Localizzazione delle 146 sedi dei Club e Centri per l'Unesco operativi in Italia.
Le mappe dei Club Unesco e delle Fabbriche nel paesaggio
Dal 20 ottobre i Club Unesco e i progetti partecipanti al premio La Fabbrica nel paesaggi sono localizzati in Atlas, con appositi archivi.
Sono parte di un progetto ATLAS UNESCO che l’Associazione Landscapefor ha avviato, per far conoscere al visitatore italiano o straniero con materiale multimediale luoghi e attività poco conosciuti:
I Club o le azienda partecipanti al Premio interessati possono essere abilitati ad arricchire la propria scheda, per ora solo localizzativa, con immagini o video, oppure ad intervenire direttamente su una vetrinadove inserire gli inviti a eventi o manifestazioni . L’icona del Club che ha inserito una news in vetrina pulserà fino alla data dell’evento, in modo da segnalarlo tra gli altri beni e servizi presenti in Atlas.
La mappa attiva dei Club, separata dal resto dell’Atlas, e il calendario attivo degli eventi inseriti in vetrina sono specchiati nel sito web della FICLU e in quello di ciascun Club lo richieda.
Dall’icona di Club in mappa e dalle date in calendario si possono aprire le schede illustrate di documentazione dell’evento o del Club.
Con la presenza nell’Atlas generale, che promuove e rende le attività per il turista culturale, e con la propria mappa e calendario, si dota la FICLU di un potente strumento di documentazione delle attività dei Club sul territorio, formando di fatto un dossier di buone pratiche dei Club, aggiornato e interattivo.
Attività dedicate per i Club Unesco e i partecipanti alla Fabbrica nel paesaggio
A. Completare la scheda
La mappa riporta come punto di interesse (POI) per le attività culturali la sede di tutti i Club e Centri Unesco aderenti alla FICLU e dei partecipanti a tutte le edizioni della Fabbrica nel paesaggio.. I Club e le aziende o gli enti partecipanti, se interessati, possono completare la propria scheda di sede inviando all’Ass.Landscapefor immagini, video e interviste, che documentano le attività o le ricerche svolte.
B. Segnalare gli eventi
Il Club, l’azienda ol’Ente partecipante al Premio, se interessato, viene abilitato a inserire direttamente, in uno speciale “cassetto” della scheda, l’invito a sue iniziative o eventi programmati. L’icona della sede pulserà sino alla data dell’evento, in modo da segnalare la novità a tutti i fruitori di Atlas. La data è automaticamente registrata in un calendario delle attività Ficlu, dal quale si può aprire la finestra con la presentazione dell’iniziativa e della sede che lo sta promuovendo.
C. Localizzare nuovi punti di interesse
I Club interessati a documentare luoghi e beni del proprio territorio, dove si svolgono attività del Club o da promuovere per il loro interesse culturale, possono essere abilitati a redigere parti di Atlas, diventando “autori” di nuovi punti di interesse e delle immagini e video che accompagnano la loro descrizione.
L’abilitazione comporta un breve corso on line (4 ore) per imparare ad utilizzare il software di Atlas e una chat permanente di assistenza dell’Ass.Landscapefor, per risolvere gli eventuali problemi.
D. Attivare calendario e mappa di club
Il Club interessato può far inserire nel proprio sito web una mappa che riporta i “propri” punti di interesse, separatamente dal resto di Atlas e/o un calendario che riporta il segnale delle “proprie” attività, ovvero quelli dell’intera Ficlu.
Le attività sono riservate ai soci dell’Associazione Landscapefor. Per associarsi vedi modalità in “chi siamo”.
Per i soci le attività A e B sono gratuite. Le attività C e D hanno un costo di 500 € per l’impianto, la formazione e l’assistenza e di 200 €/anno per la gestione.
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni
Prima rigeneriamo la nostra creatività, poi il resto
Un pensiero radicale sugli strumenti culturali di cui disponiamo per orientare il futuro delle nostre città. Uno spunto per le giornate di ArtLab a Mantova, dove il 28-29 settembre si rafiona delle potenzialità offerte dal prossimo Anno del Patrimonio europeo
Chi si trova a ragionare di città lo fa da urbanista, o architetto, o promotore di servizi ed eventi. Manca da anni la dimensione politica, ormai esecrata, e tutti fingiamo di fidarci delle nostre competenze tecnico-operative per dare un contributo a risolvere i problemi della polis (che ovviamente si aggravano, negandone la radice profonda).
