Introduzione
Il gruppo di lavoro formato da Gianluca Cepollaro, Jacopo Albasini (montagna), Umberto Anesi (governo del territorio), Serena Curti (cultura) e Ilaria Perusin e Paola Flor (paesaggio), e Maddalena Pellizzari (turismo-Dolomiti), ha incontrato Paolo Castelnovi per approfondire le riflessioni avviate nei mesi invernali sul tema di “ri-abitare la montagna”.
Al centro dei ragionamenti si pone l’abitare lo spazio alpino come un’opportunità, slegata dai limiti che l’ambiente montano impone e dalle ideologie che lo insidiano. Seguendo questo tragitto è emersa la necessità di esaminare tre vertici tematici che interessano trasversalmente le varie attività formative portate avanti dai singoli componenti del gruppo:
- la montagna;
- la salute e il benessere;
- la cultura.
Attraverso la messa in tensione di questi vertici, si vuole tentare di verificare l’idea che i luoghi di montagna, caratterizzati da un’alta qualità ambientale, culturale e sociale, possono garantire il benessere individuale e collettivo. Dalla formulazione di questa ipotesi emerge che il tema è insidiato da una serie di ambiguità legate all’individuazione delle condizioni favorevoli per un’alta vivibilità in montagna.
Paolo Castelnovi. Abitare la montagna abitare il mondo.
La montagna impone tre paradigmi, utili per abitare il mondo: tempo, spazio e relazione. Pensare che abitare la montagna significhi in qualche modo abitare il mondo è una prospettiva ricca di suggestioni, in particolare se viene letta attraverso le dimensioni del tempo e dello spazio, in una istanza non-localistica che tenta di ampliare lo sguarda quando si affronta il tema della preferibilità del vivere in alta quota. Lo spazio alpino infatti non offre condizioni territoriali particolarmente favorevoli che rendono la vita una questione semplice da affrontare. In questo senso, semplificazioni ri-abitative, come quelle dell’offerta di case a basso prezzo (case a 1 Euro) per stimolare il ripopolamento di aree marginali, giocando sulla constatazione che in montagna si respira aria buona, scoprono il fianco a numerose problematiche e critiche. Affrontare invece il tema attraverso la variabile “tempo”, inteso non come tempo breve ma profondo, e la variabile “spazio”, inteso non come spazio di prossimità bensì allargato, permette di alzare il livello della discussione.
TEMPO. Il nostro è solo uno delle migliaia di tempi del mondo, e in montagna certamente è meno importante di molti altri, ad esempio di quello delle acque (che segue quello del clima), di quello della vegetazione e del suolo fertile (che segue quello delle acque), di quello ciclico delle stagioni, per non parlare dei tempi più geologici. Sono quasi tutti tempi che hanno ritmi più lenti dei nostri. Facciamo l’effetto commovente degli uccellini, che quando li prendiamo in mano ne sentiamo il cuore battere a mille e capiamo la loro fragilità. Ne consegue la necessità di una messa a registro del nostro orologio su altri orologi più determinanti, e inoltre, agli effetti pratici, la necessità di inserire i progetti e le scelte fondamentali relative alla trasformazione in tempi lunghi. Nel nostro progettare dovremmo sempre ricordare le regole della salita: passo lento, lungo, costante.
Sicuramente i tempi della montagna sono “dis-umani” e per quanto riguarda i nostri progetti, ci stimolano a prendere la misura della nostra piccolezza, a calmare la superbia, a ottimizzare le nostre forze, a seguire piccoli progetti, a riconoscere che i risultati sono spesso diversi dalle attese. In pianura dove è semplice piegare l’ambiente a quello che vogliamo, è può facile chi i risultati del progetto coincidano con le premesse. In montagna, luogo particolarmente fragile, gli esiti spesso sono non prevedibili.
