E’ una sensibilità analoga al dolore del vedovo, per antonomasia intensissimo e brevissimo, e poi tutti a re-immergerci nei nostri insostenibili problemi quotidiani, sullo sfondo l’inconfessabile indifferenza di chi non è toccato dalla mano sinistra di Dio. Di fronte all’evento ci domina il desiderio segreto di poter espungere il disastro dall’orizzonte delle cose prevedibili, di non pensare neppure di farvi fronte, come non lo si pensa per la morte, in modo da poterci rifugiare in un finto stupore quando accade e possiamo fingere impreparati. E’ una rimozione del problema, che ci fa accettare che siano tutti assolti, che l’assicurazione non paghi: ci dimentichiamo che è scritto piccolo piccolo in nota, che le catastrofi naturali non rientrano....
Ma non c’è rimozione che tenga quando, come ora, il cambiamento climatico promette una reiterazione e una diffusione delle catastrofi che si imporranno come presenza reale nella vita ordinaria di tutti. Ormai dobbiamo prendere misure non solo tecniche ed economiche, ma sociali, culturali e psicologiche per minimizzare il trauma e convivere con la “normalità delle catastrofi”.
Dovremmo saperlo, perché tutta la saggezza del passato, da “aspetta l’inaspettato” a “estote parati”, ci ricorda che l’unica sicurezza è saper fronteggiare le situazioni di insicurezza.
Le ultime generazioni invece hanno rivendicato il diritto alla sicurezza come fosse un atto dovuto, un servizio di base che spetta a chi ritiene di aver soggiogato alle proprie pigrizie le forze ctonie del mondo.
Ovviamente ci siamo truffati da soli, ci siamo creati un Truman Show securizzante, in cui si trova il modo individuale di aggirare le difficoltà, abbiamo evitato ogni scontro con le situazioni che ci potrebbero imporre adattamenti faticosi e collettivi, preferendo rinunciare alle imprese sognate da ragazzi piuttosto che alle comodità di un trantran sempre uguale.
Questa ossessione di evitare i cambiamenti è un cambiamento epocale, maturato da tempo ma che produce effetti solo nel nuovo millennio e in particolare negli ultimi dieci anni, dalla rinuncia al lavoro scomodo alla fuga dalle aree interne, dal rifiuto dei nuovi arrivati all’inverno demografico.
E’ un mood che pervade tutta l’Italia, a cui ci stiamo abituando, tanto che ci stupiamo se si fronte a una sfida come la pandemia reagiamo bene, mostrando una resilienza di popolo inaspettata.
Ma chi era commosso dalla disciplina e dalla disponibilità di un intero paese a rallentare il proprio ritmo fin quasi a fermarsi, trovava sempre la provocazione cinica: facile, se sei un gregge di pecoroni, che obbediscono a qualsiasi comando di stare fermo, di non lavorare e non andare a scuola....
Invece oggi, in Romagna, assistiamo a qualcosa di diverso: non solo si affronta attivamente una situazione grave, ma lo si fa con un piglio, una grinta, un’allegria di naufragi (come titolava Ungaretti) che risuona in modo del tutto diverso dalla rassegnazione e dalla noia che invece trasuda nei giorni sempre uguali.
E’ un disciplinato formicaio anarchico che scrosta il fango e restituisce senso alle cose, vuota le case e si mette a progettare subito come riabitarle, relaziona al sindaco della frana ennesima e trova il modo di salvare gli animali isolati. Poche lacrime, molti canti.
E’ ovvio che un conto è un’alluvione e un conto è un terremoto, ma anche di fronte al terremoto del 2012, nel modenese, c’è stata la stessa reazione, ed è durata negli anni sino a ricucire ogni ferita.
Piace interpretare questo modo diverso come un segno di primavera, di qualcosa di nuovo (anzi d’antico, direbbe Pascoli), che rimanda agli angeli del fango delle alluvioni di Alessandria, Trino, Genova e su e su fino a Firenze e Venezia del 1966. Stessa assenza di disperazione, stessa fiducia di farcela, tutti insieme, dove i tutti insieme sono un nuovo soggetto identitario: quelli che si sono presi cura di quel luogo disastrato.
Piace credere che la sicurezza della ripresa, evidente in tutte le facce stanche di questa moltitudine di sfangatori, deriva dal fatto che sono certi della forza del loro territorio. Sanno che quel paesaggio, oggi assolato ma ieri avvelenato, è un pezzo del loro corpo sociale e culturale, è la risorsa vitale che li accompagna da prima e li ospiterà anche dopo, indefinitivamente: è più loro di loro stessi. E quindi con quei luoghi malconci ci si comporta come ciascuno fa con il proprio corpo, quando è malato: lo si accudisce e ci si attiva per la guarigione.
E’ emerso, in quel fango, quello che da anni chiamiamo paesaggio attivo: la comunità generata dall’atto della cura per la propria casa, la forza che unisce chi abita consapevolmente al luogo che abita.
La Romagna, dopo mezzo secolo in cui ci ha dato lezioni di economia sostenibile dimostrando che si può offrire il proprio territorio ai visitatori senza consumarlo, ma al contrario valorizzandolo, si appresta oggi a dimostrare la resilienza del territorio ammalato quando è “voluto bene” dalla comunità abitante. E’ un segno di primavera, di un trend che svela nuove (o antiche e risvegliate) forze, nuove modalità di catalizzazione tra abitanti e luoghi, cioè nuovi potenti paesaggi attivi, a formare una sorta di grandi comunità patrimoniali (come le definisce la Convenzione di Faro). Forse assistiamo alla nascita di nuovi soggetti politici, ben più tenaci di quelli che pensiamo siano plasmati dai conti e dalle fatiche.