Quasi tutti i progetti urbani recenti sono come la meccanica antica. Idee geniali, efficienza bassissima, efficacia non valutabile: Leonardo non ha mai fatto vincere una guerra al Visconti, ma ha incantato tutti, posteri compresi, con i suoi disegnini fantasiosi. Così le archistar, o chi pensa agli eventi e alle performance: fuochi d’artificio.
D’altra parte dobbiamo renderci conto che la cultura urbana è stata protagonista del cambiamento, quando ha dato forma e sede a un nuovo modello di società al mondo contadino, soprattutto quando fu scosso dalla rivoluzione industriale, ma ora, che il mondo sta nuovamente cambiando con la rivoluzione digitale, la cultura urbana non è più all’altezza del cambiamento.
Siamo bloccati in una vision della città esistente, con le sue strette relazioni fisiche, con l’alto contenuto di segni identitari, di memoria delle innovazioni passate, come il miglior ambiente di sviluppo possibile, ma lo è stato rispetto alle relazioni territoriali rurali tradizionali, lasche, lente, senza segni, senza storia. Curiamo la macchina che ci ha dato il cambiamento della modernità e il suo senso della storia e non ci accorgiamo che le nuove leve della città sono già immerse in un nuovo clima di cambiamento.
Vediamo poco questo cambiamento epocale perché abitare comporta abitudini e siamo abituati a cercare la stabilità come fattore positivo, come ambiente dove svilupparci bene. E pensiamo che la stabilità del contesto fisico dove abitiamo, il riconoscimento positivo delle sue forme costituisca non poco della nostra identità, e quindi delle nostre strumentazioni per affrontare il futuro. Questo vale ancora per chi vive stabilmente in un contesto di qualità, ma oltre la metà degli italiani non abita bene, cerca il cambiamento. Chi sta nelle periferie è abituato non alla stabilità ma al cambiamento: perché cambia fisicamente ogni anno il contesto e perché lui si muove sempre di più, vede i luoghi dal finestrino del mezzo che lo porta ogni giorno a mete lontane (oltre ¾ degli italiani prende un veicolo ogni giorno). Per loro non c’è più il tempo di affezionarsi ai luoghi, semmai l’identità si proietta in spazi simbolici, rappresentativi, e questi possono essere vicini o più lontani, o addirittura essere virtuali, solo immaginati.
La generazione millennial (10+, 10-) sta rinunciando alla normale identità legata ai luoghi e costruisce identità basate su non-luoghi, cioè rinuncia a differenziarsi per aderire a spazi e segni omologati e appartenere a grandi gruppi che non ricorrono più a segni distintivi spaziali, a identità storiche o a grandi progetti ideali.
Quindi da una parte c’è un mondo che dichiara di voler dare valore all’identità locale, al patrimonio culturale (dopo averli calpestati come un elefante in una cristalleria), finanzia progetti che intervengono come gocce nel mare per ridare luogo a spazi perduti; dall’altra c’è la componente più giovane di quel mondo che non si riconosce nei luoghi, ma semmai negli eventi, nei raduni, nei comportamenti.
Come fare i conti con un popolo non di cittadini ma di city-users? Come fare a chiamare a collaborazione questi abitanti dei non-luoghi, di un mondo che ci sembra solo periferia, che un week end vanno a fare trekking in montagna e quello dopo visitano una mostra a 300 km. e forse quello dopo vanno in una pizzeria e una multisala nel centro? Di quei giorni questo popolo apolide segna sul suo diario (rigorosamente condiviso e omologato alle regole ferree della piacioneria social) indifferentemente il selfie con il palco teatrale, gli amici della compagnia che fanno boccacce, il cagnolino che gioca con le onde. Il resto è contesto, sfocato, come fa di default l’ultima versione della fotocamera dell’Iphone.
Detto in modo retorico: Che ne è della politica se non c’è più la polis come valore, che ne è della cultura se la sua coltivazione non è più ritenuta interessante, nei termini di obbedienza a cicli lunghi, della semina del sapere, della cura nel tempo del raccolto e della sua messa in valore in termini di idee?
Che ne è della memoria se non interessa più porre in riga gli eventi della nostra vita e di quella degli altri, se la si usa solo per sprazzi, scintille senza nesso tra loro, come fanno i bambini piccoli e i vecchi inoltrati, o i cybernauti con i vecchi hard-disk dove avevano messo le foto quando non dominava ancora il cloud?
