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Dopo le comunità locali: una territorializzazione postmoderna

  Lunedì 8 luglio 2024, dalle ore 9.30 alle ore 12.00, iniziano gli incontri in presenza e online di Fondazione Landscapefor.

Occasione delll’incontro è l’approfondimento sul tema delle prospettive di progetto locale in situazioni di comunità “deboli” o “inesistenti”. 

L’incontro si svolge a Genova nella sede locale della Fondazione.  
Questo il link per chi si collega da remoto:
https://unito.webex.com/dopolecomunitalocali

Il testo che segue - già presentato in occasioni pubbliche nel periodo aprile-giugno - riporta in dettaglio contenuti che saranno affrontati e discussi nel corso dell’incontro.

 

 

Paolo Castelnovi – Aprile 2024

  1. Dinamiche socioculturali complesse

Noi territorialisti abbiamo interpretato la Storia come susseguirsi di fasi di un respiro sovrumano (o almeno prevaricatore delle volontà personali) che ora avvicina e ora allontana gli abitanti dai luoghi da abitare.

Ma nel nostro tempo, nei cinquant’anni di elaborazione di questa sontuosa metafora del vivere in Terra, siamo stati testimoni solo di un gigantesco, eccezionale processo di deterritorializzazione globale. Con ritmi diversi secondo i decenni e le regioni, abbiamo assistito a un ininterrotto fluire dalle campagne alle città, dalle montagne alla pianura, da comunità abitanti a individui senza relazioni di prossimità.

Ora, mentre si prospetta una gigantesca migrazione da “lemming” di interi continenti, nella dimensione europea l’urbanizzazione accenna a finire (soprattutto perché i serbatoi territoriali sono quasi vuoti), e noi, che crediamo in un sano metabolismo del nostro mondo, siamo ansiosi di riconoscere i segni dell’inversione del processo, il “ritorno alla Terra” europeo, che il nostro credo territorialista ci profetizza imminente.

È un fenomeno di cui nessuno delle nostre generazioni ha mai avuto esperienza e che quindi si presta ad essere immaginato in forme retoriche. Fantasmi biblici e desideri di revanche ci spingono a considerare come eroico ritorno ogni ragazzo che riprende le produzioni contadine del nonno e ogni nuova occupazione di case rurali abbandonate.

In realtà il futuro, anche se molto probabilmente sarà segnato da una fase di territorializzazione significativa, certamente non riprodurrà nei rapporti territoriali i caratteri strutturali del passato e non tenderà a generare automaticamente le stesse dinamiche sociali, politiche, economiche.

Di certo non sarà culturalmente un “ritorno” alla ruralità che conosciamo e alle sue dinamiche comunitarie, e possiamo solo prevedere che sarà alimentato da un nuovo e diverso approccio allo spazio e al tempo, meno concentrato ma anche meno astratto di quello urbano.

 

A queste considerazioni si arriva facilmente, se ci basiamo su alcune deduzioni “braudeliane” elementari, a partire dalla situazione complessa del nostro tempo. In estrema sintesi:

 

  1. Il caos fecondo della fase neutra. Come nel succedersi tra il Niño e la Niña nella meteorologia del Pacifico ci sono periodi di “neutralità” climatica, così l’inversione del processo di deterritorializzazione del XX secolo avrà un periodo di compresenza di deboli tendenze in entrambi i sensi, prima di sfociare in un più intenso flusso di territorializzazione, spinto dall’insostenibilità delle città.

Insomma è evidente che una situazione di concomitanza di spinte da e verso il territorio non urbano sia appena iniziata e duri almeno per alcuni decenni. Infatti verifichiamo spinte compresenti nell’uso fisico del territorio: da una parte saranno ancora forti le dinamiche che spingono alle città, considerate miticamente come il luogo di mille occasioni di miglioramento personale; e dall'altra si svilupperanno sempre più esperienze di efficienza rurale, sempre più accreditate per soddisfare la domanda di servizi alimentari, culturali ed ecosistemici delle città in debito di natura. E ancora, nel comportamento degli abitanti: da una parte in molte metropoli si andranno qualificando ambiti di paesaggio urbano inducendo un radicamento crescente anche fuori dalle ZTL, anche in certe periferie che avevano ferocemente ospitato come CIE intere generazioni di immigrati spaesati; ma dall'altra questa dinamica sarà compresente con l’abbandono irreversibile di interi ambiti montani dove lo spopolamento provocherà un ricambio totale della società abitante, non solo nelle persone ma anche delle strutture immateriali, economiche e culturali che da secoli la sostenevano.

In questa sorta di interfase caotica, almeno una generazione in Europa non subirà una sola driving force travolgente, come è successo sinora per l’urbanizzazione, ma sarà spinta in direzioni diverse da altre dinamiche locali. In quella tempesta, ciascuno sarà paradossalmente più libero di adesso a intraprendere un proprio modo di abitare, ma anche sarà più solo nella sua impresa, avrà meno riferimenti e modelli, dato l’indebolimento sia del modello urbano che di quello rurale.

 

  1. Cultura e valori da cittadino. I processi urbanizzativi e di pianurizzazione in Europa sono massicci almeno dal secondo dopoguerra. Il risultato è che ormai nella grande maggioranza siamo cittadini da almeno tre generazioni. Se la massa dei migranti nelle grandi città della seconda metà del '900 era contadina, oggi solo il 10/15% dei millennials ha avuto contatti familiari diretti con il mondo rurale e in ogni caso pochissimi sviluppano una coscienza di sé legata precipuamente a luoghi identitari non urbani.

Se la città non si preoccupa di produrre una “coscienza di luogo”, anche la Scuola e la tecnologia digitale fanno di tutto per omologare una cultura egualitaria, senza riferimento differenziale non solo ai luoghi, ai loro saperi e alle loro radici ma neppure a tutti gli aspetti identitari dell’esperienza diretta che sinora erano spiegati con riferimento al proprio gruppo socioculturale locale.

