paesaggio a quella del patrimonio storico. E il gioco della memoria non riguarda soltanto il patrimonio storico ma anche quello naturale, mai indenne da forme più o meno stratificate di rielaborazione antropica (Schama 1995).

 

 

4. LA CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO

Nel nostro paese i processi di degrado e distruzione del patrimonio paesistico e culturale sono stati inadeguatamente contrastati, più spesso tollerati o assecondati – in nome di attese spesso illusorie di sviluppo – dagli apparati di governo, a livello nazionale, regionale e locale. Il sistema politico e la stessa opinione pubblica, nonostante il pungolo di gruppi e associazioni conservazioniste, solo negli ultimi anni hanno mostrato un principio di consapevolezza delle poste in gioco, della gravità dei rischi e delle opportunità connesse alla valorizzazione del paesaggio. Ma non è un problema soltanto italiano. In generale, i diversi paesi europei hanno affrontato la questione paesistica con sensibilità, approcci, strumenti istituzionali e azioni di governo assai diversi e non coordinati. Il ruolo del paesaggio come fattore d’identità europea e la crescente dipendenza dei loro problemi paesistici ed ambientali dalle dinamiche e dalle politiche europee hanno da tempo posto l’esigenza di una politica europea del paesaggio. È in questa direzione che si è mosso il Consiglio d’Europa, nel proporre la Convenzione europea del paesaggio, firmata a Firenze nel 2000 dai quarantacinque paesi membri e recentemente ratificata anche dal nostro paese. La Convenzione fornisce al riguardo alcuni orientamenti di fondo, che dovrebbero assicurare da un lato la convergenza delle politiche settoriali europee (soprattutto di quelle a maggior impatto paesistico-ambientale, come quelle agricole) e dall’altro l’armonizzazione delle politiche paesistiche nazionali e dei loro sistemi di guida e di controllo. Consacrando politicamente le concezioni che si sono prima richiamate, la Convenzione impegna le parti interessate in alcune innovazioni di grande rilievo. In particolare: a) l’affermazione netta ed esplicita che gli obiettivi di qualità paesistica da perseguire non riguardano pochi brani di paesaggi di indiscusso valore (quali le bellezze naturali o le emergenze sceniche o panoramiche) ma riguardano l’intero territorio, «gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani […] i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati» (art. 2); b) il pieno riconoscimento del significato complesso del paesaggio in quanto «parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni» (art. 1a) e «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità» (art. 5a); c) il sistematico riferimento ai «soggetti interessati» o «coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche» anche per quanto concerne la valutazione delle risorse paesaggistiche, che deve «tener conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate» (art. 5c, 6c) e le conseguenti procedure di consultazione e partecipazione.

 

 

5. IL RIPENSAMENTO “RETICOLARE” DEL TERRITORIO

Gli spunti innovativi della Convenzione congiuntamente riflettono una concezione dei rapporti tra paesaggio e territorio che non consente in alcun modo di isolare spazialmente i testi paesistici, separandoli dal loro contesto territoriale. L’idea (non di rado corrente nel linguaggio comune) che i paesaggi riguardino gli spazi aperti, i territori extraurbani o le «bellezze naturali» è del tutto estranea a questa concezione. La dimensione paesistica è presente all’interno dei centri storici e della città compatta (nelle varie forme del townscape) non meno che negli spazi rurali e nelle ‘campagne urbanizzate’ della dispersione insediativa, negli spazi ingannevoli della ville-nature agognata dagli abitanti in fuga dalle città, e nei grandi spazi naturali disabitati ma traguardati e in qualche modo frequentati dall’uomo. La «dissoluzione della città nelle reti territoriali», incrociata agli imponenti processi d’abbandono che hanno interessato e interessano non solo quote rilevanti dei territori di montagna e di collina, ma anche importanti aree produttive e impianti obsoleti dismessi ‘dentro’ alla città, ha cancellato ogni possibilità di dividere gli spazi aperti da quelli stabilmente occupati dall’uomo. Se già per Cattaneo a metà dell’Ottocento i «paesaggi edificati» non erano solo quelli occupati da case e industrie ma quelli modellati dall’insediamento umano e dalle sue esigenze produttive (tipicamente, allora, le campagne milanesi splendidamente riorganizzate dalle riforme teresiane), ben più intricati e complessi sono oggi i paesaggi della transizione, i patchwork che provvisoriamente disegnano le frontiere mobili della peri-urbanizzazione urbana e metropolitana. Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e attualizzare l’idea delle «cinture verdi», nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul territorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e paesaggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. Non a caso nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche – per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesistica del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate – ha assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (Ced-Ppn 2003). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni biologiche, di collegamento tra habitat e risorse naturali che rischiano l’insularizzazione, ma assumono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegando risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove infrastrutture ambientali capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno importante di quello tradizionalmente assegnato alle reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo ‘in uscita’ dalla città, vale a dire verso i territori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche ‘in entrata’, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a «riportare la natura in città» (greening the city), per i progetti di recupero e riqualificazione delle fasce fluviali e per i sistemi delle acque storicamente consolidati, per il riuso non meramente immobiliare dei «vuoti urbani» e delle grandi aree dismesse, segnala il maturare di una nuova consapevolezza dei grovigli di deficit che occorre rimuovere. È in questo quadro che va collocato il grande tema degli spazi di relazione nella città storica: delle piazze e delle vie, dei luoghi e delle loro connessioni, dei solchi fluviali che spesso la attraversano e del verde urbano che le consente di respirare. Non mera architettura di contesto, ma sistema connettivo diramato e complesso che lega esterno ed interno, eredità storiche e dinamiche ambientali. Non è forse un caso che l’attenzione per il contesto abbia ceduto terreno, nel dibattito disciplinare dell’ultimo decennio, all’attenzione per il paesaggio, nel significato ampio e comprensivo che si è ormai imposto a livello internazionale. Se infatti la nozione di contesto, nella versione co-evolutiva, aiuta a porre in relazione fatti apparentemente slegati, quella di paesaggio va oltre. In quanto fondamento delle identità locali, il paesaggio non si limita a porre in rete quei fatti e processi naturali e culturali che connotano i quadri ambientali, ma li ‘mette in scena’, li esibisce e spettacolarizza. Ed è proprio questa spettacolarizzazione – il paesaggio come ‘teatro’, in cui agiscono attori che diventano spettatori di se stessi (Turri 1998) – che spiega forse il successo mediatico che si registra attorno agli eventi che creano o ripropongono i paesaggi urbani o i grandi paesaggi territoriali.

 

 

6. LA TUTELA DEL PATRIMONIO ALLA LUCE DEL CODICE DEI BENI CULTURALI E DEL PAESAGGIO

L’ampia visione proposta dalla Convenzione di Firenze postula una filosofia di comportamento nei confronti del patrimonio culturale e del paesaggio che non ha ancora trovato adeguato riscontro nelle pratiche sociali e soprattutto nelle politiche pubbliche. Lo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 rispecchia solo in parte questa filosofia e lascia intravedere altri modelli di comportamento. Alla luce degli orientamenti osservabili a livello internazionale, ci si può chiedere quali problemi di politica del paesaggio e del patrimonio si profilino nel nostro paese, dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio. Un primo problema aperto riguarda la latitudine del campo di tutela. Se infatti il Codice allarga implicitamente la considerazione dei «beni paesaggistici» a tutto il territorio (o più precisamente a tutti i beni individuati dai piani paesaggistici, anche non compresi tra quelli «di notevole interesse pubblico» o tra quelli rientranti nelle categorie corrispondenti a quelle già tutelate ai sensi della legge 1497/1939 e della Legge Galasso, art. 134), questa dilatazione sembra lontana dalle pratiche correnti e dalle tradizioni di tutela, soprattutto nel nostro paese. Non è un caso che anche nel Codice si faccia esclusivo riferimento ai «beni culturali» e ai «beni paesaggistici» quali oggetti distinti di tutela e mai ai sistemi di relazioni che li legano strutturando il territorio. La cosa non stupisce: l’idea che l’opzione conservativa debba allargarsi all’intero territorio sembra, in realtà, fragile e perdente di fronte alle minacce e ai rischi incombenti, come tipicamente in Italia le aggressioni dilaganti dell’abusivismo (incoraggiato dai ricorrenti condoni) o la svendita dei beni pubblici (accelerata dai contestati provvedimenti legislativi degli ultimi anni). L’urgenza dell’azione di difesa sembra a molti operatori della conservazione (e anche a molti detrattori dello stesso Codice) indurre più di ieri a concentrare gli sforzi sulle cose di maggior valore – come i monumenti, le aree naturali di maggior pregio, o i paesaggi di pregio eccezionale – o a cercare di ‘salvare il salvabile’. Ma non si salva il paesaggio se non si salva il Paese. Staccare i monumenti o le «bellezze naturali» dal variegato mosaico di paesaggi umanizzati (pur frequentemente deturpati o sconvolti dalle trasformazioni recenti) che costituisce il volto vero del nostro come di altri paesi europei, significa ignorare le ragioni profonde che stanno alla base dell’attuale domanda di qualità, il ruolo dei valori identitari e il radicamento territoriale delle culture locali, il rapporto costitutivo che lega la gente ai luoghi.

Per evitare questa spaccatura, occorre passare da una logica ‘per oggetti’ ad una logica ‘per sistemi’, allargando l’attenzione all’intero territorio: è questa la strada obbligata per cogliere le differenze, diversificare l’azione di tutela, rispondere diversamente, nelle diverse situazioni, alla domanda di qualità. A differenza del «bene culturale», che ne costituisce una componente, il patrimonio naturale-culturale è necessariamente connesso al territorio ed ai suoi processi di sviluppo. Esso non è «nel» territorio ma «del» territorio. La sua valorizzazione non ha senso compiuto che come valorizzazione territoriale. L’uso dell’espressione «sistema culturale territoriale» in alcuni progetti europei (Euromed, Progetto Delta, 2002) tende a rendere esplicita questa connessione, proponendone un’articolazione operativa: un «sistema culturale territoriale» può essere definito come «il contesto relazionale evolutivo nel quale possono essere efficacemente perseguiti progetti di valorizzazione integrata del patrimonio culturale, mettendo in rete l’insieme delle risorse e degli attori locali e sviluppando le necessarie sinergie». È «il patrimonio, sotto le sue diverse forme (materiali o immateriali, morte o viventi) che fornisce allo sviluppo un terreno. Lo sviluppo non potrebbe infatti aver luogo staccato dal suolo.[…] Il patrimonio costituisce in questo senso una ‘risorsa locale’ che non trova la sua ragion d’essere che nell’integrazione con le dinamiche dello sviluppo» (de Varine 2002). Un secondo problema, strettamente connesso al precedente, concerne la divisione tra i «beni culturali», cui è dedicata la parte seconda e più cospicua del Codice, e i «beni paesaggistici», cui è dedicata la parte terza. È una divisione ben comprensibile alla luce delle tradizioni nazionali in materia di conservazione, ma difficile da sostenere sul piano strettamente scientifico e culturale (come si è già rilevato, le nuove concezioni del patrimonio tendono piuttosto ad abbattere le vecchie divisioni e a conferire al patrimonio paesistico un’accezione assai ampia e comprensiva) e difficile da praticare sul piano applicativo. Basti pensare ai centri storici, praticamente assenti dal Codice del 2004 se non ridotti alla figura di «monumenti complessi», chiaramente superata dal dibattito degli ultimi decenni: essi infatti non figurano nel pur minuzioso elenco dei tipi di beni culturali – l’art. 10 sembra anzi quasi negarne l’esistenza, nel momento in cui cita invece esplicitamente «le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico», come se in questi si esaurisse il ruolo complesso ed integrante dei centri storici – e sono esplicitamente esclusi dalle categorie di beni paesaggistici tutelati per legge (art. 142, c. 2, lett. a). Va però segnalato che le modifiche recenti del Codice (art. 136) hanno inserito i centri storici e le zone di interesse archeologico tra le aree di notevole interesse pubblico da tutelare. Naturalmente nulla esclude che i piani urbanistici o quelli paesaggistici dedichino particolari tutele a determinati centri storici, ma è curioso che il Codice, almeno nella sua prima versione, non colga la rilevanza generale degli insediamenti storici – e in sostanza della città, in tutte le sue articolazioni storiche anche recenti – come struttura di base del patrimonio culturale territoriale. Un terzo e cruciale problema concerne la separazione tra tutela e valorizzazione, peraltro già introdotta con la riforma del Tit.V della Costituzione (art. 117), che distingue «la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» di competenza esclusiva dello Stato, dalla «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Nonostante non manchino i richiami alla necessità di integrare tutela e valorizzazione con l’azione concorde di Stato e Regioni (e a prescindere dalle incertezze interpretative: vedi sentenza della Corte Costituzionale n. 407/2002), sembra evidente che proprio a questo riguardo il Codice manchi all’appuntamento più importante, quello dei nuovi rapporti tra conservazione e sviluppo sostenibile. Come si è già ripetutamente osservato, questi rapporti sono tanto più stretti e condizionanti quanto più la conservazione tende ad allargarsi a tutto il territorio, interessando le aree e i sistemi della marginalità e dell’abbandono, che coprono ormai una larga parte del territorio nazionale: qui non solo le misure di vincolo e protezione passiva, se sganciate dalle politiche di investimento e di sostegno economico e sociale, non possono concorrere alla rivalorizzazione territoriale, ma in molti casi non possono neppure essere concretamente applicate (quali vincoli, ad esempio, potrebbero mai fermare lo sfacelo dei versanti terrazzati o la ruderizzazione incalzante dei villaggi montani?). Ma la separazione tra tutela e valorizzazione rischia, ancor più in generale, di nascondere un problema di fondo del nostro paese, quello della prevenzione dei rischi. Un problema che torna alla luce dei riflettori mediatici solo in occasione di alluvioni o frane catastrofiche o di grandi sismi distruttivi, soprattutto se con vittime umane. Un problema che ha invece carattere strutturale, in un paese ad alto e diffuso rischio idrogeologico e in cui una parte rilevante del patrimonio edilizio ed urbanistico (comprese le scuole, gli ospedali, i servizi pubblici essenziali) è di vecchio impianto, fragile e vulnerabile, in condizioni ben lontane dalle soglie di sicurezza. Questo ci collega ad un quarto problema, quello appunto della valorizzazione economica del patrimonio culturale e paesistico. Fare i conti della valorizzazione, nel senso che si è appena indicato, cogliere le necessità e le opportunità economiche e sociali che essa comporta per i territori coinvolti, è infatti l’esatto contrario di quella ‘svendita’ che, secondo molti critici, il nuovo Codice rischia di propiziare o almeno agevolare, nella direzione già imboccata con precedenti provvedimenti come la legge 112/2002 (Ancsa 2003) e in piena sintonia con i famigerati provvedimenti sul condono. Una valorizzazione del patrimonio volta a ridurre le penalità e i rischi presenti nel territorio e ad accrescerne il valore aggiunto richiede infatti una valutazione attenta ed integrata dei costi e dei benefici, delle esternalità positive e negative che le azioni previste possono produrre, ben al di fuori delle aree e degli immobili direttamente interessati. È del tutto evidente, alla luce dell’esperienza quotidiana non solo nel nostro paese, che, a fronte di ritorni economici rapidi e significativi per le singole operazioni immobiliari, possono prodursi costi collettivi, più o meno monetizzabili, assai più rilevanti nel medio e lungo termine. È soprattutto il rischio di questa possibile divaricazione (più che un preconcetto avverso al coinvolgimento dei privati nei processi di valorizzazione), che induce a guardare con sospetto quelle norme, come quelle sul silenzio-assenso ai fini della sdemanializzazione, esplicitamente rivolte ad agevolare l’alienazione dei beni di proprietà pubblica, riducendo i sistemi di garanzie. Soprattutto se, come le prime esperienze applicative delle nuove normative hanno mostrato, l’obiettivo si riduce a quello di ‘far cassa’ e di tentare di sanare i conti pubblici gettando sul mercato i ‘gioielli di famiglia’, e rinunciando deliberatamente a quella considerazione integrata di costi e benefici che si è sopra richiamata. Contro il rischio di alienazioni o svendite che sprechino o addirittura distruggano le risorse patrimoniali, del tutto inadeguato appare l’argine previsto dal Codice nella forma della «verifica dell’interesse culturale» dei beni in discussione (art. 12) o della preventiva elencazione dei «beni inalienabili» (art. 54) che, ancora una volta, riporta l’attenzione dal sistema all’oggetto, dal territorio al settore, dalla valorizzazione attiva e integrata, alla difesa passiva ed episodica. Uno spostamento tanto più preoccupante in quanto avviene in carenza di una adeguata conoscenza della reale consistenza del patrimonio interessato, presumibilmente assai rilevante, ove si considerino non solo le proprietà edilizie, ma anche le aree del demanio civile e militare.