Insomma, quali saranno i valori relazionali dei nostri figli, nel tempo e nello spazio? E perché di fronte a questa destrutturazione dei nostri rifermenti culturali infiliamo la testa nella sabbia e riusciamo solo a pensare a RI-generare la città, a valorizzare la memoria lineare inventata nel 1800 dagli storicisti, a tessere relazioni culturali strategiche che non interessano a nessuno che abbia meno di 40 anni?
Il Patrimonio e il Matrimonio, il tesoro dei padri e delle madri, sono sotto schiaffo da parte di una generazione che semplicemente non ne usa più gli strumenti fondamentali di strutturazione. Per il Patrimonio non si studia più il sistema relazionale del sapere: wikipedia soddisfa le esigenze funzionali e la creatività è colta come un bagliore episodico, alimento per stupori e innamoramenti momentanei. Per il Matrimonio non si fa più famiglia e tantomeno figli: uno sciopero bianco nella fabbrica base della società. Una rivoluzione non-violenta più radicale di mille ’68.
Se, come credo, dobbiamo rendere accessibile il passato dal futuro, perché il passato è una risorsa fondamentale per qualsiasi futuro, dobbiamo riprendere il discorso da zero. Dobbiamo renderci conto che è in atto un cataclisma che sta distruggendo i ponti, le reti, le infrastrutture su cui abbiamo sempre contato per mantenere vivo il processo di comunicazione epocale. Dobbiamo porci domande radicali. Esiste una società felice che faccia a meno dei valori urbani? Della memoria storica? Della cultura fatta di riferimenti ad altra cultura? E se rispondiamo di no, che non esiste, dove vanno tutti questi ragazzi? Possibile che abbiamo fatto una generazione di masochisti che si sta fabbricando un mondo infelice?
E se ascoltassimo un po’ di più i gorgoglii sotterranei che scaturiscono da quelle facce inespressive, che guardano schermetti, hanno tappi musicali alle orecchie, da quelle fiumane che sembrano muoversi poco e a caso?
E se guardassimo alle situazioni che li rendono felici e cercassimo di capirne le dinamiche? Orecchio per ascolto di emozioni senza ragione? Abbandono ad una sensibilità non specializzata? Ricerca dello stupore, dello stupefacente? Indisponibilità a sbattersi per raggiungere risultati e tendenza ad accontentarsi pur di avere tempo a disposizione? E quel tempo per cosa?
Con ogni probabilità il piacere rimane il motore delle azioni delle nuove leve, ma non utilizza più come carburante l’appartenenza ad una storia, il compiacimento dei quarti di nobiltà che si è dato l’Occidente con la sua cultura e il suo patrimonio. Rinunciamo per un attimo all’idea preconcetta della supremazia degli aspetti sistematici, ordinati, della tessitura, che la cultura ci offre. Cerchiamo di capire dove si attesta il desiderio di conoscenza, la curiosità del mondo di una generazione che fa a meno degli strumenti tradizionali. Con un minimo di distacco dall’impostazione tradizionale della cultura ci accorgiamo che non è in atto una demolizione del Patrimonio culturale, quanto una svalutazione radicale degli strumenti di comunicazione sinora utilizzati per istallarlo come valore. Tra quelli che non sentono la città e i suoi prodotti come proprietà culturale, non vale il rito iniziatico dell’appartenenza. Rifiutano l’iniziazione al Tesoro di famiglia affidata a Scuola e Musei.
Il Patrimonio resta tale anche se una generazione non lo considera tale, ma forse ripensare il suo ruolo nell’Europa può essere prezioso proprio perché sono saltati i modi tradizionali di considerarlo. Per la prima volta non solo c’è la possibilità ma c’è l’urgenza di raccontarlo in modo diverso. Come?
Ad esempio nascondendo l’interpretazione strutturale rigida, storicista, che le nazioni hanno seguito sinora, lungo l’asse del tempo e delle glorie di casa. Se, come ci illustra Rovelli, la fisica quantistica mostra che il tempo lineare non esiste, e che possiamo contare solo su eventi, perché non insegnare ai giovani le tecniche dell’investigazione, della caccia al Tesoro e partire dal rintracciamento degli eventi, degli esperimenti, delle avventure che hanno prodotto il Patrimonio?