Sia chiaro: nulla contro la sacrosanta battaglia per evitare che differenze qualsiasi riducano l’universalità dei diritti fondamentali, ma è una debolezza manifesta del nostro tempo che le competenze, i gusti, le imprese condivise siano sempre più trascurate a favore di quelle individuali, che perseguono standard performativi astratti, generalizzati. Insomma ormai ciascuno di noi pensa e sceglie con valori, attenzioni e criteri generati dalla prevalenza sistematica dell’ecosistema urbano degli ultimi cento anni: generalisti, ideologici, poco connessi a luoghi o a comunità, con orizzonti brevi e incapacità di gestire progetti di lunga durata. Con queste premesse è chiaro: anche il rifiuto della città, che anima sempre più spesso i giovani, è un prodotto della cultura urbana, individualizzante e più ideologica che concreta, e chi andrà ad abitare la montagna abbandonata non sarà abituato ad essere coinvolto da luoghi o da comunità che lo accolgono.

 

  1. Scompare l’habitat delle comunità. Dunque in ogni caso i valori del mondo rurale, compreso il senso di comunità, non sono conosciuti dal vivo o comunque non sono quelli che spontaneamente concrescono con i più giovani: non sono il loro contesto.

Ne fa le spese l’idea di “comunità”: quel residuo di cultura della comunità operante, non solo controllante, che la gloriosa tradizione dei Comuni aveva portato a segno distintivo della storia italiana, si è dissolto proprio nella dimensione urbana in cui era nato. Nelle città si sono perse le occasioni della modernità in cui poteva ricostituirsi una aggregazione comunitaria, a partire da comuni condizioni di disagio, come nelle fabbriche fordiste o nei ghetti delle periferie appena costruite. Dalle città escono individui, ingenui (nel senso di proprio del non sentirsi appartenenti ad un genus, una stirpe) abituati più alla competizione che non alla cooperazione, che investono più sull’identità personale che sull’impresa comune. Ma anche fuori dalle città le dinamiche di comunità vanno scomparendo, non solo per l’assottigliarsi dei nuclei abitanti ma anche per il venir meno delle ragioni di operatività comune: il lavoro contadino largamente meccanizzato si individualizza; la manutenzione degli equilibri con la Natura nelle pratiche ordinarie si perde; la cura e l’uso dei beni comuni (l’acqua, il bosco, il pascolo, i depositi), quando li si ricorda, si delegano alle istituzioni.

Si formano ancora, e non solo nel mondo rurale, comunità reazionarie, nel senso concreto del termine, di abitanti aggregati da una reazione contro un comune nemico potente, che altera il territorio e il paesaggio, che inquina, che chiude le fonti di lavoro, che depreda il bene comune. Fermo il ruolo politico delle battaglie, spesso vinte, va comunque sottolineato che le comunità reazionarie finiscono per dipendere dall’esistenza del nemico, con una debolezza intrinseca che sta proprio nella difficoltà a tramutare in un progetto proprio la reazione a un progetto altrui, a superare le sindromi NIMBY riconoscendosi come attori di una comunità di progetto basato sulle risorse comuni e in genere sulle specificità del territorio che si sta abitando.

 

  1. La fuga individuale dalle città. Senza una comunità di riferimento, con le sue regole integrate e le sue abitudini concrete che fanno appartenere a un flusso secolare, il disagio degli homines novi del nostro tempo, sparpagliati e insoddisfatti, si radicalizza, nel senso proprio di risalire alle radici e mettere in discussione i nodi principali del contratto sociale alla base delle città. Si contesta frontalmente non più solo il capitalismo, ma ogni consumismo (ormai evidentemente insostenibile) e poi si attacca direttamente il lavoro: un tabù sinora intoccabile, posto al cuore della città moderna.

La sfida, non proclamata, ma implicita nelle scelte di vita di chi le compie, è spesso così radicale da spiazzare completamente ogni strategia riformista che si basi su una più equa redistribuzione dei valori aggiunti della produzione industriale e digitale o su una sindacalizzazione di rapporti di lavoro, di fatto ingovernabili nel loro insieme perchè ormai individualizzati.

La sfida tacita e personale invece punta direttamente alle vere risorse primarie della vita: il tempo e lo spazio.

Contestando il lavoro si “ritira dal commercio” il tempo venduto alle imprese altrui, ormai considerato solo tempo perso per un salario che non libera neppure il tempo “libero”.

Il costo di un atto così semplice e non violento è insostenibile nel sistema urbano, e lo può affrontare solo chi ha già ridotto drasticamente le proprie necessità consumistiche, adottando spontaneamente uno stile di vita, una vera e propria “dieta” di grande sobrietà e poco ricattabile dal denaro 1.

Rendono possibile questo regime le semi gratuità anche tecnologiche del nostro tempo: la rete digitale, i trasporti, i cibi essenziali. Sono dotazioni di servizi di base, esito della costante vicinanza dell’habitat urbano anche nei luoghi più remoti, per cui fare l’eremita oggi è molto più facile che un secolo fa: l’accesso a minimo costo di questi servizi ormai costituisce la attrezzatura fondamentale per abitare in luoghi “semideserti ma….”

Contando su queste dotazioni e conquistando il tempo di lavoro per fare “altro” rispetto a produrre o consumare il superfluo, viene meno anche l’attrattività dello spazio urbano, considerato da 200 anni il luogo delle occasioni di occupazione e di consumo. La città, caduta la attrattività dell’offerta infinita di lavoro, si mostra una trappola da cui fuggire per chi ricerca un contatto diretto e non mediato con le “materie prime” dell’abitare: un luogo pieno di servizi in gran parte non considerati necessari, un centro di riti sociali vissuti come costrittivi, con ritmi insostenibili e con rendite che pesano come imposte gravosissime, senza spazi liberi.

È probabile che proprio la ricerca di spazi ormai senza padrone, praticamente gratuiti, in cui annidarsi per farne il nuovo contesto della propria libera vita, sarà probabilmente il motore più interessante dei nuovi processi di territorializzazione. In quel contesto prende nuovo sapore il lavoro che impegna a fondo per ottenere direttamente e con bioritmi consonanti i prodotti di diretto consumo: il tetto, riattando ruderi; l’energia, facendo girare il piccolo mulino ad acqua o a vento; il cibo, “mangiando il prato”, come mi hanno detto amici impegnati da mesi a contendere al bosco una tenuta di mezza montagna.