 

 

La relazione riprende in parte, con correzioni e integrazioni, quella presentata dall’autore, sotto il titolo Politiche europee del paesaggio al convegno organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, 1-2 ottobre 2004) sul tema Sulla città oggi; nonché quella presentata, sotto il titolo Patrimonio storico e paesaggio al convegno nazionale dell’ANCSA (Bergamo, 13 maggio 2006), sul tema Spazi aperti nei contesti storici.

 

 

 

 

 

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Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e at- tualizzare l’idea delle «cinture verdi», nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul ter- ritorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e pae- saggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. Non a caso nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesisti- ca del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate ha assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (CED-PPN 2003). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni bio- logiche, di collegamento tra habitat e risorse na-

turali che rischiano l’insularizzazione, ma assu- mono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegan- do risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove infrastrutture am- bientali capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno im- portante di quello tradizionalmente assegnato al- le reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo ‘in uscita’ dalla città, vale a dire verso i terri- tori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche ‘in entrata’, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a «riporta- re la natura in città» (greening the city), per i pro- getti di recupero e riqualificazione delle fasce flu- viali e

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Martedì, 23 Gennaio 2024 16:16

50 ANNI. ANCSA 1960-2010

50 ANNI. ANCSA 1960-2010

Gubbio 2010

Intervento di apertura

 

1990 - 2010

 

Una premessa

 

Riprendere il filo di un racconto interrotto al 1990, trentennale dell’ANCSA, per tratteggiare l’attività dell’associazione e i mutamenti che ne hanno ridefinito l’identità negli ultimi venti anni non è immediato. La vicenda dell’ANCSA riflette le condizioni di un contesto politico, economico e sociale, prima ancora che culturale, molto complesso, con le scelte di governo che ne sono derivate relativamente alle città e al territorio.

L’associazione non ha mutato la propria sigla, né il suo organigramma; studiosi ed esperti dell’architettura, della città e del territorio, rappresentanti dei comuni e delle regioni hanno continuato ad esserne parte.

Né è mutata la struttura data fin dall’inizio ai seminari, convegni, congressi, ove alle analisi e alle proposte avanzate dai membri dell’ANCSA nelle relazioni introduttive, che hanno rispecchiato i temi ritenuti cogenti, seguono gli interventi degli interlocutori scelti per dibatterli.

Ma al di là di queste invarianti, l’itinerario percorso dall’associazione non si presenta lineare e univoco anche se alcune parole d’ordine si ripetono nel tempo, con i relativi discorsi.

 

Non è stato, quello degli ultimi decenni, il tempo degli obiettivi condivisi, delle grandi battaglie almeno in parte vinte, del confronto serrato con le istituzioni, delle posizioni accolte dalla comunità scientifica, riconosciute dalle amministrazioni locali e dall’opinione pubblica. I temi della salvaguardia delle città e dell’architettura minore, le questioni emerse prepotentemente dalla società negli anni ’70 – il diritto al centro storico e alla città -, interpretate dalla cultura urbanistica, dell’architettura, della tutela, e sintetizzate nella locuzione centro storico come bene economico destinato a una fruizione sociale più ampia possibile, hanno mutato natura e carattere.

Gli obiettivi iniziali sanciti dalla “Carta di Gubbio” del 1960 e riflessi nell’acronimo ANCSA, già riveduti negli anni ’70 e ’80, hanno richiesto un continuo riesame e una nuova ricerca di significati di volta in volta congruenti con un quadro generale in mutamento1. Il minore coinvolgimento degli enti locali, la partecipazione limitata delle istituzioni, hanno significato anche uno scarso riscontro delle proposte dell’associazione sul piano dei provvedimenti legislativi e finanziari, e più in generale nelle politiche promosse a livello nazionale.

 

L’estensione del campo di interesse alla città esistente e al territorio storico si è scontrata con una politica delle risorse territoriali pressoché rovesciata rispetto ai fondamenti e alle finalità dell’associazione, che si è via via confrontata con processi insediativi inediti nelle quantità e nelle forme, con gli esiti dei processi di globalizzazione che hanno investito anche il suolo e l’economia del nostro paese.

Se il ruolo di promozione culturale e l’impegno civile dell’ANCSA non sono mutati, si è manifestata tuttavia la necessità di costruire nuove strategie interpretative e nuovi strumenti di lavoro.

In tal senso, la elaborazione di documenti di indirizzo - dichiarazioni, carte - ha avuto lo scopo di aggiornare e adeguare la “carta costituzionale” scaturita dal primo convegno di Gubbio, nel 1960.

La apertura sempre maggiore all’Europa e al dibattito internazionale ha conferito una dimensione più ampia e significativa alle tematiche e alle pratiche dell’intervento sull’esistente. Attraverso le edizioni successive del Premio Gubbio e l’istituzione al suo interno, nel 1993, della sezione Europea del premio, l’associazione ha inteso estendere il proprio osservatorio, che più di recente ha compreso alcuni paesi dell’America latina, per restituire una panoramica di esperienze, di ricerche, di casi di studio e di intervento di grande interesse.

Sulla base di questa ricerca, rappresentativa di linee strategiche e di intervento innovative, si è svolto negli ultimi venti anni il lavoro dell’ANCSA e sono maturate le scelte di carattere generale.

 

 

La riqualificazone urbana negli anni ‘90

 

Sul sito dell’ANCSA si legge: “In questo decennio il centro storico vede esaurirsi il suo paradigma classico, ossia luogo da preservare dall'"intrusione" dello sviluppo industriale, a favore di un nuovo paradigma che lo vede come luogo di stabilità e di connessione di fronte alla grande variabilità di ordine fisico e sociale. Nella grande mutazione che stiamo assistendo il centro storico viene letto come luogo di stabilità e di mediazione verso le tante culture che oggi investono la città, e, nello stesso tempo, come luogo capace di tessere nuove relazioni con la molteplicità di spazi e di soggetti che caratterizzano il territorio..

indubbiamente il fenomeno più immediatamente leggibile nelle nostre città è il cambiamento di ordine sociale dettato da una serie di fenomeni: i nuovi flussi migratori, la stazionarietà dei tassi demografici delle popolazioni 'storiche', la polarizzazione della ricchezza, la crescita della disoccupazione, la crisi dello stato sociale.

Un sistema di variabili che sta cambiando la natura delle nostre città: i flussi dei nomadi ormai sopravanzano la quantità di cittadini che vivono stabilmente in un luogo, emerge l'eterno problema della convivenza e della tolleranza, è sempre più difficile in queste condizioni applicare le regole mutuate dal connubio fra pianificazione orientativa e stato sociale.

Sono alcuni tratti del mutamento sociale e fisico che ha investito i territori dell’Europa occidentale.

 

Il decennio è iniziato per l’ANCSA come un’occasione di celebrazione e di bilanci. Scorrendo la sequenza dei convegni e dei seminari, si può notare come la locuzione “centri storici” fosse già assente dai titoli delle maggiori iniziative promosse negli anni ’80. A trent’anni dalla fondazione, l’associazione si misura con le nuove dimensioni assunte dalle tematiche dell’intervento sull’esistente.

La ricerca di un contesto operativo aggiornato ha comportato a sua volta la transizione dal concetto di recupero a quello, anch’esso assai fortunato, di riqualificazione. Primario oggetto delle ricerche e delle proposte dell’associazione è stata la città esistente, nel suo divenire complesso.

La difesa dell’area urbana di più antica sedimentazione dall’aggressione di un “nuovo” percepito come totalmente altro dal punto di vista tecnologico e formale appartiene a una stagione lontana. Il centro storico è ancora il luogo che conserva nella configurazione, nell’assetto topografico e nel costruito le fondamenta e le radici della cultura urbana, ma la struttura sociale e gli usi dei manufatti e degli spazi pubblici sono in gran parte mutati, e si mostrano diversificati da città a città.

Sono profondamente mutate anche le relazioni del centro storico con l’ambiente costruito. Le modificazioni intervenute all’interno e al contorno del nucleo centrale hanno reso indefiniti i confini con la città contemporanea, e hanno proposto in altre forme i termini dell’equazione centro storico/identità urbana.

Il convegno “Un contributo italiano alla riqualificazione della città esistente” (1990) sottopone al dibattito la proposta di una nuova “Carta di Gubbio”2, mentre la constatazione del fallimento dell’ipotesi dell’intervento pubblico nelle scelte della pianificazione urbana e territoriale conduce alla stagione delle strategie partecipate di governo del territorio.

Oltre il centro storico, le proposizioni destinate a indirizzare le politiche delle amministrazioni locali riguardano il “territorio storico”, il paesaggio ereditato dalle generazioni precedenti e modificato in tempi recenti, fino all’attualità. Il Centro Storico è dunque “l’area ove si sono concentrati, in ogni città europea, i valori della civitas e dell’urbs, costituisce al tempo stesso il nodo di una struttura insediativa più ampia. Tale struttura, interpretata nel suo secolare processo di formazione, deve essere oggi riguardata come “territorio storico”, espressione complessiva dell’identità culturale e soggetto quindi in tutte le sue parti (città esistente e periferia, paesaggi edificati e territorio rurale) di un’organica strategia di intervento”.

Come avrebbe scritto Roberto Gambino anni dopo, questa affermazione costituiva il punto d’arrivo di un processo che aveva gradatamente esteso il significato di patrimonio dai monumenti e dai beni culturali alla città storica e ai sistemi culturali territoriali, dilatando il senso e il campo dell’opzione conservativa, sempre più fondata sul progetto percepito come il luogo privilegiato di produzione dei nuovi valori della società contemporanea.

La carta, che rimane un documento aperto, rappresenta l’atto di rifondazione dell’associazione. Due anni dopo, il tema verrà riproposto a Bergamo nel Seminario “La nuova città esistente. Oltre la Carta di Gubbio 1990”.

 

Nel corso degli anni ‘90 l’ANCSA promuove un’intensa attività volta alla definizione del “progetto per la città esistente”. I limiti della città, le sue relazioni con il contesto territoriale, con nuove forme dell’abitare, con l’estendersi della cosiddetta città diffusa costituiscono l’oggetto della riflessione, che accoglie le questioni poste dall’insediamento delle nuove componenti sociali nel territorio. Il ruolo del centro storico appare essenziale nel progetto di ri-composizione della città, nel lavoro che accomuna le discipline del progetto di architettura e di urbanistica avvicinandole agli attori del processo di pianificazione. “Il territorio storico e la nuova città esistente” (Venezia, 1994), “Dimensioni, forme, strategie del progetto” (Gubbio, 1994), sono i titoli degli incontri che si svolgono nelle città storicamente partecipi della vita dell’associazione. A discutere le tematiche introdotte dai membri dell’ANCSA sono presenti soprattutto architetti e urbanisti.