Il Patrimonio può essere ricostruito nel nostro immaginario a partire da una serie di tracce, di riconoscimenti puntuali e di legami labili tutti da definire, ad esempio stando attenti alle relazioni visive, locali, geografiche. Girare la città e il territorio come terra incognita, con bussole di sapere episodiche che man mano ciascuno compone come gli pare. E’ la tecnica che ha appassionato generazioni di studiosi che 100 e più anni fa, hanno composto la storia della nostra cultura, quella che ora proponiamo ai più giovani come un Moloch monolitico, irrigidito dalle troppe, noiose letture. Perché non riproporre a quegli occhi disattenti nuove tecniche di esplorazione di quello che crediamo di sapere già? Perché non chiamarli a colmare l’enorme baratro che i cultori della cultura ancient régime hanno scavato tra il Patrimonio e la contemporaneità, un intervallo che in Italia è perfino stabilito per legge in 50 (o 70) anni, per rendere certe le nuove generazioni di non avere nulla a che fare con il sancta sanctorum della cultura?
Se l’occasione di un anno dedicato a ripensare in chiave europea il tema del Patrimonio ci aiuta a schiodarci in radice dai modi di rappresentarlo, se sappiamo proporre ai giovani tecniche di esplorazione dei segni della cultura per indizi e per relazioni locali, apparentemente casuali, se sappiamo chiamarli a ricucire con questo lavorio lo strappo della cultura passata con quella contemporanea, forse il Patrimonio torna ad essere, anche per i nostri figli, la sterminata miniera di futuro che abbiamo desiderato nei nostri migliori sogni di gloria.
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni
Il Paesaggio in vacanza
Pericoli per il senso del paesaggio dalla vacanza culturale, dalla schiavitù dei tempi contingentati, dalla perdita degli ozi delle villeggiature.
Abatantuono, parvenu sul lastrico, si chiude in cantina con la famiglia tutto agosto, per poter poi raccontare di essere andato in vacanza (in Mari del sud, un film di Cesena del 2001). Ridiamo dello stratagemma paradossale, ma anche noi, cittadini che d’agosto in vacanza ci andiamo, non scherziamo quanto a paradossi masochisti.
Nonostante il caldo deprimente consideriamo un dovere spostarci dai luoghi dove stiamo il resto dell’anno per andare in altri luoghi. Un dovere verso noi stessi, un diritto che umilia chi non lo esercita: ci si deve spostare, a qualsiasi costo. E’ l’esito parossistico di un processo socioculturale che dura da oltre mezzo secolo.
I nostri padri e nonni che potevano permetterselo mandavano la famiglia in villeggiatura; nel racconto del ritorno risultano cinquanta o cento giorni di tempo libero, di ozi e amori: si tralasciano i tre o quattro giorni di viaggio e fastidi vari.
Lo stesso nella generazione di mezzo, dominata dall’ipnosi balneare, anche se si riducono i giorni feriali: alle truppe scelte di chi fa stagione con la seconda casa si accompagna l’esercito degli affittuari da mese, poi da due e ora da una settimana. Ma gli ozi e gli amori rimangono nell’orizzonte desiderato per il resto dell’anno: cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso, eccola qua…..
Ma il cambiamento reale è nell’ultima generazione: quella del viaggio. I resoconti delle vacanze sono oggi pieni di spostamenti e di passaggi fastidiosi: fare e disfare bagagli, jetlag, pulire casa imprestata e/o penare per disguido prenotazioni, malessere per coda da museo e/o per sbornia, bronchite per temporale lungo il trekking e/o gastrite per rabbia di documenti rubati … Insomma il racconto delle vacanze di viaggio narra di un tempo occupato, senza ozi e senza amori, pieno di disavventure come nei romanzi del Marchese De Sade.
Non è solo un tempo occupato: è preoccupato. E’ un effetto perverso della nuova ipnosi Trivago e Airb&b, che ammalia con le sere di primavera passate a cercare voli low-cost e pacchetti scontati per l’estate, e a farne un puzzle perfetto per i venti giorni delle ferie, predefinite sin da Natale. Così ci si costruiscono gabbie: incastrati anche più che a casa, i nuovi turisti culturali si muovono nei tempi stretti di programmi self-made. Sono macchine ansiogene, come quelle tanto criticate dei viaggi organizzati, ma ora in più non ci si può neppure sfogare a criticare il tour operator.
Così si consolida non solo una metamorfosi del tempo libero classico, quello della vacanza: ma si avanza una nuova dimensione del viaggio.