È una tendenza, per ora avviata da pochi, ma che risponde pienamente ai requisiti della “territorializzazione etica” emergenti nel disagio urbano dei giovani. Quindi con ogni probabilità sarà presente in modo significativo nel periodo di transizione dei prossimi decenni. Nei casi più romantici sullo sfondo si intravvede il libro illustrato di Robinson Crusoe letto da ragazzi, la lezione di Tiziano Terzani. In tanti altri casi a quei libri sul tavolo si avvicina la chiavetta per la connessione internet, un sedile comodo per qualche ora di meeting in remoto al giorno, una 4x4 scassata per muoversi.

In ogni caso nei primi esperimenti del “nuovo abitare” si leggono già alcune caratteristiche della fase di “fondazione”. Infatti, come sulla nave dei coloni greci mandati oltremare a costruire nuove città, i nuovi coloni viaggiano leggeri: no prima e no terza età. Servono adulti consenzienti, sobri, forti, adattabili.

Ai bambini i coloni oggi pensano di poter pensare appena un minimo stabilizzati; a loro stessi diventati vecchi i coloni oggi pensano che penseranno i bambini diventati adulti. Quindi se nei prossimi anni per i nuovi abitanti è sospeso il traffico generazionale per “cantiere di fondazione”, si riprenderà a fare figli dopo e dopo ancora si penserà a insegnare, a curare, a rielaborare riti e cultura. Solo allora sarà davvero necessaria una comunità attiva.

 

Questi i sintomi di un’aria nuova.

Se li abbiamo interpretati correttamente, bisogna guardare con attenzione, nel caos della fase neutra, alla nuova colonizzazione dei territori più abbandonati che sta partendo in questi anni: sarà frutto di una reazione radicale alla struttura della società contemporanea.

Come tutti gli atti radicali sarà una scelta maturata da singoli senza contare a priori sulla condivisione di una qualsiasi forma di comunità: a chi inizia quel cammino di statu nascenti non sembra urgente dotarsi di strumenti culturali per uscire dalla dimensione individuale.

Noi, che apparteniamo alla cultura che ha creduto necessario affrontare insieme le sfide del mondo e che abbiamo contato sulle comunità e sul loro progetto implicito, ci preoccupiamo che a questi nuovi soggetti della territorializzazione manchino le forze necessarie per affrontare i temi giganteschi che il cambiamento climatico e le relazioni poco centralizzate impongono (dalla gestione delle acque a quella della circolazione di merci e della cultura in un mondo a bassa centralità).

Speriamo di avere torto, come capita ai genitori che sono riluttanti a dare ai figli le chiavi di casa, ma intanto cerchiamo di rendere utilizzabile anche per loro il lavoro fatto a render godibile la casa.

 

  1. Il fascino della ricerca territorialista

Noi territorialisti abbiamo costruito negli anni un’ottima macchina culturale per capire il mondo e agire di conseguenza. Ci siamo mossi dal pensiero della complessità del ‘900, ma organizzato in ordine al tempo e allo spazio che ciascuno si trova come contesto della sua vita (vita che è naturalmente il testo di cui ciascuno è autore).

Una dozzina di menti acute e testarde (Magnaghi, Gambino, Becattini ma non solo) hanno raggranellato nei decenni un modello di ricerca/azione di alto artigianato, che potremmo definire “gramsciano corretto Bateson”: una strategia culturale con ottica territorialista in cui i passaggi logici della ragione critica si mescolano opportunamente con altre fenomenologie della sensibilità, dell’etica e della progettualità.

Decine di studiosi appassionati hanno versato le loro competenze disciplinari nella tramoggia di quel modello, sfornando un cocktail teorico-sperimentale affascinante, che consente di esplorare il reale e il possibile con i criteri scientifici più avanzati ma tenendo i piedi saldi sul terreno.

Oggi, a valle di quella fase creativa ricca di continue riplasmazioni, leggiamo il paradigma territorialista come un modo di ricercare (più che un metodo) fortemente influenzato dalle specificità del territorio, che invita a procedere ogni volta reinventandosi, un po’ con una logica deduttiva e un po’ con criterio induttivo: da sopra e da sotto, come stalattiti e stalagmiti quando (e se) si incontrano a far colonne portanti.

Nell’arco di 50 anni questa avventura del pensiero si è concretizzata in diversi laboratori non solo di conoscenza ma anche di potere: ad esempio con la redazione di piani territoriali e ambientali.

Nell’esercizio del potere (se non altro regolativo) emergono continuamente difficoltà nella ricerca di equilibri: tra conoscenza e normazione, tra proposta e condivisione, tra esperimento e buona pratica. Talvolta una preponderante fase di elaborazione teorica rischia di sfondare in un dover essere assertivo, in regole definitive che limitano molto l’efficacia dei piani della fase di applicazione e gestione. Altre volte si è temperato il risultato “freddo” dei dati con un “lavoro sporco” sul territorio (come racconta M. Rossi), in cui si ricompongono brandelli di memoria collettiva in quadri congruenti e si adunano abitanti intorno a obiettivi rilevanti.

Si sono goduti anche successi nell’elaborare strategie condivise, che comunque sono state frutto di percorsi molto faticosi e con risultati malfermi.

 

In ogni caso il pensiero territorialista è cresciuto nel lungo dopoguerra di fine millennio, quando gli aspetti socioeconomici e culturali delle nostre generazioni parevano consolidati e comunque a basso ritmo di cambiamento.