 

Le componenti innovative del progetto, alle diverse scale, rappresentano una base importante per la elaborazione di indirizzi strategici e operativi. L’ANCSA si propone di ricercarne gli elementi nelle esperienze più significative prodotte dalle amministrazioni pubbliche, dagli operatori privati, dalle università (tesi di laurea e di dottorato), in Italia e all’estero. Il “Premio Gubbio”, istituito nel 1990, rappresenterà il luogo di confronto tra studi, progetti e realizzazioni che meglio interpretano gli orientamenti dell’ANCSA, rendendo così evidente il significato della “riqualificazione” dei contesti urbani e territoriali.

Introducendo la seconda edizione del Premio (1993) il presidente dell’ANCSA, Bruno Gabrielli, chiarisce le ragioni della istituzione di una sezione estera, mirata a rafforzare l’apertura internazionale dell’associazione e le motivazioni del premio assegnato ad Alvaro Siza per il “Plano para a Reconstrução do Chiado”, dopo l’incendio che aveva devastato l’area interna al centro storico di Lisbona: “l'ANCSA ha inteso indicare a coloro che si occupano di recupero e di riqualificazione urbana dove rivolgere l'attenzione: all'Europa che è la realtà cui rapportarsi, il termine di confronto e la palestra per la nostra supponente cultura urbanistico-architettonica, una Europa che pratica poca teoria e mira a realizzazioni concrete. Con questo non voglio affermare che l'esercitazione teorica sia negativa, ciò che lamentiamo - sordità e insensibilità della Pubblica Amministrazione, gabbie normative, incapacità decisionale e programmatica - non si presta a scuse e non verrà mai rimossa se continueremo a lamentarcene "chiamandoci fuori". […] il Premio Europeo non vuole essere una presuntuosa prova di forza (che l'ANCSA non potrebbe davvero permettersi), bensì un'apertura verso una realtà della quale ci aspettiamo utili ritorni per rinnovare i nostri strumenti.

Il premio a Lisbona e ad Alvaro Siza Vieira rappresenta un atto di fiducia nella progettualità del recupero e una risposta alla cultura dell'emergenza: in quel caso si è riusciti a tramutare, in un arco di tempo brevissimo, un evento disastroso in una grande occasione per il progetto di architettura.

In questa occasione, anche il Premio Nazionale ha assunto analogo significato. Il riconoscimento assegnato al Comune di Pisa e a Carmassi rappresenta un ulteriore atto di fiducia; sta a significare che una cultura locale può essere felicemente stimolata e diventare fonte di insegnamento e di guida per il progetto urbano assumendo, come è già successo nel passato, una valenza internazionale”.

Per quanto riguarda la ricerca universitaria, infine, “I Premi per Tesi di Laurea e di Dottorato di Ricerca portano più lontano il progetto dell'ANCSA: ci si interroga sullo stato dell'arte andando a osservare la ricerca nei luoghi della formazione culturale, un'occasione per meditare sugli strumenti che possediamo e su come formiamo le giovani generazioni sui temi cruciali del nostro paese. Un test straordinario di oltre un centinaio di lavori che testimonia il livello raggiunto dalla cultura del recupero e della riqualificazione in Italia… considero questa opportunità come una grande occasione per interrogarci e capire cosa occorra fare. Con queste iniziative, l'ANCSA continua a esercitare la sua funzione di stimolo critico e di rilancio del dibattito”.

Il Premio è anche occasione per riprendere e rilanciare i temi proposti per le 3 sezioni (Europea, Nazionale, Nazionale per tesi di laurea, dottorato, specializzazione) sia in forma di dibattito, sia proponendo in mostra i progetti selezionati. La produzione di conoscenze e le diverse modalità di approccio all’intervento nel rapporto esistente/nuovo danno luogo a un circolo virtuoso: se si accosta la sequenza dei progetti vincitori all’elenco dei convegni e seminari promossi dall’associazione, risulta evidente l’intreccio tra i temi del Premio, i contenuti dei progetti selezionati e le questioni che l’osservatorio ANCSA ha percepito di maggiore interesse e attualità.

 

 

Sulla demolizione

 

Nell’elenco delle attività dell’ANCSA il Seminario dedicato al tema della demolizione rappresenta il messaggio più radicale fatto proprio dall’associazione. Alla metà degli anni ’90, esso appare come una ‘rivoluzione copernicana’, se dalla salvaguardia (sinonimo di tutela, di protezione) del centro storico si è approdati alla demolizione quale necessario passaggio alla riqualificazione urbana.

“Il progetto della demolizione/La demolizione nel progetto” (Roma, giugno 1995) – titolo iniziale del seminario - non irrompe sulla scena in modo imprevisto. A fine anni ’80, a Palermo, l’ANCSA aveva presentato la demolizione come strumento del ripristino di luoghi urbani fortemente alterati e degradati, una sorta di “restauro ambientale” memore forse delle tecniche del “diradamento” giovannoniane, destinato a risanare la città degli abusi e quella in abbandono. L’anno dopo (1990), a Gubbio, la mostra “Italia da demolire” aveva proposto una sorta di esercizio di caccia all’errore/orrore urbanistico-edilizio, rievocazione dei vandalismi alla Cederna da un lato, evidente citazione, dall’altro, dai piani contemporanei alla nascita dell’ANCSA e redatti (1954-57) da uno dei suoi padri fondatori, Giovanni Astengo. Per indicare gli edifici percepiti in violento “contrasto con l’ambiente”, costituito ad Assisi dal tessuto di origine medievale, Astengo aveva usato un retino giallo, colore simbolo della demolizione (come tale presente nei progetti destinati all’approvazione delle Soprintendenze). In modo non troppo dissimile era presentato, a distanza di trent’anni, il test proposto dall’ANCSA quale primo invito alla sottrazione.

Il dibattito che si svolge a Roma nel ‘95, promosso da Antonino Terranova e Paola Falini e pubblicato con il titolo Il progetto della sottrazione3 è intenso e serrato, e coinvolge, tra diversi studiosi, un ampio gruppo di docenti di progettazione architettonica di scuola romana: “dopo aver oscillato tra le due definizioni [demolizione o sottrazione], il convegno sembra aver scelto di optare per la ‘sottrazione’, forse per non apparire troppo nichilista, forse per orientare la discussione sull’attualità del ‘metodo progettuale’ identificato nel caso di Venisseux [demolizione di otto torri del quartiere ‘Democrazia’, nei sobborghi di Lione]… L’impressione è quella che si cerchi di restituire alla pianificazione urbana una centralità che è ormai in crisi, solo che sia disposta ad adattarsi all’idea di operare per de-costruzione piuttosto che per costruzione”, commenta Pippo Ciorra4.

La ‘manomissione del titolo’ ha spostato, secondo Gabrielli, l’obiettivo del confronto dall’ambito “civile” a quello “culturale”, dal momento che, mentre “per sottrarre occorre esplorare, per demolire è sufficiente decidere…”. Analogamente carica di ambiguità rispetto alla sottrazione “[la demolizione] è di natura ‘politica’, non solo per il favore/disfavore che ha avuto nella storia, ma per la sua natura decisionale, per l’imbarazzo che crea nella nostra coscienza, per il timore di sbagliare in modo non reversibile… Se sottrarre è opera di architetto, demolire è - può essere - opera da urbanista”: una nuova figura ancora da costruire che, per Gabrielli, può essere esemplata su quella dello stratega, portatore di competenze molteplici esercitate con grande responsabilità civile. A sua volta, “il piano di demolizione coincide con la costruzione di una strategia complessiva che sia garanzia di riqualificazione, piuttosto che di mera e redditizia sostituzione”5.

Un esempio, in tal senso, potrebbe essere quello portato da Renato Nicolini, che interpreta la de-costruzione dell’area Italsider di Bagnoli, pensata da Vezio De Lucia, in continuità con la proposta fatta un secolo prima da Lamont Young per lo stesso luogo, occupato poi dalle acciaierie. Il nuovo progetto per Bagnoli, evitandone le derive utopistiche, ha previsto una riconversione aperta all’investimento pubblico e privato e rappresenta per questo una scelta innovativa che fa apparire “irritante l’insistenza di qualcuno per cancellare ulteriori cubature e rendere ancora più verde la futura Bagnoli… La ‘nuova centralità’ possibile per le periferie è più una questione di atteggiamento mentale, di decostruzione logica, che di decostruzione materiale”6.

 

Più che il centro storico, l’oggetto della sottrazione - afferma Terranova - deve essere “lo scacchiere allargato della città esistente per la quale diventa spettacolo la ripresa al ralenti della demolizione di un edificio moderno obsoleto, e però tabuizzata la possibilità di un senso positivo della demolizione per il miglioramento degli assetti reali, per la ricostruzione secondo immagini più attuali e mobili di identità abitativa… La riflessione che svolgo, vorrei fosse inequivoco, riguarda l’opportunità che l’architettura, e il progetto urbano (e senza paradossi, proprio il progetto di riqualificazione urbana) non rimuovano dislocandolo il dovere-piacere di metter in scena una violenza o una tensione che è nei fatti”. Un collage di citazioni (manca l’elogio al piccone demolitore degli scapigliati milanesi e del giovane Arrigo Boito), ripercorre il processo di virtuale distruzione-morte-seppellimento-ricostruzione dei contesti edificati e abitati. Dando spazio a numerosi passaggi dal testo Distruggere l’architettura (A. Cappabianca, 1979), esso riporta nell’orizzonte della sottrazione il centro storico: “Non sono io ad esortare davvero a ‘distruggere il centro storico’. Io dico che la distruzione è in atto, mascherata. E che mi piacerebbe che allora la società pretendesse di dare figura, misura e senso alla violenza di quel conflitto. Dopotutto il conflitto rende la città vivente. La città morta non ne ha. E’ quella conservata solo dall’esterno, come un guscio”. La (provvisoria) conclusione è che bisogna “appartenere al divenire, accettare la differenza e la molteplicità, accettare ricominciamenti che ricomincino dalle pieghe della terra”, ma “quello che proprio non si può fare è non assumersi la responsabilità del conflitto … nel nome di una normalità semplificatoria e astratta della Conservazione” 7 .

 

La responsabilità, nel mondo attuale, potrebbe consistere nella necessità di ri-comporre la coppia conservazione-demolizione nel suo significato più profondo, nella sua relazione di solidarietà piuttosto che di antagonismo; mentre al contrario, a partire dagli anni Cinquanta, se ne è determinata la separazione, e ciascuna differente opzione ha dato luogo a ideologie e pratiche contrarie, ossia a una demolizione senza sfondo e a una conservazione senza orizzonte: lo sostiene Françoise Choay richiamandosi alle metafore di un celebre testo di Freud, Il disagio della civiltà (1929). Esse possono rappresentare un richiamo a quella “serietà del costruire” cara a Leon Battista Alberti, alla quale andrebbe ancora improntata una edificazione che sappia rifondarsi sul binomio inscindibile conservazione/demolizione.

 

Nel seminario torna più volte, e con diverse interpretazioni, il tema del vuoto (Alessandro Anselmi): esito voluto della sottrazione, spazio di risulta tra parti e pezzi di edificato aggregati, in apparenza al di fuori di una logica unificante, a porzioni di forme unitarie più antiche, i vuoti possono rappresentare lo strumento di riconnessione, di ridisegno, di riequilibrio della compagine urbana contemporanea, e ‘aggiungere’ nuovo spazio e occasioni al progetto di architettura (Carmen Andriani), come è del resto storicamente avvenuto. Si tratta della stessa logica che ha animato la redazione di alcuni celebri strumenti urbanistici, come il Piano Particolareggiato per Pesaro (1975), ricordato nelle sue scelte essenziali da Raffaele Panella.

Il vuoto sapientemente progettato può essere interpretato come un antidoto alla città di “catrame e cemento” costruita negli ultimi trent’anni, può ricomprendervi, in luogo del suolo consumato dall’edificazione, “l’erba dei prati” dell’ urban agricolture, e restituire forma e misura allo spazio pubblico (Aldo Aymonino).

 

Dalle riflessioni presenti nei diversi contributi, emergono le premesse di alcune posizioni che l’ANCSA preciserà negli anni successivi: la conservazione non può coincidere con un atteggiamento passivo di rinuncia al progetto; essa non è separabile dall’innovazione;

allo stesso modo, non è possibile segnare una cesura netta tra storicità e contemporaneità;

l’identità di una città non si arresta ai confini del suo nucleo più antico né è riconducibile a un tempo “dato” che precede la modernità.

 

E’ utile ricordare che nel dicembre 1994 è approvata la legge n. 724 contenente le norme per la sanatoria degli abusi in materia edilizia. Il condono 1995, che consente a ciascun privato l’uso senza regole, al di fuori di qualunque responsabilità verso la collettività, delle risorse urbane e territoriali, costituisce il volto reale dell’anti-pianificazione.

 

 

Forme di piano e progetti per il “territorio storico”

 

Il Premio Gubbio 1996 “Interventi fisici di recupero del patrimonio edilizio esistente e/o iniziative gestionali e organizzative che costituiscano operazioni strategiche di riqualificazione urbana” è focalizzato attorno ai caratteri innovativi del progetto per l’esistente. “L’impressione che si ha, dal nostro osservatorio, è che vi sia un calo di interesse per tutto ciò che è memoria, e che stia affiorando un forte desiderio di cambiamento connotato da cancellazione. Tutto ciò avviene in un momento in cui le ragioni della conservazione avrebbero raggiunto un loro completo riconoscimento istituzionale e culturale, scrive Gabrielli. Riteniamo dunque vi sia da segnalare la presenza di un veleno all’interno della stessa conservazione, un suo oltranzismo cieco che, nell’affermare la difesa delle pietre, trascura la città degli uomini… La testimonianza che l’ANCSA riafferma con costanza [è che] l’idea di conservazione non può essere disgiunta dal suo significato culturale e civile… Renderla vitale e utile per la società, nel segno di un cambiamento teso alla valorizzazione dei beni culturali e alla loro ri-considerazione è l’obiettivo al quale l’ANCSA intende contribuire”.