Se la villeggiatura con i suoi ozi e amori chiede di essere ospitata in luoghi da abitare a fondo, dove ciascuno possa riconoscere lo spazio per le proprie identità e abitudini (per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia, stesso mare), la vacanza in tour ci proietta nell’universo del collezionista. Ogni anno i viaggi consentono di arricchire le bandierine sull’atlante personale con molti luoghi diversi. E’ una spinta compulsiva: i luoghi si raggiungono, benché vada si visitano, ovviamente non si abitano. Né si vogliono abitare: la frase “Là ci siamo già stati” non fa scegliere una meta, al contrario, la fa escludere. Non è ritenuta importante la frequentazione di un luogo, la ripetizione rassicurante di atti e visuali, che il senso di abitare comporta.
D’altra parte anche la meta e gli spostamenti non contano: ci sono solo tappe. Il viaggio delle ferie è spesso un itinerario da seguire come un gioco dell’oca, non un viaggio verso qualcosa o da gustare nel percorso. E’ un effetto perverso che coinvolge anche i prodotti della moda slow: si va in aereo sino alla partenza dell’itinerario da fare in bici, e ogni giorno va compiuto il tragitto prefissati sino a giungere al traguardo di tappa, dove troveremo i nostri bagagli e un drink di benvenuto. E così via giorno dopo giorno per tutta la settimana, poi aereo e a casa. Fine del viaggio e della vacanza. Dopo un giorno passa anche il male al sedere.
Se si tolgono gli eventi logistici, per lo più memorabili per le pene del corpo, nel racconto c’è poco spazio per ciò che si è visto. La facilità a lasciare una scia di selfie e video da postare riduce i tempi per assorbire gli effetti di un luogo e quindi per poterne parlare. E, come sappiamo, ciò che non si racconta non si memorizza, e dopo qualche mese non è mai accaduto: si guardano foto con occhi smarriti … Dove eravamo qui?… avevo il pareo fucsia… quindi era il 2014 e quindi DOVEVAMO essere a Mikonos.
Dentro questa macchina che costringe il tempo e lo spazio della vacanza in un data base predefinito e in una collezione di ricordi di disavventure, che fine fa il paesaggio?
Non è una domanda oziosa (magari!): al modello del viaggio culturale affidiamo le speranze di sviluppo del nostro turismo e al nostro turismo affidiamo le speranze di sviluppo del nostro Paese. Promuoviamo al massimo l’ospitalità delle città d’arte, includiamo borghi e monasteri, incentiviamo il riuso turistico di case sottoutilizzate, alimentiamo sulla rete l’immenso bengodi delle scelte di itinerario. E in questo marketing dell’Italia intera “paesaggio” fa brand quanto e più che “museo” (anche se ormai meno che “cucina stellata”).
Dunque, se in vacanza facciamo i turisti, in vacanza il paesaggio ci tocca. Ma è il paesaggio a cui pensa il ministro quando dice: Paesaggio italiano, elemento per attirare il turismo colto? (titolo del resoconto della Giornata del Paesaggio, il 14 marzo scorso).
L’archetipo del turista colto che gode del paesaggio è ovviamente il cilindrato solitario di C.D.Friedrich che guarda il mare di nuvole dalla vetta di un monte; ma quell’archetipo benemerito è rottamato la realtà delle folle che impediscono di camminare non solo in piazza S.Marco, ma anche lungo i sentieri delle 5 Terre o le ascensioni ai 4000 alpini.
Quei paesaggi (come ogni paesaggio) sono fatti dalla relazione che si stabilisce con il luogo, e se il luogo è pieno di gente, questo aspetto determina significativamente la relazione. Piazza S.Marco piena di gente in maschera è un altro paesaggio di quella stessa piazza vuota con luci serali. E’ ovvio, ma il turista compulsivo finge di non saperlo, e visita Kyoto, Machu Picchu e Selinunte, tra le 13 e le 16 del 12 agosto, come che siano, pensando di assaporarne il paesaggio.
Mente a se stesso.
Il turista colto sa (o almeno dovrebbe sapere) che il senso del paesaggio non è un dato, non è dato. Anche se non chiude mai, se puoi sempre vederlo, può capitare che un paesaggio famoso non ti generi alcun senso notevole, non tanto per colpa sua quanto perché in quel momento tu non sei in grado di entrare in contatto con quel luogo (e tu hai solo quel momento). Trascuriamo che il paesaggio è frutto di una metabolizzazione interna della relazione con l’esterno, che richiede di entrare in sintonia con il luogo per poterne cogliere aspetti che risuonano con le nostre capacità di comprensione.