Oggi la scomparsa dei “padri fondatori” coincide con la fase in cui le dinamiche territoriali prendono un nuovo impulso. Le driving forces trasformative tratteggiate sopra aprono prospettive che richiedono una profonda revisione della macchina di ricerca/azione a suo tempo rodata. Per farla funzionare al meglio nei nuovi contesti storici, ci pare che sia necessario reimpostare almeno tre aspetti fondamentali, tra loro collegati nelle pratiche di gestione del potere:

 

  1. La struttura immobile. Si deve ancora lavorare sul tema della interpretazione strutturale del territorio, capitolo importante della ricerca territorialista, che ha attinto alla migliore epistemologia del ‘900 per far prevalere le relazioni sulle cose e per distinguere i nessi duraturi da quelli casuali o contingenti.

Quella del riconoscimento strutturale è stata una stagione esaltante, che ha eccitato una intera generazione di ricercatori, nel miraggio di una chiave universale per versare sul territorio il sapere specialistico di molte discipline, già a loro volta in subbuglio per le rivisitazioni specifiche dei paradigmi di riferimento. Così si cerca di intercettare la giovane ecologia che già raccoglie le scienze naturali o la storia che con Braudel si attrezza per essere “il mercato comune delle scienze sociali”, a partire dalla geografia. Così si prova ad inserire nel quadro strutturale del territorio la soggettività del paesaggio percepito, le sue ideologie identitarie o viceversa il desiderio di esplorazione e di essere stupiti che paiono nuove dimensioni dell’abitare contemporaneo.

Affascinati dalle complesse geometrie di una visione strutturale integrata e dalla vertiginosa prospettiva di rileggere il territorio in chiave relazionale e non oggettuale, aperta alla serendipity e ai nessi casuali e non solo ai bisogni e ai nessi causali, noi territorialisti ci siamo consumati per anni nel mappare reti e studiare coincidenze e sovrapposizioni di fenomeni, con grande passione e divertimento.

Ma i risultati sono stati alterni e soprattutto sono state modeste le traduzioni in pratiche progettuali.

Nei “Piani territoriali” l’invocata plasticità delle strutture relazionali individuate si è spesso ridotta a un elenco di oggetti da tutelare, mancando la progettualità per definire regole che riguardino le relazioni e non le cose. E anche dove si sono tentate indicazioni per le relazioni strutturali (ad esempio quelle per i temi ambientali), la struttura di riferimento è definita con nessi e nodi così necessari da essere citati nella parte regolativa come “invarianti”.

Si legge la struttura per relazioni ma poi si agisce sulle cose. Sembra così di semplificare drasticamente ogni elaborazione gestionale ma si finisce per comunicare che le relazioni coincidono con gli oggetti relazionati (e quindi si riporta tutto nell’alveo del patrimonio da tutelare, come fa il “Codice dei Beni culturali”).

Le istituzioni sono spinte a preferire la falsa equanimità delle norme generalizzate e si procede per tipologie, con casistiche métrisée 2, definite quantitativamente o appartenenti a elenchi precompilati. In questo modo si consente una applicazione semiautomatica della regola, ma si rende deduttivo ogni criterio di verifica, e si elimina ogni contributo locale di lettura specifica, con buona pace del processo vivo del riconoscimento condiviso.

L’apporto del territorio diventa trascurabile proprio nell’uso dello strumento che dovrebbe riconoscere i caratteri specifici dei luoghi. Ci si riduce a un utilizzo puramente difensivo dell’interpretazione strutturale, volto a impedire stravolgimenti dello status quo ante, considerato a priori meglio dello stato futuro.

Siamo distanti da quanto abbiamo sperato nella costruzione del quadro conoscitivo, quando si utilizza il riconoscimento strutturale come chiave per recuperare un sapere comune e una visione degli abitanti, se non comunitaria, almeno consapevole dei luoghi, come cerchiamo di fare ogni volta con il rito delle Parish map e delle “assemblee di luogo”.

Tra la costruzione culturale della consapevolezza di un luogo e la strumentazione tecnico istituzionale per difenderne i caratteri fondamentali si apre un solco che riduce la continuità dell’azione comunitaria e alla sua efficacia nella gestione del territorio. D’altra parte il lavoro di riconoscimento strutturale condiviso, svolto in questi anni, non ha innescato in quelle comunità un know-how diffuso e praticato, che renda meno faticoso e incerto ogni processo induttivo di “estrazione” del valore dei luoghi dai luoghi stessi. Il valore dei luoghi nel senso comune (o di comunità), cioè il riferimento che motiva la scelte essenziali, rimane una sorta di “criptovaluta”, che teoricamente è davvero un’essenza del patto di condivisione di tutti gli abitanti, ma praticamente si riduce ad una rappresentazione astratta del patrimonio immateriale che tutti dicono di condividere: una specie di teologia del bene comune.

 

La fragilità della costruzione strutturale è connaturata alla contraddizione tra sapere comune e tecnica operativa dei pianificatori o dei funzionari che i Piani li gestiscono; in particolare riguardo la rigidità delle relazioni individuate e dalla loro definizione di “invarianti”, utile ai pianificatori ma dannosa per la percezione e il senso comune del paesaggio.

Infatti in una fase di stanca delle dinamiche di territorializzazione quegli aspetti che paiono modificarsi poco possono essere messi al centro della difesa da trasformazioni inconsulte e “per futili motivi” (come interessi privati di breve periodo a fronte di beni comuni). In quei casi la conservazione degli aspetti strutturali consolidati è certamente l’azione migliore.

Ma quando ci accorgiamo di essere in una fase di grande cambiamento la struttura che ci serve riconoscere non è soltanto quella utile a un servizio difensivo, ma soprattutto occorre far emergere quella che può svolgere un innovativo ruolo propositivo, che può dare materiale ed energia per il governo del cambiamento: ci serve una interpretazione strutturale delle dinamiche di trasformazione e non contro di esse.

Se ci occorre uno strumento per abitare il cambiamento e non per lamentarcene dobbiamo riprendere le nostre concettualizzazioni in radice, e rileggere le relazioni fondamentali del nostro rapporto con il territorio, facendo largo ad una più dinamica idea di struttura, meno patrimoniale e più attiva.