Paola Falini richiama i criteri di valutazione delle esperienze presentate alla Sezione Europea del Premio, ribadendo i requisiti che ciascun progetto, alle varie scale, dovrebbe garantire: una “conservazione attiva”; un recupero attento alle componenti fisica, economica e sociale dei contesti; una stretta connessione tra i versanti urbanistico e architettonico; la considerazione congiunta degli aspetti funzionali, formali e gestionali.

Nel 1997 il Progetto di riqualificazione decennale (1989-1999) dell’Internationale Bauausstellung (IBA) Emscher Park (Deutschland), viene dichiarato vincitore del Premio e le motivazioni fanno esplicito riferimento alle linee, alle procedure e agli obiettivi dell’azione strategica che lo ha supportato, in particolare al “perseguimento di una qualità abitativa concepita in termini di sostenibilità ecologica”.

Nella stessa edizione, è premiato il progetto di ri-composizione ri-costruzione delle Case Di Stefano a Gibellina (autori, Roberto Collovà, Marcella Aprile, Teresa La Rocca) e i vincitori della sezione Tesi di laurea, dottorato e specializzazione sono scelti tra i migliori studi di progettazione urbana.

 

L’ANCSA considera il XII Convegno-Congresso “Patrimonio 2000. Un progetto per il territorio storico nei prossimi decenni”8 (Modena, 1997) una tappa fondamentale per la messa a fuoco delle tematiche sviluppate dall’associazione nel decennio seguente.

Quale dovrà essere il ruolo dell’ANCSA nel prossimo futuro? - si chiede la relazione introduttiva9. La profonda trasformazione del contesto urbano e territoriale toglie all’interrogativo gran parte del suo tratto rituale. Al XII Convegno-Congresso sono presenti i rappresentanti di diversi comuni che descrivono i passaggi e le criticità della gestione del patrimonio esistente in città piccole e medie come Pesaro, Modena, Guastalla, Gubbio.

Appare evidente all’ANCSA come il proprio ruolo non possa prescindere dalla costruzione e dallo sviluppo di una rete di relazioni interattive tra gli enti, gli organismi e le associazioni che si interessano del territorio, da “un allargamento di campo” che può consentire un necessario punto di svolta. Entro questa prospettiva vanno esaminati “i fenomeni e i problemi emergenti”: il rapporto tra i centri storici e il territorio, tra la città compatta e la città diffusa; i problemi delle “città d’arte” sia nella quotidianità e che in presenza di grandi eventi; il nuovo significato da attribuire al recupero e alle pratiche della manutenzione.

In questa chiave andrebbero riletti i documenti di indirizzo proposti da associazioni e istituzioni pubbliche e private, le “Carte”, le “Dichiarazioni” da verificare nella loro attualità ed efficacia; in questo quadro andrebbero riesaminate le politiche, le competenze, le pratiche in atto nel settore dei Beni culturali e dovrebbero essere analizzate, infine, le nuove forme della pianificazione.

 

L’idea dell’ANCSA è che “lo Stato assuma una programmazione di scenario nel campo dei beni culturali e nel campo del governo del territorio”; che “le autonomie locali possano giocare un ruolo decisivo, a condizione che ne siano investite con mezzi adeguati”; che “per il patrimonio occorra spendere di più e nel contempo avere idee guida per farlo fruttare in modo adeguato, ponendolo in un ciclo economico virtuoso, non di solo consumo”.

Fin dalle premesse, a Modena sembra prevalere l’approccio urbanistico al tema del patrimonio esistente, e al centro della riflessione tornano i temi identitari dell’associazione: i centri storici, il territorio storico e il paesaggio nell’Italia e nell’Europa di fine millennio; la tutela ambientale, anche alla luce dei fenomeni di dissesto del territorio - alluvioni, frane, terremoti - che hanno devastato il Paese. Il tema della tutela del patrimonio si intreccia con le questioni del rischio e della sicurezza delle popolazioni.

La relazione di Roberto Gambino ne restituisce un ampio quadro, evidenziando i nodi del rapporto che intercorre tra centri storici e territorio. Propone una “conservazione innovativa del territorio storico” che attribuisca agli insediamenti di non recente costruzione la funzioni di struttura del paesaggio, o meglio, dei “ paesaggi culturali concepiti come manifestazione complessa, olistica ed evolutiva dei processi di territorializzazione”. Mentre la “soggettività territoriale” avrà il ruolo di motore dell’innovazione conservativa “ponendo al centro della scena gli attori e le comunità che abitano e quindi edificano, quotidianamente, il territorio storico”10.

Vittoria Calzolari delinea i passaggi che consentono di leggere le specificità e le diversità dei territori storici e dei paesaggi contemporanei, peculiarità legate alle condizioni geomorfologiche e topografiche, alle storie dei luoghi e della loro costruzione nel tempo, alla storia dei caratteri “immateriali” e alla evoluzione delle “mentalità” proprie di ciascun insediamento. La “ricerca del possibile” nasce da un lavoro di indagine, di sperimentazione sul campo, di composizione, da compiere seguendo i passaggi descritti e pensando a scenari dai tempi medio-lunghi.

Il progetto di territorio e il progetto di sottrazione sono le due principali direzioni di lavoro proposte da Antonino Terranova e Paola Falini, che rivedono in chiave aggiornata ipotesi interpretative e strumenti di intervento storicamente consolidati nella cultura dei centri storici. I grandi progetti di architettura, con il gradiente di sottrazione che vi è implicito, rivelano il loro carattere strategico nel futuro della città esistente.

I temi della gestione delle politiche territoriali, affidati a Carlo Gasparrini e a Stefano Storchi, fanno riferimento alla ricerca, condotta per conto dell’ANCSA “Efficacia e successo delle politiche di recupero e riqualificazione urbana in alcuni casi di studio”.

 

Osservazioni di grande interesse sono formulate dagli studiosi esterni chiamati alla discussione.

Giuseppe Roma, Direttore del Censis, ritiene che attorno alle proposte dell’ANCSA si possano lanciare grandi progetti nazionali, i quali, senza espropriare l’operatività delle amministrazioni locali, dovrebbero porre come centrale il recupero del centro storico: essi potrebbero coincidere con il progetto per il mezzogiorno, per la cultura della legalità, per il rilancio economico di città come Palermo, Napoli, Bari, Catania, per il grande e irrisolto tema della mobilità, dell’accoglienza, del turismo e del degrado che può derivarne ai centri storici. Il patrimonio storico e il capitale sociale, le reti di impegno civico, la convergenza consensuale, vanno considerati entro un processo unico e in grado di aggregare la cura degli oggetti e quella dei soggetti11.

Francesco Indovina trova che nella proposta dell’ANCSA manchi il riferimento essenziale al rapporto tra le trasformazioni della società e le trasformazioni urbane, in particolare nei centri storici, e che, nella dilatazione di prospettive voluta dall’associazione, questi ultimi sembrano aver perduto un proprio specifico. Quanto alle periferie urbane, esse rappresentano “prima di tutto un prodotto sociale, poi di urbanistica e di edilizia”, e il rapporto tra le diverse categorie dovrebbe tornare centrale nelle valutazioni dell’ANCSA. I vincoli alla pianificazione andrebbero valutati anche nei loro aspetti positivi, non soltanto in negativo: “In quest’ansia di rinnovamento – osserva Indovina - sembrava ci fosse un elemento di depotenziamento del patrimonio culturale, del suo valore simbolico e anche fisico, e quindi sostengo la necessità della sua conservazione”12.

Edoardo Benvenuto invita a considerare la centralità del rapporto dialettico tra il processo di conoscenza insito nelle pratiche della conservazione, e il progetto di intervento, di architettura, di sottrazione.

Infine, Liliana Pittarello, esponente delle istituzioni di tutela, esprime il suo netto dissenso rispetto all’affermazione proposta nella Relazione Generale, che “la difesa e la salvaguardia del patrimonio storico sono ormai concetti diffusi a tutti i livelli, da quelli istituzionali a quelli dei mass-media” e che in conseguenza di questo, il ruolo dell’ANCSA debba essere ripensato. L’associazione potrebbe, al contrario, esercitare una funzione essenziale nell’impedire che la separazione, anche concettuale, tra “tutela” e “valorizzazione” affidi a soggetti istituzionali distinti fasi che dovrebbero essere del tutto solidali e che andrebbero implementate a partire dalla concertazione tra i vari soggetti: le Regioni, le Province, i Comuni, le Soprintendenze. “Rifiuto – conclude – che la conservazione non si attui attraverso il progetto, che non possa essere essa stessa uno dei fini del processo progettuale… [dal momento che non può] esistere una separazione concettuale fra conservazione e progetto ed occorre che il mondo accademico rifletta sui rischi gravi che questa separatezza si consolidi”. Anche in materia di vincoli occorre fare chiarezza, perché se il vincolo non è, né potrebbe esserlo, uno strumento di governo del territorio, “la pianificazione urbanistica deve avere l’alto profilo per contenere, inquadrare, indirizzare i relativamente pochi vincoli monumentali all’interno di una politica di salvaguardia e valorizzazione dell’intero patrimonio culturale territoriale”13.

 

 

2000- 2010. Città storica, città contemporanea. Il paesaggio culturale come identità plurima

 

Gli Atti del Convegno “Urbanistica e sicurezza nelle città” (Bergamo, 2000) e quelli del Seminario “La Città Storica e gli ambiti strategici nel nuovo P.R.G. di Roma” (Roma, 2001) non sono stati pubblicati.

Resta traccia, invece, del Premio Gubbio 2000 e del “dibattito che ha contrassegnato, all’interno della giuria, l’esame di due progetti apparentemente contraddittori.

Da un lato (progetto De Feo) l’A.N.C.S.A. premia il coraggio del progetto, inteso a restituire senso e vitalità ad un isolato urbano mettendo insieme, con disegno intelligente e colto, il recupero di architetture preesistenti e nuove architetture. Dall’altro lato l’A.N.C.S.A. premia un progetto (progetto Botta)14 in cui questo coraggio non ha potuto essere espresso, condizionato dalla storia urbana di uno spazio determinatosi come un “vuoto” ormai irrinunciabile per i cittadini. In questo caso l’A.N.C.S.A. premia un progetto di sistemazione urbana di notevole qualità, la cui realizzazione conclude in modo reversibile una partita durata troppo a lungo. Quasi un rinvio ad un futuro progetto oggi impossibile, ma capace di eliminare finalmente un buco nero dell’area centrale di una città nobilissima, quale è Parma.

Una contraddizione, allora, visto che si premiano “ex-aequo” due progetti che sembrano opposti? Il caso è aperto, ma non vi è dubbio che la giuria del Premio ha voluto porre in luce uno dei temi più dibattuti nell’A.N.C.S.A.

Il tema della memoria, memoria urbana antica e recente, accomuna i due progetti e li fa riconoscere nella loro capacità di risposta qualitativa alla soluzione di problemi urbani che hanno una storia civile alle spalle. Certo che, insieme, convivono le indubbie irrequietezze del momento culturale che stiamo attraversando. Traspare ancora chiaro l’imprecisato rapporto fra conservazione e innovazione, tra amministrazione dei beni culturali, e sua ideologia corrente, e libertà di ricerca progettuale”.

Il Premio per la Sezione Europea è assegnato al “Plan Especial del Centro Histórico de Toledo”, elaborato sotto la Direzione di Joan Busquets, approvato nel 1997, e nel 2000 in corso di realizzazione. Anche il centro storico di Toledo è inserito nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO. Tra i suoi molteplici obiettivi, il Piano Speciale, oltre che considerare la straordinaria qualità architettonica del contesto, “ha dato centralità alla rivitalizzazione degli usi residenziali della città antica ed al consolidamento della sua diversità funzionale, rafforzando la presenza dell’Università, delle attività turistiche e della cultura, da un lato, e facendo leva sulle potenzialità della struttura esistente e segnatamente sui caratteri distintivi della sua edificazione, dall’altro”.

 

 

Il 2003, anno del terzo condono edilizio (D.L. 269/2003, convertito nella L.326/2003), e della gestazione, contemporanea, del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (approvato l’anno seguente come D.Llgs n .42/2004), si tiene in novembre a Perugia il XIII Convegno-Congresso ANCSA dal tema “Contemporaneità e identità del territorio: le sfide del 3° millennio”15.

“L’incontro si apre in un clima piuttosto incerto in ordine ai temi che l'associazione ha da sempre privilegiato. Sembra infatti di essere in presenza di processi di trasformazione sempre più accentuati e sempre meno afferrati e compresi dagli addetti ai lavori”. Rispetto a tale scenario “l'A.N.C.S.A. intende fornire un contributo di interpretazione dei fenomeni in atto, affermare, attraverso alcune ‘Dichiarazioni’, proprie posizioni su diversi temi della Conservazione e, infine offrire alla valutazione alcune importanti esperienze di interventi urbani”.

Guardando alla propria storia, l’ANCSA riconosce due principali momenti: la battaglia per la salvaguardia dei centri storici, con il contributo di analisi, ricerche ed elaborazione di indirizzi finalizzati a quell’obiettivo; la scelta di estendere i temi progettuali della riqualificazione alla città esistente, e poi al ‘territorio storico’, “che ha generato lo strumento del Piano di Riqualificazione Urbana e, oggi, la teoria e la prassi del Progetto Urbano”.