E’ frutto di un lavoro che richiede tempo, in un processo che mette in sequenza attenzione (tensione verso), contemplazione (portare al templum, cioè all’orizzonte definito in cui sappiamo relazionarci con il contesto indefinito), riflessione (rivolgimento di se stesso verso). Le definizioni tra parentesi, prese dal vocabolario etimologico, dicono in generale ciò che faceva mio nonno ogni estate, sistemata la famiglia in una casetta in affitto di mezza montagna: portava con la bici il cavalletto, una tavola di compensato e la tavolozza dei colori in un punto panoramico solitario e lì, pomeriggio dopo pomeriggio, pennellata dopo pennellata, dipingeva quello che vedeva, con un fiore profumato in una narice.
Paesaggio: lavoro che ha bisogno di tempo, di ozio e di amore.
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni
Quando il gioco si fa duro…Il progetto di sviluppo alla prova del sisma
Dov’era come sarà: il motto del seminario di Symbola 2017 apre al futuro senza ipotecarlo e motiva, ancora per un po’, le mille iniziative locali che però sono in affanno a uscire dall’infinita emergenza e dalla immane fatica imposta dalla complessità dei problemi e dalla loro incredibile amplificazione burocratica.
Il titolo del seminario Il senso dell’Italia per il futuro sottintende ... dopo il sisma. Ermete Realacci, Fabio Renzi e i loro amici hanno messo insieme una serie di teste pensanti e operanti, mostrando che non mancano le capacità di visione e le prospettive di futuro, anche in una situazione drammatica come quella del “cratere”. Cratere, termine odioso, indica però la dimensione epocale della tragedia, che ha provocato 150.000 senza tetto, oltre 300.000 edifici colpiti, di cui oltre 1200 tutelati, 12.000 beni culturali da proteggere.
Con un’efficacia stupenda nel giro di pochi giorni dagli eventi le persone sono state messe al sicuro (e le quasi 300 vittime sono meno di quelle che la devastazione poteva provocare). Il territorio, con uno strenuo lavorio collettivo coordinato dai sindaci, ha metabolizzato più che poteva le ferite alle famiglie e alle attività: moltissimi hanno trovato posto nelle case vuote non danneggiate, qualcuno ha ricominciato il lavoro anche se in condizioni difficili, in certi nuclei si è subito reso accessibile il cuore del centro, a costo di mille impalcature. Sin qui la superba reazione locale: dove si può la vita continua.
Ma il sisma ha piegato intere economie, ha cancellato comunità, ha fatto cadere ogni ipotesi di tirare a campare per terre e generazioni pregiate ma già in bilico sull’orlo della povertà. Da tempo per queste terre si richiede una strategia di valorizzazione delle risorse sottoutilizzate dal modello metropolitano. E’ un tema che percorre la montagna italiana e che da decenni deve essere raccolto e coordinato dallo Stato.
Ma a quel livello siamo in gravi difficoltà. Per le prospettive e per le urgenze.
Dal livello locale in su la macchina del dopo terremoto non si è ancora mostrata in piena attività, ed è passato quasi un anno. In parte questo ritardo è dovuto all’emergenza che continua (decine di migliaia di scosse sino a ieri hanno logorato nervi e murature), in parte è dovuto all’immensità del territorio sconvolto (140 comuni di 4 regioni – per l’Aquila erano 57 di una sola regione), ma in parte importante è dovuto all’incapacità dei decisori centrali di far fronte in tempi brevi alla normalizzazione delle attività e dei servizi, e soprattutto di spendere energie e risorse per la rifondazione delle comunità locali.
Ma via, non siamo pessimisti… ci sono notizie che ci fanno pentire di esserci lamentati dello Stato. Ad esempio la Gazzetta ufficiale del 14 febbraio 2017 porta in allegato un documento programmatico: «RESTART - Per la strategia di sviluppo del territorio dell’area del cratere». Meraviglia!
Dopo qualche riga, ci si accorge che si tratta del cratere de L’Aquila, formatosi nell’aprile del 2009. Otto anni per dire a quei poveretti che cosa le istituzioni pensano (di pensieri si tratta) per aiutare il loro futuro. Senza rilevare che nel frattempo un altro sisma, con oltre il doppio di danni, ha colpito lì vicino e messo in ginocchio ulteriormente la già fragile situazione socioeconomica di quelle aree interne.