 

Probabilmente conviene “rispolverare geni” come Jean Piaget, che 70 anni fa (!) esplorava i processi cognitivi delle diverse fasi dell’apprendimento (che ritiene proprie di tutto il vivente e speciali per gli umani) e ne studiava la strutturazione non come ipostasi di rapporti preesistenti nel contesto, ma come criteri della mente interpretante, che progressivamente si struttura organizzando la propria esperienza del contesto e riconoscendone le ricorrenze, le gerarchie, le catene causali.

Secondo Piaget è strutturale un sistema di trasformazioni che contiene al proprio interno le regole per continuare a mantenersi riconoscibile nel cambiamento 3. La strutturalità non è un attributo statico, delle cose, ma un attributo dinamico, dello sviluppo di chi dà senso alle cose.

Per chi si interessa di Territorio questa concezione di struttura comporta un cambiamento fondamentale: se l’“ordine” non sta nel Territorio ma nella mente, occorre farci consapevoli della nostra soggettività nel considerare le relazioni tra le cose che ci circondano e tra noi e loro. Non ci sono cose o relazioni a priori più importanti delle altre, ma semmai cose o relazioni che da molto tempo siamo abituati a considerare più importanti e che abbiamo culturalmente ipostatizzato.

Nelle strategie di azione che individuiamo nelle nostre scelte di vita seguiamo quasi sempre, per comodità, sequenze culturalmente condivise e imparate come strumenti per decidere senza fatica. Ma questo non significa che non si possano modificare tali criteri di scelta, introducendone di nuove o declassando le vecchie. È il riconoscimento di una opzione culturale, di un diverso punto di vista, che nell’Arte accade spesso e che riguarda valori e criteri puramente immateriali, prodotti dal nostro pensiero e dalla sua condivisione con le comunità culturali in cui siamo inseriti, e che ricade sulla parte concreta del territorio solo nelle azioni conseguenti a quelle scelte.

 

Quindi non una struttura preesistente, ma l’attività strutturante condivisa è il principale agente di valorizzazione dei territori ed è l’unica azione che comporta effettivi cambiamenti strategici antagonisti ai trend provocati dalle driving forces.

Ad esempio, senza l’idea delle reti ambientali e dell’infrastruttura verde, nuovo criterio strutturante il nostro rapporto con la Natura, oggi non avremmo armi per contenere il disagio urbano a seguito del cambiamento climatico; senza l’idea del paesaggio come habitat culturale dell’abitare di tutti, nuova visione della forma del territorio e del diritto di abitare bene, oggi non saremmo in grado di contenere l’estensione cancerogena delle periferie senza centro.

Insomma, se noi territorialisti mettiamo a fuoco un’idea di azione strutturante “alla Piaget” ci diventa più chiaro l’obiettivo delle nostre pratiche di ricerca/azione. Dovremmo forse chiamare quelle pratiche culturali struttura/azione, dato che riguardano la ricognizione di materiali conoscitivi e valutativi da condividere sul territorio per decidere le relazioni con le cose che riteniamo importanti e come fare a goderne noi e i nostri figli.

Il difficilissimo dibattito sul clima insegna: non c’è scienza che si possa chiudere in una pretesa oggettività e con questa rivendicare un ruolo fondante le scelte di vita. Al contrario è solo un lavoro di struttura/azione condivisa che assegna importanza o meno a quelle indicazioni scientifiche nell’universo culturale di chi decide. Che il decisore sia uno o molti a non conta: conta il farsi strada nel decisore di una considerazione strutturante appropriata ai tempi che si vivono. E in democrazia i decisori siamo tutti.

 

  1. La comunità come racconto edificante

A questo punto emerge prepotentemente la seconda fragilità delle nostre elaborazioni teoriche: il ruolo della comunità.

Nelle nostre logiche la comunità è il luogo sociopolitico della consapevolezza progettuale del contesto fisico e storico, è quel grande gruppo di abitanti che sa interpretare al meglio non solo i rapporti con il resto del mondo, ma anche le tensioni che si sviluppano al suo interno.

Postuliamo questa capacità come un processo naturale e diffuso, ma lo osserviamo attivarsi soltanto quando il territorio viene “sfruculiato” con qualche violenza peggio delle altre: ecco che allora la Comunità prende forma, fa sentire la sua saggia voce basata su una cultura inoppugnabile perché esperienziale, e riesce (qualche volta) a rintuzzare gli attacchi e sventare la minaccia.

Nel racconto che ci facciamo, la Comunità è un luogo magico, una sorta di “scatola nera” in cui si versano componenti conoscitive e lieviti critici e ne escono, come le tagliatelle dalla trafilatrice della pasta, coscienza di luogo e capacità di giudizio su diverse strategie operative per lo sviluppo sostenibile del territorio.

La leggenda dice che noi territorialisti nasciamo per portare aiuto alle comunità. Infatti si narra che qualche volta, come ne I Sette Samurai 4, la comunità da sola non ce la farebbe, e servono apporti esterni: ecco i Territorialisti, professionisti utili praticamente a innescare una forza nascosta e misteriosa interna alla comunità stessa che, anche se all’ultimo momento, comunque prende partito e si oppone organicamente al pericolo di cambiamento.

Ovviamente la realtà è diversa: salvo casi clamorosi gli abitanti dei territori che vorremmo valorizzare sono poco sensibili ai temi da affrontare prima delle crisi e restii a cambiare atteggiamento rispetto allo sfruttamento e allo spreco delle risorse. Chi sta sul territorio finisce per pensare che lo “Spirito di comunità” sia un burattinaio poco presente, e che ogni volta si deve aspettare che torni, riprenda i fili e rianimi le marionette per recitare ancora una volta un’opera a soggetto già vista per ristabilire lo status quo minacciato dai cattivi.

Qui sta la nostra contraddizione: da una parte riconosciamo la fase di grandi cambiamenti in corso, dall’altra facciamo riferimento a una dimensione comunitaria d’altri tempi, quella che per secoli ha garantito la tenuta di rotta dei progetti di lunga durata del mondo rurale, ma che oggi, proprio per quella lunga stagione di resilienza, ha ridotto le proprie capacità di adattamento al cambiamento a poche e faticate reazioni agli eventi che incombono.