A conclusione di un ciclo che va a coincidere con la fine del Novecento, l’ANCSA sembra attribuire proprio al consolidarsi della cultura della tutela quelle “numerose distorsioni” che in Italia attraversano il campo della Conservazione. A fronte della nascita di nuove strategie d'intervento in numerose città europee, l’ANCSA ritiene che le politiche della conservazione praticate in Italia abbiano di fatto bloccato “quei processi di conservazione attiva che avrebbe consentito la valorizzazione del patrimonio e la costruzione di una nuova identità nella città e nel territorio”.

Curiosamente, è ancora la “conservazione passiva” il nemico da battere, anche se, a parere di chi scrive, essa non si dà e non potrebbe esistere nella realtà delle cose: si tratta in fondo di un antico fantasma che ha turbato a lungo i sonni dei progettisti, i quali, peraltro, lo hanno esorcizzato ampiamente16.

Nella “Dichiarazione n. 1” presentata al XIII Convegno-Congresso con il titolo “La dismissione del patrimonio culturale” l'ANCSA rivendica la necessità del progetto capace di coniugare le istanze della conservazione e dell’innovazione e l’intenzione di rilanciare il dibattito sul progetto del patrimonio “collocandolo all'interno del grande tema del progetto urbano contemporaneo”. Ma la direzione verso la quale si muove il Paese non è certo quella della conservazione, se dopo aver chiarito i termini giuridici della dismissione, il documento dell’ANCSA conclude: “se il patrimonio pubblico continuerà ad essere alienato secondo le insidiose trame deregolatorie introdotte dalle Legge Tremonti (L. 112/2002), allo Stato non resterà nulla da tutelare e alle Regioni nulla da valorizzare”. L’ANCSA sottolinea la gravità dei provvedimenti varati dal governo e “si mobilita perché il patrimonio culturale, su cui poggia l’identità nazionale, sia sottratto a logiche esclusivamente privatistiche e mercantilistiche”.

La “Dichiarazione n. 2. Sulla tutela del Paesaggio”, fa esplicito riferimento alla Convenzione Europea del Paesaggio adottata dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa e firmata a Firenze da 44 paesi, tra i quali l’Italia, e ne confronta gli obiettivi alla ricerca che l’ANCSA svolge da tempo sul paesaggio contemporaneo e sul progetto della sua valorizzazione.

“Sfida della contemporaneità e patrimonio storico” è il tema della “Dichiarazione n. 3”, che, contro il rischio dell’ “anomalia italiana”, la conservazione, che inibisce la creatività progettuale, riafferma la necessità di “rinnovare il dialogo tra progetto contemporaneo e storicità, come contributo alla modernizzazione del Paese”.

La “Dichiarazione n. 4”, “Dedicato alle amministrazioni locali”, ripropone infine, i tema della sostenibilità fisica, ambientale, funzionale e culturale dello sviluppo urbano.

La seconda sessione del congresso è dedicata ad una rassegna di progetti per molti versi "esemplari", sia selezionati per il Premio Gubbio, sia riferiti ad altre esperienze, italiane ed estere, presentate dagli stessi progettisti. La terza sessione è dedicata al dibattito con gli amministratori delle città che hanno realizzato i progetti.

Tra i partecipanti al Convegno, discutono i 4 punti della Relazione Generale: Oriol Bohigas, Mario Manieri Elia, Aimaro d’Isola, Bruno Fortier oltre a Pio Baldi e Giorgio Piccinato. A presentare i progetti sono chiamati Joël Batteaux (sindaco di Saint-Nazaire), Bernardo Secchi, Ben Van Berkel, Bruno Fortier e Italo Rota (vincitori del premio Gubbio per la sezione estera), Franco Mancuso (vincitore della sezione nazionale) e Cesare Macchi Cassia.

 

 

Ritorno al centro storico

 

A Macchi Cassia è affidata la Relazione di apertura del Convegno Nazionale “Turismo e Centri Storici nell’Italia contemporanea” (Firenze, 2005)17 che fin nel titolo dichiara l’intento di riconsiderare i problemi che investono le città contemporanee a partire dal loro centro storico. Sarà così anche per gli anni seguenti.

Il convegno è inserito nel “Progetto comunitario LUCUS – Salvaguardia e Valorizzazione dei Boschi sacri in Europa”18. Nato intorno a Spoleto e alla sua montagna, con il bosco sacro e i suoi i ricoveri eremitici, “luogo dell’anima”, dell’interiorità, del silenzio e dei tempi lenti, il progetto Lucus intende estendere al “territorio storico” e al suo patrimonio, nelle sue molteplici manifestazioni - parchi letterari, vie di pellegrinaggio, sacri monti, infrastrutture di archeologia industriale, portuale o rurale… -, senza comprometterne il carattere, forme innovative di valorizzazione culturale, come assicura Stefania Nichinonni.

La struttura del convegno del 2005 prevede ancora una volta che gli invitati rispondano ai temi sollevati dalla relazione introduttiva; che siano presentati casi di studio relativi a città di grande e media dimensione e a costellazioni di centri minori; che le tematiche esposte siano discusse con esperti stranieri.

Il turismo rappresenta indubbiamente una delle grandi fonti di ricchezza dell’Italia, e tuttavia investe il territorio del paese in forme del tutto diseguali. Se alcune municipalità tentano di incentivare il numero di visitatori mediante iniziative culturali piuttosto che inserendo le proprie comunità all’interno di itinerari enogastronomici, in altri casi si cerca, viceversa, di porre freno al turismo di massa, specie a quello che si manifesta nella modalità del “mordi e fuggi”, che può risolversi in una grave forma di snaturamento delle città che ne costituiscono la meta privilegiata.

“Il positivo significato del turismo come scambio culturale rischia di essere completamente ribaltato da modalità d’uso che sviliscono il patrimonio e lo mettono in pericolo. Occorre definire e attuare una politica per il turismo che consenta il recupero del significato culturale, nonché di valorizzazione culturale del patrimonio storico-artistico del nostro Paese”, è la tesi dell’ANCSA.

I flussi turistici dalle aree più popolose del mondo, l’incremento dei visitatori provenienti dalla Cina in particolare, rischierebbero di travolgere le “città d’arte” di media dimensione come Venezia e Firenze, e di falsificare completamente la percezione della civiltà e delle caratteristiche più autentiche delle culture regionali italiane. La Relazione introduttiva propone di diversificare e ampliare l’offerta oltre i centri più noti e celebrati, includendovi località e insediamenti tra loro correlati per storia, per tradizioni, per cultura. La sfida ulteriore consisterebbe poi nel portare all’attenzione dei turisti, e di conseguenza dei cittadini, la città contemporanea con i suoi nuovi paesaggi, espressione dell’ibridazione di culture che ne ha ridisegnato l’identità attuale. Inoltre, nuovi strumenti culturali dovrebbero elevare la percezione e le richieste del pubblico dei visitatori.

 

Ogni città attrae uno specifico tipo di turismo: su ciascuna delle forme di rapporto che vi si crea occorre dunque lavorare. I turisti visitano di preferenza il centro storico, e tendono a concentrarsi in modo abnorme nel nucleo antico delle città d’arte; queste tendono a loro volta ad uniformarsi alla domanda del turismo a basso costo, alla richiesta di colore locale e di prodotti tipici fino a diventare città dei turisti molto più che dei residenti, “periferie di quelle che danno origine al mercato turistico. Arrivano fino a incorporare i loro gusti più elementari… L’esodo della popolazione locale elimina la sorveglianza sociale sui manufatti e sui siti, riduce le città ad ambienti monoculturali, ciò che comporta il decadimento della stessa esperienza turistica”, spiega Franco Mancuso descrivendo la situazione di Venezia, città che dal turismo, dal consumo del contesto fisico, dei monumenti, e dalla cessione ad acquirenti stranieri del tessuto residenziale, esistente e di nuova formazione, andrebbe difesa19.

Ma il turismo non ha soltanto un volto negativo e, ad esempio, la stessa “Firenze non è (solo) una città turistica”. A Firenze non vi è un centro storico omogeneo, ma un insieme di mondi assai composito per formazione e uso, di luoghi diversi tra loro più di quanto lo siano rispetto alle periferie che presentano caratteri molto più uniformi. Il turismo stesso è in realtà un bene composito, e anche il turista di un giorno può attivare effetti positivi sul sistema economico: sta all’operatore pubblico governarne le conseguenze componendo gli squilibri che si determinano quotidianamente e nel tempo20.

 

Per invertire le tendenze negative si potrebbe puntare su diverse soluzioni. Ad esempio, sulla definizione di una nuova figura, quella del “philosophic pratictioner”, al quale affidare il compito di “trasformare i centri storici folklorizzati in magneti per il nuovo ceto medio internazionale” allo scopo di declinare con successo il concetto di “città ospitale”, è il parere di Nicolò Costa, professore di “Scienze del Turismo”21.

Si dovrebbe puntare decisamente sul rinnovamento dei centri urbani, ai quali sarebbe in tal modo restituita una dimensione più propriamente storica, in luogo di quella puramente archeologica sottesa alla nozione di conservazione, sottolineando ad un tempo il valore dei luoghi: costi di accesso più elevati, consentirebbero di selezionare il pubblico dei visitatori, sostiene Philippe Daverio22.

Si potrebbe proporre in una nuova accezione il concetto - peraltro esplorato già negli anni ’50 - di città come opera d’arte: le strade e le piazze “a tema” che hanno costruito in tempi diversi la fisionomia unica e la dote di bellezza di ogni città, piccola e grande, fanno sì che ciascuna di esse possa essere considerata un’opera d’arte, e come tale - afferma Marco Romano - essere spiegata al pubblico e costituire la meta di un viaggio. L’aggiornamento delle tradizionali guide per i visitatori dovrà porsi questo obiettivo, affiancando indicazioni artistiche a quelle più generalmente culturali, ad esempio, relative a una ristorazione di qualità legata al territorio.

Se la regione rappresenta “l’espressione più pertinente di una stratificazione culturale che nei secoli ne ha definito i caratteri e la specificità”, un accorto “marketing” territoriale dovrebbe promuovere le regioni europee quali meta turistica, alleviando così la pressione sulle città d’arte”23.

 

Ancora, una politica consapevole non può che partire dalla conoscenza dei luoghi, del loro spessore storico e culturale. La ricerca svolta per la Regione Sicilia, coordinata da Teresa Cannarozzo, ne costituisce la possibile dimostrazione. L’indagine, i dati raccolti e la loro interpretazione sono finalizzati all’identificazione delle aree sulle quali concentrare i finanziamenti e favorire l’economia e lo sviluppo locale, in particolare nei centri minori e nelle zone interne del territorio regionale. L’individuazione dei potenziali “distretti culturali” parte dall’analisi delle caratteristiche peculiari di ciascuna delle aree esaminate. Dopo averne evidenziato le criticità e considerati i parametri dell’accessibilità e dei collegamenti territoriali, la ricerca si conclude nell’attenta valutazione delle risorse e delle loro interrelazioni. I centri storici appaiono come risorsa primaria, ma la mappa disegnata mette in rilievo altre componenti essenziali del processo di rivitalizzazione: gli insediamenti storici diffusi, le aree archeologiche, le zone di interesse paesaggistico, ambientale e naturalistico, nonché le produzioni tipiche, gli eventi e le istituzioni culturali, la ricettività turistica24

Il caso dell’attento recupero del giardino della Kolymbetra nella Valle dei Templi di Agrigento, liberato dai rifiuti e dalla vegetazione infestante, ripiantumato con essenze autoctone, ripristinato nelle canalizzazione e negli impianti irrigui, progettato nei percorsi, nei luoghi di contemplazione e di sosta e negli elementi di arredo, è presentato come un esempio di valorizzazione di una risorsa “ritrovata” dal grande impatto paesaggistico25.

 

 

I temi che l’ANCSA propone negli ultimi anni, tra loro strettamente correlati, delineano un percorso centrato su problemi soltanto all’apparenza circoscritti, e che mantengono in realtà, nell’impostazione e nei riferimenti, l’ampiezza di orizzonte e le valenze di carattere generale da sempre proprie all’associazione.

Dopo la questione del turismo, esaminata dall’osservatorio di una tra le città d’arte per eccellenza, è Bergamo la sede del Convegno Internazionale che l’associazione dedica, nel maggio 2006, a “Spazi aperti nei contesti storici”26. Roberto Bruni, sindaco della città e dal 2005 Presidente dell’ANCSA invita a riprendere “il filo di una tradizione” mirando al contempo a “un aggiornamento dei temi e dei problemi connessi ad un più coerente riuso delle aree urbane di antica formazione”.

 

I temi trattati nell’incontro del 2006 sono articolati in tre sezioni, la prima delle quali dedicata non a caso alla ridiscussione della “Nozione di patrimonio storico”, e sono presentati da Roberto Spagnolo (Politecnico di Milano). Il concetto di patrimonio è mutato molte volte nel tempo. La contemporaneità ha alterato fino a sovvertirle gerarchie e rapporti interni alla città e al territorio antropizzato; appare necessario, di conseguenza “agire in molti centri storici segnati da caratteri di periferizzazione non soltanto con il recupero di organismi edilizi, ma soprattutto con una visione progettuale rivolta alla riqualificazione degli spazi aperti, e dunque delle funzioni private e pubbliche in essi insediati”. È a partire dall’analisi e dalla ridefinizione degli spazi collettivi che può concretarsi il processo di rigenerazione dei contesti urbanizzati ed “è nell’aspetto specifico dell’‘attacco a terra’ che gli edifici della storia sembrano indicare alla progettazione contemporanea non già dei modelli ripetibili, quanto delle potenzialità relazionali”, spiega Spagnolo. Il ruolo culturale del progetto e delle sue pratiche deve tornare prevalente, come torna essenziale discutere la “relazione tra antico e contemporaneo, tra vero e falso, tra identità e mimesi… sia per quanto riguarda gli organismi edilizi che la struttura e l’uso degli spazi aperti”27.