Il tempo non passa nei ministeri. La programmazione è desueta anche come termine (roba da piani quinquennali dei soviet).
Il Governo ora agisce stanziando fondi che il Commissario distribuirà attraverso complessi slalom tra la burocrazia, attenta a ogni sospetta corruttela o spreco formale (con Cantone che sorveglia), tra le soluzioni standard delle tecnostrutture specialistiche, ciascuna attenta al suo specifico e indifferente all’effetto complessivo, tra le pressioni di ciascun sindaco, che ha in casa un assortimento diversamente combinato delle medesime urgenze, sempre più ribollenti e in attesa di risposta.
Ad esempio: si decide di far casette vicino ai centri per ricoverare d’urgenza i senza tetto, ma si impediscono le soluzioni autonome dei singoli. La soluzione deve essere standard: appalto da molte migliaia di casette (problemi per Cantone, of course). Tutte le casette devono essere allineate come in un accampamento militare su platee urbanizzate che però si dovranno demolire a fine emergenza. I tempi di realizzazione e i costi sono quadrupli di quelli delle soluzioni autonome, e a un anno le casette tardano a essere pronte (128 su oltre 6000).
E’ chiaro che non c’è visione di futuro né gerarchia di priorità in questi processi decisionali, razionali forse a una visione settoriale dell’immediato, ma che sembrano caotici se visti dall’esterno, dalla gente, che ne riceve solo gli esiti come sentenze di un autocrate alieno.
Occorre reagire alla brutta botta ricevuta… bisogna ripartire dai fondamentali: il coraggio di darsi una mossa, insieme. Allora: se (e sottolineo SE) c’è un processo decisionale razionale per dare servizi, non solo andrà comunicato nelle sue motivazioni, ma andrà condiviso, in quanto processo, con la gente che si sta servendo. Non è una modalità di democrazia (e basterebbe!) è una modalità di efficienza e di efficacia: è noto che le situazioni complesse richiedono requisiti generali uniformi e soluzioni flessibili. E’ noto che i pensatori a tavolino sono forse capaci a dare la rotta, le regole, ma che in ogni luogo la gente la sa più lunga, in tema di adattamenti alle necessità locali. Qui, in questi mesi, sembra che i requisiti generali non siano mai stati discussi e stabiliti e, in compenso, le soluzioni siano rigide.
Dal seminario di Symbola esce un contributo di merito e di metodo, positivamente integrati sul primo tema: metterci d’accordo sui requisiti generali. Non si tenta una risposta all’emergenza, ma ci si preoccupa di dare speranza, dell’orizzonte largo, del futuro della generazione che crescerà nel dopo-sisma.
Dal seminario emergono alcuni punti forti da radicare in una prospettiva condivisa, in un ordine di priorità indispensabile per partire insieme, comunità e istituzioni, subito, come una barca che salpa sulla scorta di una nuova velatura, e non rattoppa un telo da tempo logoro e definitivamente stracciato dal sisma.
E’ il tentativo di dare spazio alle strategie di fondo, da anni nell’aria ma mai fatte proprie dalle comunità locali, che ora devono diventare l’ossatura forte della ricostruzione. Per i loro temi si chiedono discussioni e ma poi, velocemente, indirizzi e requisiti, decisivi già per l’urgenza, utili subito, per i prossimi mesi, ma da mantenere in vista dei prossimi lustri.
Bastano cinque punti usciti forti dal teatro di Treia a dare il senso di un’impostazione preziosa, alla quale richiamare tutti i decisori, politici e tecnici.
Prima la comunità e quindi Prima la sicurezza
Prima di tutto la sicurezza delle persone, perché è un bisogno essenziale a meno del quale la gente se ne va e la comunità si scioglie. Senza la continuità della comunità non ha senso (cioè non possiamo capire il significato) di tutto il resto, tra cui la conservazione delle testimonianze. Le testimonianze, che chiamiamo Beni culturali, sono cose che segnano la storia della comunità e del territorio e che comunque testimonieranno di questa violenza naturale e del modo storico con cui ad essa si è reagito: non ci sarà da nascondere l’intervento del XXI secolo che mette in sicurezza i luoghi dove abitare e da visitare, ma da vantarsene nei secoli a venire.