 

Oggi, chi si è avventurato a far Piani territoriali, sa che le Comunità non sono un organismo integrato e coerente, ma un corpo sociale che ha al proprio interno e intrattiene con l’esterno complesse dinamiche che portano a decisioni spesso contrastanti, con rapporti di potere e di gestione (mal) mediati dalle istituzioni. Sa che questa instabilità porta a una sorta di impotenza soprattutto in ordine ai progetti di lunga durata, che ora vengono negati, poi assecondati, poi di nuovo messi su binari morti, a seconda del gruppo al momento dominante.

Anche per l’azione della comunità, proseguendo la ricerca di alternative aperta con l’interpretazione strutturante, stiamo provando (da qualche decennio) a utilizzare importanti metafore che Piaget stesso e Bateson hanno introdotto più di 50 anni fa nei processi di apprendimento, mutuandole dagli studi sulla formazione biochimica e cellulare del vivente e parlando ancora una volta di morfostasi e morfogenesi. 5

In questi termini con le nostre comunità sinora non siamo andati più in là di azioni morfostatiche.

Nelle ricerche/azioni con comunità locali, siamo stati capaci quasi solo di spingere la ricognizione nelle pratiche e nelle ideologie degli abitanti residui, assumendone la capacità progettuale in quanto continuativa dei modelli tradizionali o reazionaria rispetto ai soprusi del modello urbano. Abbiamo dato risonanza a chi era resiliente ai cambiamenti imposti dai processi dicotomici urbano vs. abbandono, cercando di potenziarne le iniziative (quelle dei ritornanti, dell’agricoltura sostenibile, delle produzioni tipiche etc.).

Per quelle iniziative, portate dagli abitanti più resistenti e dai giovani che ri-conoscono le strutturazioni comunitarie ancora vivaci, le consonanze di lettura del territorio e del proprio ruolo favoriscono processi di territorializzazione anche di forze nuove, che formano una benefica evoluzione della comunità locale, senza innovazioni significative.

In queste esperienze virtuose ogni volta abbiamo verificato che occorre un impegno duraturo, una buona conoscenza di contesto e una onesta consapevolezza di ruolo per indurre una solida coscienza di luogo. Sono energie che occorrono per ogni battaglia di resistenza morfostatica ma che in moltissimi altri casi la comunità non riesce a trovare in sé.

 

Dove la capacità di reazione è debole molte sono le cause di crisi complessiva di fronte ai cambiamenti: troppo stanchi gli abitanti presenti, troppo sfuggente, lenta, inefficiente la promessa degli enti, troppo modesto l’ingaggio dei singoli, troppo brevi gli entusiasmi volontaristici.

Quindi, salvo i casi virtuosi, in cui un cocktail di soggetti attivi, istituzioni efficienti, volontari tenaci e duraturi fanno fronte, sembra in via di estinzione la comunità attiva su cui contiamo. Se non c’è la comunità non si innescano processi di consolidamento delle iniziative di territorializzazione.

Siamo di fronte a un mastodontico caso di “doppio legame”, quello da cui non si esce con le soluzioni conosciute, quello che per Bateson può generare, prima o poi, una reazione innovativa: una morfogenesi di comportamento.

Ma se riflettiamo sui nostri territori i meravigliosi esempi di uomini o animali morfogenetici che Bateson cita per mostrare il superamento del “doppio legame”, vediamo che non ce la caveremo con gli strumenti di rapporto strutturato con il contesto che conosciamo: si supera solo prescindendo dagli schemi organizzativi utilizzati sino ad ora.

 

Quasi certamente occorre riprendere il cappello in mano e andare a mendicare competenze e capacità nuove, ancora come i campesinos dei “Magnifici Sette”. Ma certamente i nuovi competenti non siamo noi territorialisti, appassiti sulle carte e le letture: piuttosto le deboli comunità locali dovranno ingaggiare i nuovi abitanti dei territori vuoti, i senza-comunità fondamentalisti delineati sopra.

In mancanza d’altro si deve scommettere che siano loro il “sale della Terra” in questa fase di cambiamento caotico, e che una nuova prospettiva di qualità della vita venga dalla sintesi tra le due struttura/azioni, quella di chi è restato sul territorio in un gruppo sempre più immiserito e quella di chi al territorio ci arriva solo, ingenuo, homo novus alla ricerca di un nuovo abitare.

 

Oggi ciascuno dei due soggetti non può che intraprendere struttura/azioni deboli, diversamente incomplete a fronte delle sfide che attendono, secondo l’analisi fatta sopra. Probabilmente il contributo di noi territorialisti è ancora necessario, come quello dei meccanici che preparano i convogli in partenza per lunghi tragitti.

Come loro dobbiamo concentrarci sui punti deboli delle attrezzature sia dei vecchi che dei nuovi coloni e soprattutto si tratta di fare un inedito lavoro di traduzione delle struttura/azioni degli uni e degli altri, di trovare modalità di messa in comune dei programmi e di comunica/azione tra gli attori. Si tratta di attivare velocemente quel processo di messa in comune e di comunica/azione che storicamente si è formato lentamente, nel corso di generazioni, a far comunità tra gli abitanti dei luoghi. Ma non possiamo assumere quel processo di sedimentazione come canone del nuovo incontro, perché le sfide del cambiamento non lo permettono: non abbiamo generazioni da aspettare e dobbiamo superare in fretta diffidenze e pregiudizi radicati.

Insomma, per ottenere invenzioni morfogenetiche e superare le doppie debolezze della nuova territorializzazione, dobbiamo convincere i resti delle comunità resilienti a collaborare con i nuovi arrivi dalle città, solitari e sprovveduti.

 

  1. Il paesaggio come luogo comune

Paesaggio è una parte di territorio quale è percepita dalle popolazioni... Sin dalla definizione di Paesaggio della Convenzione Europea ci si accorge di un gioco di prestigio verbale che non trova riscontro nella realtà.6

Rimaniamo perplessi perché il termine “le popolazioni” (people) ha una genericità impressionante, che prescinde dall’essere abitanti, dal luogo e dal tempo.