“Il rapporto tra Centro Storico e periferia è del tutto cambiato – gli fa eco Gabrielli – ed è connotato da una sempre maggiore specializzazione… dalle condizioni di degrado degli anni ’60 e ’70 si è oggi passati a condizioni di privilegio… a un modello diffuso a livello europeo di levigato valore antiquario, che è di fatto una nuova forma di distruzione dei suoi valori tradizionali… della sua diversificazione sociale, economica e perfino morfo-tipologica”. L’ANCSA ritiene che l’identità dei centri storici italiani risiede al contrario nel loro essere luoghi di scambio, differenze, vitalità, conflitto, integrazione. L’intervento pubblico si rende quindi nuovamente e più che mai necessario.

Se per Gabrielli occorre ripartire dalla rilettura delle politiche degli anni ’70, per Gambino il dibattito dovrebbe riprendere a partire dalla Nuova Carta di Gubbio del 1990 e dai suoi concetti fondanti. L’estensione di campo dal centro storico al territorio storico non proponeva infatti “un mero cambiamento di scala; ma una nuova filosofia di comportamento nei confronti dell’eredità storica e naturale e dei suoi rapporti con i territori della contemporaneità”28. Dopo 16 anni, occorre interrogarsi sull’attualità della Carta e delle posizioni che vi erano sostenute.

Il paesaggio, considerato ai sensi della legge di tutela del 2004 come parte del patrimonio culturale, nella realtà è stato per 50 anni oggetto di saccheggio e degrado. Nella sua relazione, Gambino sintetizza tempi e modi della devastazione, fino ai recenti condoni edilizi e alla svendita del patrimonio pubblico, ripercorrendo parallelamente gli studi che nel tempo hanno individuato caratteri e significati dei paesaggi, fino ai contenuti innovativi proposti dalla Convenzione Europea, o, più localmente, ai recenti progetti per “infrastrutture ambientali”, finalizzati a riportare la natura in città (greening the city). “È in questo quadro che va collocato il grande tema degli spazi di relazione nella città storica… dei solchi fluviali che spesso l’attraversano e del verde urbano che le consente di respirare”31. La risposta può essere, piuttosto che nell’assecondare la strada della divisione di campi e dell’isolamento di settori o di luoghi privilegiati, nell’affermare una logica di relazioni, nel declinarla in senso progettuale in favore della nozione estensiva dei “paesaggi culturali”.

 

Tra i casi di studio portati all’attenzione del convegno, Pasquale Culotta ha presentato i progetti per il centro storico di Cefalù, in Sicilia, ove si è puntato proprio sul rapporto tra il riuso di antichi palazzi e strutture conventuali adattati a sedi di attività e servizi pubblici e la rilettura-progettazione degli spazi aperti. Il percorso che, seguendo il circuito delle mura megalitiche con i suoi tratti sottoposti a restauro, costeggia per 1.300 metri il bordo del mare, diviene “pretesto per connettere suolo, spazi urbani e geografia dei luoghi… per dar luogo a geometrie, materiali, misure, dislocazioni di elementi nei punti, nelle linee e nelle superfici costitutive l’architettura del paesaggio urbano” 30.

Documenti, tracce materiali e storia dei luoghi sono alla base del progetto di riqualificazione della Piazza Grande, cuore della celebre Palmanova fondata a fine ‘500 per rafforzare i confini orientali della Serenissima. “Terminati i lavori - scrive l’autore, Franco Mancuso - la gente si è subito riappropriata della piazza, in maniera più intensa di quanto fosse possibile augurarsi. Muovendosi al riparo delle automobili, incontra adesso le statue dei Provveditori, nuovamente protagoniste della scena urbana, o l’obelisco triangolare, disposto in modo da rivelarne l’originalità del disegno, restaurato e adibito ad edicola per le informazioni turistiche”31.

Antonino Terranova contrappone la “nuova progettualità del riuso” rivendicata dall’ANCSA negli anni ’80 e ancora tutta da esplorare, al destino della desertificazione che, con segno diverso, sembra accomunare gli spazi collettivi nelle Città d’arte e nei Borghi antichi “Un lavoro per il quale forse i caratteri socio-spaziali del centro storico (principalmente i suoi spazi aperti, così vari, multiformi, ospitali o simbolici) potranno costituire una lezione di progettazione – penso a Le Corbusier, a Quaroni, a Samonà, a Scarpa, ed altri… - piuttosto che una memoria poetica soltanto nostalgica”32.

 

La terza sezione del Convegno presenta, illustrati da autori e studiosi, casi significativi di riqualificazione degli spazi urbani realizzati o proposti in varie città: per il Centro Storico di Buenos Aires (S. Bossio), nel quartiere di Ortigia a Siracusa (T. Cannarozzo), nel centro storico di Genova con la mostra “Arti&Architettura 1900-2000” (A. Costantini), nel progetto per i paesaggi urbani della Bergamo storica (GL. Della Mea, A. Frosio), con la Promenade plantée, il percorso verde Est-Ovest attraverso il 12° arrondissement di Parigi (P. Micheloni), con gli spazi residenziali e l’area di Piazzale San Francesco e del Naviglio, a Parma (S. Storchi), con il Parco lineare integrato delle Mura di Roma (P. Falini).

 

Il Premio Gubbio 2006 è assegnato (Gubbio, 13-14 ottobre) per la Sezione Europea, a pari merito al “Plan Territorial Insular de Menorca” (Spagna) diretto da José Maria Ezquiaga Dominguez, e al progetto per il Quartiere dell’Arc de Triomphe a Saintes (Francia) redatto da Thibaud Babled, Armand Nouvet e Marc Reynard.

Quanto alla Sezione Nazionale, “due progetti, molto diversi tra loro per scala e criteri operativi, sono stati ritenuti equamente meritevoli di riconoscimento: il progetto di “microinterventi”

di riqualificazione degli spazi aperti e pubblici nell’isola di Ortigia a Siracusa, esemplare operazione colta e raffinata condotta dai tecnici dell’Ufficio Tecnico Speciale del Comune, rivolta soprattutto agli spazi minuti e domestici di un tessuto storico particolarmente articolato e ricco, e

quello per il Parco tra Caltagirone e Piazza Armerina dove si declina poeticamente, alla scala del paesaggio, una interpretazione contemporanea dell’identità storica del territorio agricolo siciliano”.

Inoltre, in occasione della sesta edizione del Premio Gubbio “l’ANCSA ha inteso inaugurare il Premio intitolato a Giulio Carlo Argan che, proprio a partire dalla memoria dell’illustre critico d’arte, intende offrire, ad ogni edizione, un riconoscimento a studiosi, architetti, critici che si sono particolarmente distinti per il loro impegno culturale e scientifico nel campo degli studi sulla città e dei patrimoni storici.

L’attribuzione a Giancarlo De Carlo della prima edizione del Premio Argan rappresenta, senz’altro, un autorevolissimo e promettente avvio della nuova iniziativa.

 

Ancora nel 2006, l’ANCSA promuove a Roma il Seminario "Centri storici/Periferie. Nuovi deserti metropolitani"33.

 

 

Il Convegno Nazionale “Geometria e natura”, tenuto nuovamente a Bergamo, nell’ottobre 2007, costituisce, rispetto al convegno sugli spazi aperti, una forma di prosecuzione e di raccordo alle problematiche della riqualificazione dei paesaggi urbani e extra-urbani 34.

Il trentennale dell’istituzione del Parco dei Colli è l’occasione per aprire, rispetto al continuum della città diffusa, nuovi interrogativi sul rapporto tra luoghi della tutela, oasi all’interno del territorio storico che in Europa hanno subito un incremento del 25-30% della superficie, e luoghi aggrediti dall’urbanizzazione senza piano. Ma è anche un momento per rimeditare il tema del rapporto tra centri storici di antica sedimentazione e insediamenti recenti, ai quali conferire “centralità” nuova mediante l’apporto determinante del progetto, inteso sia in senso politico e amministrativo con forti requisiti sociali, sia nel senso di un progetto di architettura attento alla cultura dei luoghi, denso di capacità interpretative e di qualità poietiche.

Il binomio geometria-natura evoca l’immagine dei giardini “all’italiana”, poi “alla francese”, con la studiata architettura del disegno e delle simmetrie disegnate da componenti architettoniche ed essenze vegetali. Viceversa, il “giardino all’inglese” del XVIII secolo che ne rompeva gli schemi, le rigidezze, la possibilità di visione complessiva e immediata, introduceva, nell’avvicendarsi di quadri e di sorprese, nell’alternarsi di natura e artificio, i principi dell’estetica del sublime. Ma si tratta di spazi limitati, fisicamente confinati da recinti e sottratti alla “naturalità” anche se, in alcuni casi di dimensioni più vaste, l’area più esterna tendeva a confondersi con le zone naturali.

Sovente i paesaggi contemporanei, che hanno travolto e in parte inglobato il paesaggio agrario, rompendo i suoi diversi codici, rendendo omogenee le sue molteplici espressioni, non hanno limiti percepibili come tali. Essi costituiscono un contesto che, in alcuni tratti di recente trasformazione, potrebbe essere descritto trasponendo al contesto costruito le settecentesche categorie del sublime: il mostruoso, il caotico, l’oltre misura (fuori scala), il selvaggio…, e in altri tratti essere ricondotto alla definizione di paesaggi ordinari, quindi estranei a qualunque espressione di eccezionalità.

In questo attuale contesto forme progettate di costruzione del paesaggio dovrebbero fondarsi su una lettura sapiente del palinsesto territoriale, da riconoscere mediante strumenti analitici ed euristici, e proporre al pubblico come conoscenza che rappresenta essa stessa un patrimonio collettivo. Poi, “spetta al progetto - più o meno implicito o consapevole - dare senso al paesaggio e al patrimonio diffuso, segnalare la diversità delle identità locali, contribuire alla strutturazione dei territori urbani leggendo il valore della centralità nella ripetizione. In questo orizzonte progettuale cambia il rapporto tra la natura e la cultura dell’uomo, le “geometrie”con cui ci siamo misurati col mondo, continuamente ridisegnandolo”. Ma l’architettura dovrà a sua volta esprimere nuove qualità, “oltrepassare le logiche della domesticazione e della simulazione che hanno finora guidato il confronto con la natura, a favore di un’autentica collaborazione con i suoi processi”35.

Il progetto dovrà ripensare il rapporto tra le aree “verdi”, i paesaggi naturali e agricoli, con le nuove forme di insediamento e con le città.

In tale accezione il tema degli spazi aperti torna essenziale, e la questione della centralità può essere riproposta, partendo – come propone Macchi Cassia – da due mosse: “aggiudicare al centro storico un ruolo che supera quello giocato all’interno del singolo luogo urbano, del singolo Comune… Affiancare alla centralità storica una nuova tipologia di centralità, già oggi intravista nella realtà dei territori più sviluppati, costituita da un differente materiale urbano. È dal dialogo tra questi due sistemi di centralità - storica l’una, contemporanea l’altra - che può nascere un contributo alla strutturazione dei territori urbani, un appoggio al loro disegno, un tentativo di loro prefigurazione spaziale”36.

“La forma fisica non è certo da sottovalutare - sostiene Gambino – ma non vorrei che si ignorasse che c’è dietro a questi cambiamenti fisici, l’allargamento incessante dell’impronta ecologica dell’urbano contemporaneo su spazi sempre più estesi… certo è che oggi siamo di fronte a una globalizzazione … del rapporto dell’urbanità con la naturalità… un’uscita dell’urbano dai suoi tradizionali confini… e contemporaneamente una grande modificazione della naturalità… di come la società contemporanea organizza e propone a se stessa il mondo naturale”. In tal senso, lo “spostamento delle ragioni del progetto dagli spazi urbani agli spazi aperti… riflette il riconoscimento di una nuova centralità, che si affianca e si alterna e si mescola alla centralità tradizionale… “. Per progettarla, occorre “pensare al di là delle geometrie tradizionali… mettere in rete e mettere in scena le risorse e le identità locali, ‘collaborare con la terra’… creando nuovi sistemi integrati - nuove architetture - più diramati e complessi”37.

 

Oltre che sui cambiamenti culturali, “Vorrei insistere anche sui cambiamenti strutturali, quelli indotti dalla globalizzazione economica, finanziaria e tecnologica che poi portano a una frammentazione degli spazi, dal momento in cui ogni luogo può collegarsi con qualunque altro luogo sulla terra” propone il geografo Giuseppe Dematteis. Questi mutamenti danno luogo a “un indebolimento generale dei legami di prossimità che davano significato all’organizzazione del territorio, ma anche alla forma dei territori, ai paesaggi: quindi… formazione di geometrie che noi percepiamo caotiche, senza un apparente rapporto né con gli ordini urbani del passato… né con gli ordini con cui ci rappresentiamo i territori naturali… geometrie instabili prive delle differenze, delle specificità, delle patrimonialità accumulate nel tempo… e soprattutto prive dell’identità che costituisce tuttora il valore della città storica”. Allora, è il parere di Dematteis, il progetto delle nuove centralità non può che ancorarsi ai territori “visti come depositi, sedimenti storici di potenzialità ereditate dal passato… come patrimonio genetico che è stato incorporato… e che ha portato il territorio a seguire cammini diversificati… [dal momento che] così come c’è un problema di conservazione della biodiversità c’è un problema della conservazione della diversità dei territori”38: è proprio questo l’obiettivo, sicuramente problematico che costituisce la sfida maggiore per il progetto.