SPAZIO. Ciò che siamo abituati a chiamare “il contesto” è invece il “testo”. Progettazione è contesto. Il requisito minimo che viene dato a chi si abitua a lavorare in termini progettuali è che il progetto è un prolungamento del progettista, è un potenziamento delle sue capacità. Quindi, nel momento in cui si opera in termini progettuali, si tende a considerare erroneamente che noi e il nostro progetto siamo al centro della scena in cui stiamo recitando. Il resto è contesto. Questa tendenza è dentro il DNA motivazionale della persona che progetta e che tende ad affermare la sua progettazione. Nella pratica dei progettisti di costruzioni lo si vede spesso quando tentano di costruire la loro opera, ma in realtà si tratta di un peccato di superbia che rende inutile, talvolta dannoso, il progetto stesso. Nella montagna il contesto, ossia il fatto che ci troviamo immersi in un ambiente così duro e così autonomo, rende più facile capire che quello su cui si sta agendo rappresenta il vero risultato del lavoro. È l’insieme che emergerà nel tempo dall’ambiente su cui si agisce con il progetto, per coloro che vivranno quel luogo successivamente, ad essere rilevante. Affermare allora che verremo giudicati solo per quello che abbiamo fatto, non è corretto, perché verremo giudicati anche sugli effetti di quello che abbiamo fatto rispetto all’insieme complessivo. I giudici, infatti, non guardano quello che è stato fatto singolarmente, ma lo mettono in relazione sempre all’insieme. All’interno di un paesaggio, ad esempio, non conta una particolare opera realizzata in un determinato momento, ma conta l’insieme in cui l’opera è inserita. L’architetto pecca di superbia quando crede che la sua opera sia posta al centro del mondo, che tutto l’insieme del contesto venga ridotto a sfondo glorificante del testo che lui ha disegnato (progettato). La montagna, a seguito di questa riflessione, davvero insegna, perché ci pone davanti un contesto assolutamente padrone in cui il nostro agire rientra in un processo molto più ampio e lento di modificazione progressiva dove qualsiasi azione prometeica soccombe di fronte alle forze in campo. Nel nostro puerile mondo narcisistico crediamo che ci tocchi scegliere un punto e modificarlo o semplicemente metterlo al centro dell’attenzione perché quello diventi il segno del nostro operato e che tutto il mondo giri attorno. Al contrario non c’è comprensione e non c’è progetto di azione se non a partire dal fatto che con le nostre presenze e azioni si capisce e si modifica un insieme che per il 99% rimane inalterato: la nostra potenza di trasformazione puntuale si scioglie in un grandissimo metabolismo complessivo, rispetto al quale sarà medicina omeopatica o viceversa corpo estraneo da espellere come un batterio. Mai centro vitale di trasformazione: Prometeo in montagna perde e le aquile ne mangiano il cuore.
RELAZIONE. In montagna il rapporto comunitario è costretto e non è scelto, è dovuto dalle condizioni. La comunità tradizionale in montagna è frutto di una condizione costrittiva e di una ricerca di fragile equilibrio che ha come controparte la rinuncia o la limitazione della libertà individuale. L’iniziativa delle case a un euro è frutto di un processo di neo-colonizzazione delle zone marginali che va considerato in rapporto al fenomeno dell’abbandono che lo ha preceduto. L’abbandono delle aree alpine, infatti, ha provocato la dissoluzione della comunità che aveva per lungo tempo dato un senso alla relazione tra individuo e montagna. Quella comunità, che ha rappresentato la mediazione tra progetti individuali, trasformati in collettivi, e contesto montano, nel momento in cui si è dissolta, ha generato un cortocircuito tra il singolo e il suo spazio di vita. Bisogna pertanto rinunciare a pensare che i rapporti sociali siano in grado di risolvere i conflitti insiti nel contesto montano: nella neo-colonizzazione le nuove generazioni non potranno contare su questo elemento come strumento per mediare con la montagna. Questa mancanza è stata generata anche dall’enfatizzazione che le nuove generazioni hanno dato alla libertà individuale come base per realizzare i propri progetti di vita. Oggi, il rapporto uomo-ambiente è diventato un rapporto di carattere principalmente privato che riguarda le scelte individuali. Pertanto nella situazione odierna della montagna abbandonata, la nuova colonizzazione non può che configurarsi come eremitaggio, speculazione, comunità mancante. Il rapporto con l’ambiente è individuale (dove per individuo si disegna l’unità di missione, che per gli umani può essere, oltre al singolo, la famiglia, il piccolo gruppo). I motivi di relazione con l’ambiente montano sono così profondi e intimi da non poter essere condivisi socialmente. Ne consegue che le necessarie, indispensabili, relazioni culturali e politiche su cui si basa il consorzio umano non possono essere l’elemento vincolante e produttivo di grandi progetti comuni (come ad esempio accade per la città). In montagna non ci sono città perché il patto fra uomini è subalterno al patto tra il singolo e l’ambiente. Agli effetti pratici è evidente la necessità di tarare i progetti sulle autonomie e indipendenze individuali e di piccolo gruppo. Il comune sentire esiste solo come accordo temporaneo tra qualche decina di sentimenti individuali.
Opinioni a confronto
A seguito delle riflessioni proposte da Paolo Castelnovi si apre ad un confronto partendo da alcune domande legate a come combinare i tre paradigmi utili per abitare montagna e mondo (tempo, spazio e relazione) con la relazione tra le tre componenti cultura-montagna-cura/benessere oggetto della ricerca del gruppo.