Si direbbe che, al suono trionfale dell’Inno alla Gioia, una botta di Illuminismo abbia fulminato il Consiglio d’Europa e con l’“ottimismo della volontà” si sia messo velleitariamente il Paesaggio a far da collante universale di mille paesi storicamente individualisti o addirittura antagonisti.

Ma a far fragile quella definizione c’è anche altro. Qui, nella nostra revisione in radice, noi territorialisti vogliamo cercare rimedi per l’altro piede di argilla della Convenzione: la percezione, che naturalmente è strumento di interpretazione del singolo e che invece viene attribuita alle popolazioni.

Si rivela così, sul podio d’Europa, uno scheletro in armadio che noi territorialisti e noi paesaggisti ci portiamo dietro sin dalle origini: l’inesplorato rapporto tra gli individui e la Comunità.

Chi ha fatto esperienza del “lavoro sporco” di accompagnamento degli abitanti di un luogo in vicende di scelte e di potere sul futuro sa che la percezione non è un bene comune ma uno strumento personale, e che semmai gli aspetti comunitari sono frutto di un lavoro collettivo di struttura/azione a valle della percezione.

Si sa anche che progettare e decidere “a valle” di un lavoro collettivo di strutturazione già compiuto e con risultati consolidati è più facile ma anche poco innovativo.

Invece, con Bateson, sappiamo che gli aspetti morfogenetici non emergono dal lavorio istituzionale del mettere in statuto le gerarchie di percezione, ma da una sorta di cortocircuito, di invenzione creativa, di statu nascenti 7 della struttura/azione che nasce proprio dal fact checking razionale e sentimentale delle nostre percezioni del contesto.

 

Se chiamiamo insorgenti quelle fasi in cui maturano risposte morfogenetiche a situazioni di “doppio legame” (come propone M. Rossi sulla scia dell’ultimo Magnaghi), dobbiamo distinguere tra l’insorgenza sociale e politica e insorgenza culturale.

La prima (quella dello Statu nascenti di Alberoni) nasce e si sviluppa nelle piazze, in tempi brevissimi, quasi saltando il lavoro di struttura/azione e giungendo a decisioni operative con processi istantanei di sublimazione, in cui la consapevolezza è un lampo quasi contemporaneo al tuono dell’azione, fondendo per un attimo individuale e collettivo (per ricadere velocemente in una dicotomia nefasta).

L’insorgenza culturale invece è una partita complessa, i cui attori sono tutti individui che confrontano le loro esperienze (necessariamente percettive). L’insorgenza è storicamente il luogo dell’arte, della formazione di Avanguardie che (come dice il termine un po’ guerrafondaio) esplorano il territorio prima dell’arrivo delle truppe. Sono individui urbani, portatori di germi culturali esterni alla comunità statiche, a proporre uno sguardo diverso, un modo di percepire e di interagire che comporta un apprezzamento innovativo del Paesaggio e delle altre risorse locali come strumenti da usare rispetto alle nuove pressioni provenienti dall’esterno (dalle driving forces climatiche alla man bassa speculativa di produzioni locali alla moda).

In questa prospettiva l’insorgenza culturale è di fatto l’intrapresa di una territorializzazione consapevole che dà luogo a una nuova comunità, ma non ha ancora gli effetti di temperamento, di giroscopio nel profondo della nave per stabilizzare i beccheggi e i rolli, che la comunità consolidata da sempre svolge a rendere sopportabile la rotta di navigazione delle nostre vite.

L’insorgenza culturale dell’arte si contempera sempre con la “coscienza possibile” (per usare un termine maoista) della comunità di riferimento e provoca gli avanzamenti del nostro modo di percepire il mondo.

Come nell’arte, anche in questa territorializzazione consapevole si attiva un processo (più o meno lungo ma mai istantaneo) in cui i singoli portatori di comportamenti innovativi metabolizzano la struttura/azione a partire dal paesaggio propria con quelle locali, e da quella sintesi, sempre sorprendente, sortiscono decisioni e strategie innovative, morfogenetiche.

Noi territorialisti, che vorremmo fare gli assistenti tecnici dell’insorgenza culturale, dobbiamo curare quella metabolizzazione, processo base del vivente, che richiede un atteggiamento che sarebbe bene assomigliasse all’idea di cura delle discipline orientali, tutto da studiare e da inventare. Certamente è un ruolo che ci costringe a rivedere la nostra cassetta degli attrezzi di ricercatori e di didatti, per mettere a punto strumenti adatti ai nuovi soggetti che ci troviamo di fronte e alle nuove tappe del processo di territorializzazione che loro (non noi) affrontano.

 

Fin qui una riflessione maturata nel tempo e verificata sul campo.

Ma l’urgenza degli interventi porta a mettere in gioco anche pensieri non ancora consolidati, per cominciare a concordare, con chi vuole partecipare a questa impresa, nuovi strumenti da attivare.

Credo che in questi anni si sia lavorato benissimo sui contenuti e si sia invece molto indietro nel modo di comunicarli, che è rimasto ottocentesco (come questo scritto!). Ora il problema da affrontare è principalmente quello della comunicazione a soggetti con storie, radici, età del tutto diverse dalle nostre e, a quanto sembra, molto suscettibili sugli aspetti formali.

Rivedere la strumentazione comunicativa porta a galla altre contraddizioni e aporie, ma discutere di queste aprirebbe un altro capitolo complicato da decifrare. Invece occorre procedere per piccoli passi e frequenti soste di discussione.

Quindi, per semplificare si condensano in poche intuizioni provocatorie le strumentazioni che dovremo evitare, dato che a questo punto della ricerca, con Montale, solo possiamo dire ciò che non siamo e ciò che non vogliamo.

 

Le guide della strutturazione. Il nostro lavoro più avvincente, quello in cui più ci divertiamo e in cui sentiamo di dare veramente un contributo è quello di dare un’interpretazione al mondo che incontriamo, organizzarlo mentalmente, prenderne le misure e le vitalità. Perché impedire questa avventura agli altri? Perché passare pacchetti preconfezionati di interpretazioni come le guide turistiche dei croceristi?