 

Sul tema dello spazio non edificato, del suo destino, delle sue grandi potenzialità; sulle possibilità di raccordo tra il contesto di antica sedimentazione e il costruito recente che il progetto dei “vuoti” saprebbe evidenziare e mettere a frutto; sul modo di progettare nel/il paesaggio - che può essere profondamente condizionato e trasformato non soltanto dai grandi tracciati transnazionali, ma anche da un intervento di piccola entità, alla scala edilizia -, vertono gli interventi portati al convegno; a partire dal complesso monumentale di Valmarina (Paolo Belloni), nel Parco dei Colli di Bergamo che andrebbe riconnesso con una serie di accorte azioni progettuali all’area vasta cui appartiene (Roberto Spagnolo), essi illustrano storie, situazioni, proposte e interventi relativi a contesti territoriali diversi: dal progetto Alptransit Ticino - linea ferroviaria veloce che attraversa la Svizzera -, alla realizzazione di una casa nell’Isola di Paros, in Grecia (Aurelio Galfetti); dal progetto per i paesaggi costieri del Randstadt olandese (Emanuela Bartolini), alle linee di azione strategica previste per il sistema di parchi delle residenze sabaude e del verde che costituisce la “Corona di Delizie” attorno a Torino (Paolo Castelnovi); dal Piano del Parco dell’Adige, a Verona (Alessandro Tutino), alle soluzioni, interne al PGT di Bergamo per il “corridoio verde”, ovvero il parco lineare che riconnette e ridisegna i vuoti urbani della città (Bruno Gabrielli, Aurelio Galfetti).

 

Nell’ottobre del 2007 si tiene a Parma e Guastalla il Seminario ANCSA “La Gestione dei Centri storici”, che proseguendo la serie di iniziative e di confronti in corso a livello internazionale, sviluppa l’assunto secondo il quale il progetto della città e del paesaggio storico non può prescindere dal progetto di gestione delle trasformazioni territoriali, che andrebbe a sua volta ricondotto ad una strategia di governo unitaria e a una implementazione sottoposta a costante controllo nel tempo.

 

 

Il Premio Gubbio 2009 - tema proposto “Interventi sul patrimonio edilizio e/o iniziative gestionali ed organizzative nel quadro di strategie di riqualificazione di ambiti urbani o territoriali” - istituisce una Sezione Internazionale per l’America Latina e il Caribe, a sancire un rapporto di collaborazione in corso da alcuni anni con enti culturali e studiosi delle città di Buenos Aires e L’Avana.

Il Premio per la Sezione America Latina e Caribe, è assegnato a “Riqualificazione integrale del percorso ‘La Ronda’ e conservazione del Centro indigeno di Tulipe”, progettato e presentato dalla Arcadia Metropolitana di Quito (Equador), e ritenuto di grande rilevanza “per il recupero del significato abitativo originario del quartiere e dell’uso pubblico degli spazi commerciali, culturali e di servizio”.

Vincitore del Premio per la Sezione Europea è il progetto “Les abords de la Basique de Saint Denis” (France), di Franco Zagari, Jean-Louis Fulcrand, Faouzi Doukh, presentato da Plaine Commune, France e “riferimento imprescindibile per chi si occupa di progettazione degli spazi aperti nei centri storici”.

La menzione d’onore è andata rispettivamente alla Camara Municipal do Porto per il Piano di Gestione di Porto Antica, iscritta dal 1996 alla World Heritage List dell’UNESCO, e all’Oxford Preservation Trust per l’ “Oxford Castle Project” che ha convertito in albergo l’edificio medievale adibito a lungo a prigione.

Il Premio per la Sezione Nazionale è assegnato al progetto dello Spazio Vedova alle Zattere, di Renzo Piano, presentato dalla Fondazione Emilio ed Annabianca Vedova e realizzato all’interno dei Magazzini del Sale. Anche in questo caso la motivazione, enunciata da Tommaso Giura Longo riflette le posizioni dell’associazione, riferendosi ai corpi di fabbrica “restaurati con rispetto assoluto dello spazio e della matericità della preesistenza, all’interno del quale le opere accatastate sul fondo, possono scorrere su un binario centrale mediante navette dotate di bracci estensibili comandate elettronicamente che prelevano le opere per collocarle nel punto previsto”. Un felice rapporto tra preesistenze e nuove tecnologie contrassegna anche il progetto destinatario della Menzione d’onore, “Città dell’altra economia” all’ex Mattatoio di Testaccio, in Roma, ove “oltre al restauro conservativo e alla riabilitazione strutturale condotti in maniera esemplare”, l’autore, Luciano Capelloni, inventa “uno spazio ulteriore… una nuova struttura in acciaio e vetro, indipendente, ma fortemente integrata con l’esistente”.

Il Premio Giulio Carlo Argan, al quale intervengono Raffaele Panella e Paolo Desideri, è conferito a Carlo Ajmonino, prestigioso maestro dell’architettura e dell’urbanistica italiane.

 

 

Centri Storici. Gestire la trasformazione è il titolo del volume curato da Silvia Bossio e Stefano Storchi con il patrocinio della Dirección General del Casco Histórico di Buenos Aires, dell’ANCSA, e dell’Oficina del Historiador de la Ciudad de La Habana39.

Il confronto, che ha già avuto luogo attraverso le mostre e i seminari, approda così alla pubblicazione, che, pur accettando un certo grado di incompletezza, allinea esperienze di grande interesse condotte in diverse città italiane, spagnole e sudamericane40 nella convinzione che, al di là degli specifici contesti culturali, una dimensione globale relativa alle tematiche dell’intervento nel centro storico e nella città contemporanea accomuni i paesi del mondo. La lettura sintetica che viene proposta è resa omogenea dalle voci di una scheda appositamente predisposta che fa da comune layout. Questa si snoda seguendo, in parte idealmente, in parte effettivamente, le fasi di piani strategici e piani di gestione focalizzate sulla visione delle tematiche relative al centro storico, ed articola in una serie di campi preordinati i contenuti e i risultati dell’azione di governo: le forme di gestione, con le strutture operativa, le modalità, le strategie di intervento; i modelli di gestione, con i meccanismi e gli attori della concertazione; i compiti della struttura gestionale, con la definizione dei possibili scenari operativi rispetto alle aspettative e alle reazioni dei cittadini; i fattori positivi e negativi che influenzano l’attività gestionale; le risorse economiche, pubbliche e private a supporto dell’intervento; gli esiti conseguiti e gli obiettivi futuri.

Tale descrizione del processo di governo delle trasformazioni urbane rende efficace la comparazione tra i casi presentati, dando luogo a una serie di riflessioni relative alle città italiane e spagnole e alle città dell’America Latina e del Caribe; essa evidenzia, anche, i processi di frammentazione delle competenze burocratiche intervenuti in alcuni strutture amministrative che, dopo gli anni degli “uffici per i centri storici” istituiti in tante città, hanno compromesso le possibilità di gestire il territorio in modo integrato, considerando unitariamente sul piano politico e operativo, le valenze estetiche, funzionali, economiche e sociali. Il confronto consente, infine, di individuare le tante assonanze riscontrabili nelle esperienze proposte “un’analogia di problemi, a cui tuttavia sono state date risposte differenti [ma] che porta a concludere che le città e i loro centri storici affrontano interrogativi analoghi, pur in contesti assai diversi e fisicamente lontani”41.

 

Tra le ultime attività che hanno visto protagonista l’associazione, vanno segnalate: Convegno nazionale "Identità/Trasformazione” (Firenze, maggio2008), e il Convegno “Centri Storici e Città Contemporanea. Politiche pubbliche e strategie di intervento” (Palermo, febbraio 2010) curato da Teresa Cannarozzo con il CIRCES (Centro Interdipartimentale di ricerca sui centri storici dell’Università di Palermo) e il Dottorato di ricerca in Pianificazione Urbana e Territoriale. Il convegno, svolto in partenariato con l’ANCSA e l’INU, riprende e sintetizza i temi esplorati dall’associazione nella seconda metà del decennio. L’incontro è finalizzato a individuare le politiche pubbliche più idonee e le migliori strategie operative per il recupero e la rivitalizzazione delle città storiche, e focalizza l’attenzione sui concetti di identità urbana, permanenza, mutamento, innovazione, sulle problematiche economiche e sociali, sugli attori pubblici e privati protagonisti dei processi di recupero/riqualificazione e sulla qualità degli interventi progettuali

Il processo di recupero del centro storico di Palermo, del quale con Teresa Cannarozzo discutono Pierluigi Cervellati, Bernardo Rossi Doria, Giuseppe Trombino, Maurizio Carta, Giuliano Leone, è posto a confronto con casi di riutilizzazione esemplare del patrimonio edilizio storico e con interventi di riqualificazione urbana illustrati da Franco Zagari (Saint Denis, Francia), Gianluca Della Mea (Bergamo), Stefano Storchi (Parma); Francesco Gastaldi (Genova), Franco Mancuso (Venezia), Francesco Cellini (Roma).

 

 

 

 

1 Cfr. nel sito dell’associazione gli eventi di carattere generale scelti per inquadrare l’attività dell’ANCSA (www.ancsa.org). Le frasi in corsivo nel testo sono tratte dai documenti riportati sul sito, consultabili anche negli opuscoli che l’ANCSA ha pubblicato in occasione del conferimento del Premio Gubbio.

2 La questione era stata avanzata nel Seminario “La carta di Gubbio 1990: problemi e orientamenti operativi degli enti locali e territoriali”. Ferrara, 7-8 giugno 1990.

3 Gli Atti, integrati da ulteriori contributi sul tema, sono stati pubblicati a cura di A. Terranova in «Groma Quaderni» 3, 1997.

4 Ib., p. 103.

5 Ib. pp. 43-44.

6 Ib., p. 41.

7 Ib., citazioni alle pp. 9-17.

8 A. De Andreis, G. Polo( a cura di), Patrimonio del 2000. Un progetto per il territorio storico nei prossimi decenni, Atti del XII Convegno-Congresso Nazionale ANCSA, Modena, 24-26 ottobre1997, sl, sd.

9 Sarà questo il tema centrale del Convegno “Prospettive delle tematiche ANCSA e ruolo futuro dell’Associazione” che si terrà a Lucca nell’ottobre 1998.

10

11

12 Ib., citazioni alle pp. 62-63.

13 Ib., citazioni alle pp.71-73.

14 Si tratta, rispettivamente, di: Vittorio De Feo e altri, Progetto per la nuova sede dell’Amministrazione provinciale di Pordenone; M. Botta, Progetto per la sistemazione del Piazzale della Pace, a Parma.

15 Cfr. Pre-Atti del XIII Convegno-Congresso Nazionale ANCSA “Contemporaneità e identità del territorio: le sfide del 3° millennio”, Perugia, 7-8 novembre 2003.

16 La conservazione “attiva”, molto prima di essere reinventata dall’ANCSA, è un prodotto della cultura del restauro, consapevole che qualunque intervento, anche il più contenuto, modifica il suo oggetto, e che, di conseguenza, costituisce una forma di rinnovamento: in ambito accademico, ma non solo, è da tempo condiviso il concetto di conservazione come “governo delle trasformazioni”.

17 S. Carullo (a cura di a cura di), Turismo e Centri Storici nell’Italia contemporanea, Atti del Convegno di Studi, Firenze, 29 aprile 2005, Bergamo, 2005

18 Vedi anche il Convegno Internazionale “I Boschi Sacri in Europa, Valorizzazione e Salvaguardia”, Valladolid, 7-8-9 aprile - Spoleto, 13-14 maggio 2005.

19 Ib.,citazioni alle pp. 57-61.

20 S. Casini Benvenuti, ib., pp. 74-76.

21 Ib., pp.16-22

22 Ib., (pp.28-34).

23 B. Gabrielli, Premessa al Convegno, p. 8.

24 Ib., citazioni alle pp. 42-53.

25 M. Leone, ib., pp. 54-55.

26 Spazi aperti nei contesti storici, Atti del Convegno Nazionale ANCSA, Bergamo 13 maggio 2006, Bergamo 2007.

27 Ib., p. 15.

28 Ib., p. 23

31 Ib., p. 28.

30 Ib., p. 40.

31 Ib., p. 47.

32 Ib., p. 53.

33 Va segnalata, anche se esterna all’ANCSA, l’iniziativa promossa nel maggio 2008 a Roma dalle Facoltà di Architettura "Ludovico Quaroni", di Scienze della comunicazione, di Scienze umanistiche e di Studi orientali, con il convegno dal titolo “Roma, paesaggi contemporanei”, i cui atti sono stati pubblicati nel 2009 a cura di Marina Righetti, Alessandro Cosma, Roberta Cerone, e nel corso del quale, secondo ottiche disciplinari diverse, il tema della città contemporanea è stato posto a confronto con la realtà di Roma, "città eterna", ma che al tempo stesso muta sotto il profilo antropologico, architettonico, culturale, economico e mediatico. Figure di Architettura per la Città a Bolle e Crepe, è il titolo del contributo presentato da A. Terranova, Vice Presidente dell’ANCSA.

34 S. Carullo (a cura di), Geometria e natura, Atti del Convegno Nazionale ANCSA, Bergamo 13 ottobre 2007, Bergamo 2008.

35 C. Macchi Cassia, R. Gambino, “Le ragioni di un convegno”, ib., p. 9.

36 Ib., p. 24.

37 Ib. citazioni alle pp. 31-35.

38 Ib., citazioni alle pp. 39-41.

39 S. Bossio, S. Storchi (a cura di), Centri Storici. Gestire la trasformazione / Centros Historicós. Gestionar la transformación, Cremona, 2009.