- Come si inserisce all’interno di questa riflessione, il tema della salute individuale, vista non come assenza di malattia ma come stato di benessere bio-psico-sociale? Se, infatti, come si è detto, il progetto è parte del contesto e dell’ambiente in cui si colloca, allora anche un ragionamento sulla salute individuale nel contesto montano deve tenere in considerazione non solo l’elemento sociale man anche quello ambientale che influenza la salute dell’individuo. Ogni questione ambientalista avviata negli ultimi periodi dovrebbe uscire da complesso di colpa con cui si tende ad affrontare il nostro rapporto con l’ambiente; concetto di colpa, tra l’altro, che ritroviamo alla base della religione cristiana ed ebraica. Il punto di arrivo dovrebbe essere quello di comprendere che il benessere che ci sta attorno è la nostra libertà. Questo punto di arrivo è stato raggiunto in primis dalle filosofie orientali. Quando il sistema (il contesto) è sostenibile (autonomo), allora l’individuo che se ne è fatto carico, può considerarsi libero. Questa idea trova riscontro in natura: l’uomo in quanto mammifero si prende cura della propria prole fino a quando non raggiunge l’indipendenza. La nostra libertà avviene nel momento in cui coloro di cui ci siamo presi cura sono diventati autonomi. Se questo tipo di rapporto e questa idea di cura si applicano anche al contesto, allora un contesto sano (sostenibile) vuol dire maggiore libertà individuale: più il contesto (l’ambiente) ha una sua autonomia, meno sono impegnato a curare situazioni di malessere.
- Sembra che il pensiero orientale sia arrivato a determinate conclusioni sul rapporto e la co-implicazione tra salute individuale, benessere ambientale, cura del contesto che il pensiero occidentale non ha saputo affrontare in pieno il tema, scegliendo una strada diversa; si pensi, ad esempio al concetto di colpa della tradizione giudaico-cristiana. Rimane quindi solo la via “orientale” per declinare la relazione tra benessere del contesto e salute individuale? Questa questione si gioca all’interno dell’idea di limite fissato e limite da oltrepassare. Richiama, inoltre, il tema dei confini, più o meno porosi, tra culture. È vero che andare a prendere a prestito concetti di altre culture è un lavoro difficile, così come ogni traduzione risulta sempre complessa, però è anche verso che alcuni ragionamenti del pensiero orientale possono diventare fonte di ispirazione e accrescimento.
- Ci sono una serie di stereotipi legati alla montagna, quando si parla di salute e benessere, soprattutto ad un mondo alpino fittizio abitato da una comunità ideale. Uscire fuori da questi stereotipi però non significa demonizzare la comunità montana in quanto tale ma prendere atto che essa è frutto di una situazione costrittiva di contesto che ha trovato sostenibilità in rapporto con l’ambiente, trovando una situazione di equilibrio grazie a un patto di non belligeranza tra uomo e montagna. Questo “stare sostenibile” paga il prezzo di una forte limitazione della libertà individuale perché per tenere in equilibrio il sistema bisogna impegnarsi collettivamente. Quello che conta è comprendere la necessità di rinunciare all’idea che solo i rapporti sociali e i progetti collettivi costituiscono il paradigma di riferimento per risolvere i problemi di contesto.
- Tempo lungo e tempo lento della montagna, si contrappongono alle esigenze contemporanee, sia individuali che politiche, di risposte immediate. Molte decisioni vanno prese affinché abbiano ricadute sul breve termine. Sulla progettazione invece, è fondamentale la lettura del paesaggio e del contesto che richiede una visione di insieme, oltre agli aspetti fisici, e che prenda in considerazione tanti ambiti tra cui la formazione e l’educazione. Progetto, contesto, lettura, educazione, formazione: questi processi vanno accompagnati sul territorio, ma da chi? Chi è l’attore: l’eremita, il nuovo abitante venuto dalla città o il nativo? Quanto conta il ruolo dell’equilibrio in contesti fragili come quelli montani? Cultura, paesaggio e azione di governo del territorio rappresentano una relazione forte all’interno della quale dobbiamo muoverci. Tutti questi aspetti sono collegati e il ruolo dell’equilibrio nei contesti fragili di montagna è decisivo. Tuttavia in una situazione, come quella attuale, in cui si avverte la mancanza di strategie, emerge come un problema la connessione tra una direzione collettiva e le scelte individuali. Viviamo in un’epoca in cui siamo eredi senza direzione di marcia, soprattutto per quanto riguarda la cultura e l’architettura, mentre va meglio per le scienze ambientali. La connessione tra cultura (sede del progetto) e azioni progettuali stabilisce la cornice all’interno della quale avviene la ricerca dell’equilibrio.