Per avviare i nuovi abitanti a essere nuovi territorialisti con le loro splendide strutture/azioni il massimo che possiamo comunicare delle nostre sono tracce, frammenti, fil rouge che speriamo risultino stimolanti come i punti di vista di uno scrittore, gli sguardi di un pittore o di un fotografo, i resti archeologici di una civiltà scomparsa.

 

Le mappe didattiche. Al nuovo abitante servono mappe fascinose, non per restituire il palese e raggiungere la meta conclamata, ma mappe per perdersi, mappe che generino serendipity, che è uno degli atti di territorializzazione più godibili e stimolanti.8

L’incontro con cose o persone impreviste sarà, nei tempi di dominio del web e dell’AI, uno dei pochi rimedi contro l’omologazione (insieme all’amore e all’amicizia).

Il nuovo turista che ci interessa sarà appassionato da questi aspetti, che le mappe stupide rischiano ogni giorno di rovinare.

La mappa virtuosa sarà probabilmente variabile e ricca di segnalazioni delle attività in corso, del “Paesaggio attivo”, dell’interpretazione artistica dei luoghi: insomma un invito ad andare di persona e incontrare là una irriducibile e benedetta diversità dal già saputo.

 

Il patrimonio museificato. La snellezza culturale (ai limiti dell’anoressia) delle nuove generazioni non è solo frutto di una pigrizia agevolata da Wikipedia ma è anche reazione all’inflazione delle informazioni ferme, storicizzate, ingombranti ogni percorso di percezione non guidata. D’altra parte i più giovani mostrano una passione smodata per gli eventi, per tutto ciò che è temporaneo, con una specie di smania “situazionista” che sembra il contraltare del rifiuto dei musei. È una condizione di passaggio, che reagisce alla bulimia del sapere nella formazione del ‘900, che oggi sembra imporre un drastico sforzo di innovazione nel porgere contenuti culturali, in modo che interagiscano creativamente con una loro libera percezione diretta, stimolanti esperienze intense che non derivano certo solo da apporti di nomenclatura.

 

La progettualità machista. Il segno forte nel contesto, la firma stilistica del progettista, la novità formale a tutti i costi sono sintomi di una malattia dei progetti del nostro tempo, che offende il senso comune del paesaggio tanto quanto le violenze di una dittatura offendono la democrazia.

Il narcisismo esibizionista delle “archistar” viene sempre più spesso spento dal disinteresse della gente proprio nei luoghi urbani che lo ospitano e certo non ha cittadinanza nei nuovi processi di territorializzazione. Nei luoghi riabitati si richiede una progettualità diffusa, continua, condivisa e non urlata (con Roberto Gambino avevamo coniato il “progetto umile” per il paesaggio montano), tutti requisiti per agevolare una godibilità plurale e duratura del Paesaggio che ne risulta e una personalizzazione delle esperienze di abitare o di visitare, queste sì nuovi argomenti del nuovo progetto.

 

1Dieta in greco antico significa “stile di vita”, con un senso molto più ampio della semplice regola alimentare, e ( credo non per caso) nell’alto Medioevo prende il significato anche di Assemblea ufficiale, giorno prefissato per riunirsi e decidere (da Carlo Magno in poi). In entrambi i casi i significati sono importanti per una temperie storica di nuove fondazioni, di riorganizzazione basilare dell’abitare, da soli o in collaborazione.

2L’orribile neologismo francese riproduce bene l’orribile forzatura della qualità in quantità di ogni definizione generalizzata di soglie dimensionali per segmentare fenomeni naturali continui o relazioni funzionali (o estetiche) di opere dell’uomo.

3Jean Piaget, Lo strutturalismo (1968) tr. it Il Saggiatore, Milano, 1971.

A Piaget non interessa capire se e come il contesto sia strutturato, interessa indagare come, da quando veniamo al mondo, ci attrezziamo per muoverci sempre più destramente nel contesto in cambiamento, adottando criteri di strutturazione sempre più potenti man mano che cresciamo. Studiando il bambino nel suo percorso di apprendimento Piaget individua stadi in cui il processo di strutturazione del sapere passa da una fase di pura sensazione ripetitiva a cui occorre adattarsi a una fase riflessiva, in cui le percezioni si relazionano e si generalizzano, a una fase adulta, di consapevolezza della propria azione strutturante e di suo utilizzo interattivo con il contesto.

4Nel film capolavoro di Kurosawa (1954), poi rifatto in chiave western da Sturges ne I magnifici sette (1960), si fa la storia del cinema con una trama archetipica: uno sperduto villaggio bullizzato e saccheggiato da una banda di predoni chiede aiuto a un samurai solitario, che aggrega altri come lui per andare a combattere e morire per i locali, solo alla fine insorgenti.

5 Oltre a vari testi di Piaget sullo “sviluppo” vedi Gregory Bateson, Verso una ecologia della mente (1972), tr. it. Adelphi, Milano, 1977 e id. Mente e natura (1980), tr. it. Adelphi, Milano, 1984.

6La definizione recita: "Paesaggio" designa una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni (in inglese: perceived by people), il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.

7Statu nascenti , il primo e migliore studio di Francesco Alberoni (il Mulino, Bologna, 1968), definisce la situazione iniziale ed entusiasmante di antagonismo alle istituzioni in crisi, momento in cui più facilmente opinioni personali si fanno “politica” e collaborano in decisioni di gruppo.

8 A Serendip (città immaginaria profumata d’Oriente) Horace Walpole nel 1754 colloca una storia basata sul vagare alla ricerca di qualcosa che non si trova, ma trovando invece cose e persone inaspettate e salvifiche. La serendipity diventa nel '900 proprietà di fenomeni storici e sociologici di provocare conseguenze inattese e positive e Arnaldo Bagnasco in un bel saggio la pone tra i motori d’attrazione della città. (Arnaldo Bagnasco, Fatti sociali formati nello spazio, Einaudi, Torino, 1998.)