40 Si tratta dei centri storici delle città di Arequipa, Asunción, Bergamo, Bogotà, Bologna, Buenos Aires, Firenze, Florianópolis, Genova, La Habana, Madrid, Malaga, Mantova, Milano, Montevideo, Napoli, Pachuca, Parma, Quito, Santa Cruz de la Sierra, Santa Tecla, Santiago de Chile, Valencia, Venezia.

41 Centri Storici. Gestire la trasformazione Centri Storici…, cit., p. 7.

Giovedì, 13 Maggio 2021 10:56

AtlasForCanavese: il progetto

13 maggio 2021 | Ivrea | webinar @ICONA

Luca Dal Pozzolo (Osservatorio Culturale del Piemonte) introduce Pietro Valentino (Direttore Economia della Cultura)
Maria Grazia Bellisario (Comitato di redazione Economia della Cultura)
Giovanni Paludi (Regione Piemonte Settore Territorio e paesaggio)
Paolo Castelnovi (Associazione culturale Landscapefor)
Renato Balestrino (Consorzio delle Residenze Reali Sabaude)
Alessandra Gallo Orsi (Direttore Castello di Agliè)
Maria Paola Azzario (Centro per l’UNESCO Torino).
Alberto Zambolin (Presidente ICONA – Ivrea)
Marco Campagnolo (Docente Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri di Ivrea)
Maria Cristina Cresto (Osteria La Sosta, Settimo Vittone)
Giorgio Gnavi (Cantine Gnavi, Caluso)

Diretta Facebook alla pagina www.facebook.com/landscapefor

Per partecipare al webinar inviare una mail di richiesta a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Dal 20 maggio la registrazione degli interventi sarà pubblicata su www.youtube.com/user/Landscapefor

UNA PREMESSA NECESSARIA

L’Italia è forse il paese al mondo che più si può giovare della tendenza a riscoprire il turismo di prossimità. Per molte ragioni i cittadini delle aree metropolitane sono spinti a esplorare il territorio nel raggio di 100/200 km. per godere di un immenso patrimonio diffuso non solo di beni ma anche di attività e iniziative locali di interesse culturale.

Raccontare i paesaggi e le mille risorse territoriali per invogliare al turismo lento e di prossimità, mettendo in vetrina le attività e i beni meno celebrati, fuori dai circuiti mainstream.

È un impegno che pare titanico, ma che diventa perseguibile se si verificano due condizioni:

a) un territorio denso di “paesaggio attivo”, cioè di soggetti che hanno elaborato cultura legata ai luoghi, hanno studiato e documentato i beni diffusi, sono impegnati in servizi di ricettività e produzioni locali di eccellenza, e infine sono disponibili a mettere a fattor comune i risultati dei loro sforzi;

b) una modalità di rappresentazione rigorosa e puntuale, ma agile nella consultazione (anche sul luogo), flessibile nella preparazione (implementabile, correggibile, traducibile), capace di raccogliere, metabolizzare ed esporre materiali diversi (in particolare iconografici): nel nostro caso Atlasfor, la mappa online e gratuita con schede multimediali di approfondimento dei beni e delle attività culturali.

*

LA SPERIMENTAZIONE AVVIATA

L’associazione Landscapefor sta sperimentando la redazione di Atlasfor assistita dagli operatori locali nel Canavese e il 13 maggio p.v. ne presenta i primi risultati in un webinar dalla sede di ICONA a Ivrea.

L’esperimento, che si è giovato di un contributo della Compagnia di San Paolo, delinea i primi tratti di un racconto dell’ambito dell’Anfiteatro Morenico e dintorni, senza approfondire per ora la zona di Ivrea e dei beni olivettiani della Lista UNESCO: vogliamo far assaggiare la ciambella lasciando vuoto il centro (già sovraesposto da molte presentazioni in occasione dell’iscrizione alla Lista del Patrimonio mondiale).

Per Atlafor Canavese si è assunto come quadro di riferimento la scheda dell’”ambito 28 Eporediese” del Piano Paesaggistico Regionale (PPR), che annovera a vario titolo oltre 200 punti di interesse (POI).

Per scegliere i POI da approfondire abbiamo coinvolto i soggetti del “paesaggio attivo” locale (istituzionali e non), proponendo loro di metterci a disposizione i materiali documentari che avevano già elaborato.

Sono i materiali che, opportunamente integrati ed editati, hanno permesso ad oggi di popolare la mappa dell’ambito in Atlasfor con oltre 50 schede di punti di interesse, e altrettante sono in preparazione.

Inoltre la mappa è arricchita con una quarantina di schede rivolte a documentare i soggetti stessi del “paesaggio attivo” che hanno risposto alla call: dagli ecomusei alle associazioni locali, dalle imprese agricole e artigianali segnalate ai gruppi produttori di performing art, dalle scuole attive sul territorio alla ricettività d’eccellenza per tradizione o innovazione.

L’esperimento condotto sino ad ora costituisce quindi l’avvio di un processo che nel Canavese dovrebbe continuare, con i materiali disponibili anche di altre zone (tra cui Ivrea) in modo autonomo e sostenibile, e costi limitatissimi per i soggetti interessati.

Si tratta di un processo replicabile in altri territori con analoga densità di soggetti e di patrimonio culturale, purché comunque si verifichi una capacità di investimento iniziale in termini di:

_finanziamento per affrontare il lavoro complesso di superamento dell’inerzia iniziale, con il coinvolgimento del Paesaggio attivo locale, la formazione di giovani collaboratori per l’edizione delle prime schede (nel Canavese è valso in parte il contributo di Compagnia di San Paolo),

_collaborazione con stakeholder locali capaci di innescare il passaparola e arricchire l’indirizzario dei soggetti interessati (nel Canavese è valso il Club per l’UNESCO di Ivrea).

Estratto da Atlasfor: ambito di progetto: le icone individuano le differenti tipologie dei Punti di interesse

TERRITORIO-LABORATORIO

Il Canavese è un territorio perfetto per interessare il turista curioso, contando ad esempio su bacini metropolitani entro 200 km. con oltre 8 milioni di potenziali fruitori (Genova, Torino, Milano, Ginevra…). Che sia solitario o in gruppo, studente in viaggio didattico o studioso di aspetti specifici, il turista culturale è sempre intrigato da itinerari ricchi di punti di interesse (apparentemente) minori e di paesaggi gradevoli lungo il tragitto, da percorrere lentamente, a piedi, in bici, o in auto su strade quiete.

Come si vede dalla mappa di Atlasfor gli oltre 20 comuni che stanno partecipando al progetto si addensano lungo le vie storiche:

la via Francigena ( o Romea , a seconda del capo a cui si riferisce), che attraversa l’ambito da Carema a Viverone, ai piedi della lato nord della Serra)

la connessione tra Ivrea e Torino, almeno fino a Mazzè

la strada della tranvia novecentesca tra Castellamonte e Ivrea

i percorsi esterni alla Serra lungo il Canale di Caluso, tra Castellamonte e Caluso.

Sono queste le fasce territoriali che sin da oggi si vogliono presentare al turista con Atlasfor Canavese, grazie all’enorme mole di materiale già predisposto dalle mille iniziative locali, per lo più di volontariato o sostenute a malapena dai modesti fondi dei Comuni. Si tratta di materiale che non riesce a raggiungere la visibilità presso il target turistico metropolitano, perché troppo polverizzato, facile ad invecchiare, irraggiungibile se non da quelli che già conoscono il territorio.

L’inserimento in AtlasFor di queste documentazioni, opportunamente riedite e organizzate, sempre citate nelle fonti, consente invece di avere a disposizione una mappa ricca di suggerimenti particolari e spesso inediti, facilmente implementabile con nuovi contributi e segnalazioni di nuove iniziative, adatta al vagabondaggio curioso che caratterizza le esplorazioni del turista metropolitano.

ESITI E PROSPETTIVE

Supporto per lo sviluppo locale

La predisposizione di un quadro ordinato delle risorse locali di interesse culturale in senso lato – senza i limiti soffocanti della dimensione territoriale comunale o del soggetto solo pubblico o solo privato – come quello offerto da Atlasfor Canavese, favorisce l’adozione di strategie integrate di offerta di mete e di servizi per il turismo: un ingrediente importante dei programmi di sviluppo locale in questo tipo di territori, necessitanti di capacità di visione a scala sovracomunale e di una visibilità a scala sovraregionale.

Ma non si tratta di un’offerta per il turismo fine a se stessa: bisogna tener conto delle potenzialità di questi territori di offrirsi, una volta conosciuti e apprezzati nelle loro minute situazioni locali, a chi voglia abitare in migliori condizioni ambientali e paesaggistiche, sfruttando l’onda dello smart working. È evidente che questa prospettiva epocale di attrattività per nuovi abitanti, di grande interesse per ambiti a pieno titolo rientranti nella sfera delle città metropolitane, trova nel Canavese un fascino particolare, non essendosi ancora spenta l’eco del modello di Comunità olivettiana, che precorreva i termini dell’abitare in una città diffusa e qualificata in un sistema misto rurale e urbano.

Perciò è fondamentale fornire quadri più completi possibile dell’offerta territoriale e quindi Atlasfor, superata la fase sperimentale necessariamente parziale, ambisce a presentarsi come un hub complessivo per le attività di interesse culturale a tutto campo e in una dimensione aperta e integrata.

In questo senso diventa importante poter ospitare nella mappa le citazioni di ogni iniziativa nell’area, ovviamente riconoscendone l’autonomia complessiva e rinviando sistematicamente ai siti che gestiscono le reti e i servizi degli operatori che ad essi aderiscono. Ciò vale sia per gli studi di settore o di luogo, come quelli avviati dalla bella ricerca promossa da Compagnia di San Paolo (presentata pochi giorni fa dal gruppo di lavoro coordinato da Anna Marson), sia per i siti di e-commerce e di servizi a pagamento di incoming (come quelli avviati recentemente dalla piattaforma visitcanavese.it) .

Formazione di reti di operatori

Troppo spesso lodevoli iniziative di promozione dei beni e delle attività di interesse culturale locali muoiono per i’isolamento in cui si svolgono, che impedisce alle azioni di volontariato o con modesti investimenti di superare la soglia di visibilità e di durata necessarie per essere riconosciute e apprezzate. La mancanza di reti di progettazione comune affossa ogni iniziativa per un turismo diffuso e sostenibile, e nel Canavese si è riscontrata in molti casi, spesso anche quando notevoli sforzi di attivare reti non hanno raggiunto la soglia o la durata sufficienti.

Obiettivo non secondario della sperimentazione di Atlasfor Canavese è quella di consolidare esperienze di iniziative comuni a più soggetti, di libera adesione ma verificate nei loro effetti positivi d’insieme, in modo da facilitare la predisposizione di soggetti collettivi, indispensabili ad esempio per partecipare ai bandi di prossima edizione.

In questo senso sono rilevanti le reti asimmetriche, come quelle in cui un elemento rilevante (come ad esempio il Castello di Agliè) si offrono al territorio come beni-faro per fare da trainer a tutte le iniziative locali, e d’altra parte, rinforzano il ruolo di reti sovralocali di grande attrattività, che spesso sono realizzate solo virtualmente, mancando di effettivi collegamenti territoriali (come avviene ad Agliè, parte del sistema delle Residenze Sabaude, bene seriale UNESCO, ma di fatto isolata dal sistema delle residenze più vicine a Torino).

D’altra parte l’emergenza pandemica ha certamente fatto segnare il passo a molte iniziative locali e richiede per altro servizi che spesso gli operatori minori non sono in grado di sopportare (come la segnalazione delle iniziative e delle offerte di prodotti, o la prenotazione delle visite o della ricettività).

Una rete di offerta efficace come quella che vogliamo attivare con Atlasfor Canavese non può essere discontinua in questo tipo di servizi minimali.

Quindi Atlasfor è attrezzato per un servizio elementare di in questo senso, utile soprattutto per le iniziative di volontariato o di piccola dimensione, che non hanno interesse a partecipare ai siti appositamente attrezzati per le varie forme di e-commerce già presenti in zona.

Palestra per giovani interessati

Le prospettive di sviluppo locale, nutrite da strategie di offerta per il turismo culturale, aprono a posti di lavoro non solo nei servizi di ricettività ma anche nei ruoli organizzativi che chiedono competenze per i beni culturali e del cultural management, che in prospettiva sempre più saranno contaminate con le strategie di offerta turistica, soprattutto dove il turismo di prossimità riveste particolare importanza.

In questo senso gli esperimenti sino ad ora condotti con Atlasfor (non solo nel Canavese, ma anche a nel torinese e a Genova) con le scuole, l’università e i corsi di III livello, hanno riscontrato un crescente interesse degli studenti ad apprendere competenze nel settore della ricerca operativa di materiali documentari, elaborazione di testi e di immagini, organizzazione di data base e di reti di operatori, promozione turistica attraverso le attività di Atlasfor. L’occasione di Atlasfor Canavese lascia intravvedere la prospettiva di lasciare sul territorio, attraverso la costruzione dell’atlante, non solo reti affidabili di operatori, ma anche giovani radicati sul territorio con competenze per gestirne l’offerta e l’evoluzione nel crescente mercato del turismo culturale.

Adeguamento al Piano paesaggistico

L’esperimento di Atlasfor offre l’occasione ai sindaci (in particolare nei comuni minori) di verificare la presenza di beni di interesse culturale e paesaggistico nel proprio territorio non come un vincolo ma come una risorsa, la cui tutela e valorizzazione sono implicite in ogni programma di sviluppo.

Un completamento di Atlasfor, che renda merito a tutti gli aspetti segnalati del PPR e li collochi nella giusta prospettiva di valorizzazione, può essere posto alla base della procedura tecnico-amministrativa di adeguamento dei Piani regolatori comunali, fornendo una buona base di partenza per la discussione pubblica del Piano e i rapporti con gli uffici regionali competenti in materia.

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