Come sarà non è dato ma è bene che sia green, smart e glocal
Nulla sarà come prima, anche i luoghi-simbolo dell’identità locale saranno diversi perché sarà cambiato il loro contesto, la loro vicenda costruttiva (che diventa ricostruttiva), lo sguardo dell’abitante che ha riconquistato il suo posto e del visitatore, che sarà ammirato per la vicenda di oggi più che per il bene fisico. Ma allora, se questa è un’occasione di nuovo insediamento, studiamo il meglio: promuoviamo il cratere come luogo della sperimentazione dell’abitare sostenibile, della produzione impregnata di economia circolare, delle relazioni immateriali garantite dalla banda larga, della ricostruzione dei beni antichi che testimoni anche la contemporaneità. I luoghi sono adatti, per l’intenso ed equilibrato rapporto storico città-campagna, per la tradizionale sobrietà delle comunità e laboriosità dei suoi artigiani.
Rinsanguare le reti di prossimità, nodi di reti lunghe
Il territorio devastato è patria di uno dei caratteri italiani più straordinari: una rete di paesi che sono stati città, dove la parola Comune risuona ancora del suo significato, dove le attività tradizionalmente si integrano in filiere e l’innovazione viene metabolizzata costantemente. Le distanze fisiche ridotte, il territorio diversificato ma da sempre percorso in lungo e in largo, l’essere in mezzo tra grandi città e linee di traffici millenari hanno abituato questi borghigiani ad essere cittadini, del loro comune e del mondo. Anche qui bisogna sperimentare, perché sinora poco si è fatto per le reti (si cita il Distretto culturale evoluto che le Marche tentarono qualche anno fa), ma non si possono perdere queste continuità, queste tradizioni di prossimità che sono la risorsa più particolare su cui contare per lo sviluppo locale. Così questi territori possono costituirsi come laboratori utili per tutta l’Italia non metropolitana, quella che oggi finalmente cominciamo ad apprezzare per uscire da una crisi infinita.
Partecipazione continua nella nuova progettazione
I commissari cominciano ad aver paura a partecipare agli incontri perché sanno che la gente comincia a non poterne più di aspettare, senza informazioni se non promesse via via procrastinate. La comunità dispersa rischia di riunirsi in protesta, quando sarebbe preziosa se riunita in progetto, in partecipazione diretta alla ideazione delle iniziative di ricostruzione. Dove ciò avviene, per l’abilità di qualche sindaco o di altri illuminati, il progetto locale va assolutamente seguito, accompagnato, agevolato, perché è solo sentendo propria la battaglia per abitare nuovamente che poi, nei prossimi anni, si avranno le forze per rimanere e riabitare luoghi ora ingrati: ogni progetto è bello a chi l’ha pensato.
Dare un segno di partenza: liberarsi dalle macerie
Se i punti precedenti sono stati espressi con forza, l’ultimo (ma primo per partire) si legge sottotraccia, come una sorta di subconscio affiorante: rimuovere lo scandalo delle macerie.
E’ incredibile che non ci si renda conto della violenza che le macerie e l’inagibilità dei centri provocano nell’animo degli abitanti. Ciò che si abitava ora è un imponente caos, privo di senso, se non quello della frustrazione di ogni tentativo di riabitare, del divieto di ritornare. Lasciare marcire le cose e le case di un paese, ridotte a montagna indistinta o a luogo deserto, è come lasciare marcire un morto per strada. Come quello non è trattabile come settanta chili di carne, così le macerie non possono essere ridotte a un rifiuto speciale: sono un corpo sacro, che ha bisogno di una liturgia della separazione e della sparizione, di un luogo di sepoltura vicino, dove la comunità riconosca il proprio passato. Ogni comunità scelga dove eleggere quel luogo e poi via, con la massima velocità, si tumulino le macerie e si restituisca il paesaggio liberato alla gente, dove progettare il proprio futuro. E non dite che ci sono rischi per la salute, visto che sinora si sono lasciate all’aria per un anno, e non dite che ci sono problemi di proprietà o di reperti d’interesse culturale. Sono certo che i tecnici sapranno rendere accessibili le piazze e i locali dei centri ancora in piedi, sapranno minimizzare il danno di una tumulazione indifferenziata. Ma da lunedì si deve cominciare e finire al più presto, con i mezzi a disposizione, senza appalti giganti: su questo lasciate fare ai sindaci, guardati a vista dai loro cittadini.
Poi, con la mente e il paesaggio più sgombro, si può dare spazio al progetto e alla speranza.
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni
Centri? Storici?
Dopo 30 anni dietro le quinte il tema dei centri storici ritorna in primo piano, perché sul territorio nessuna battaglia è vinta per sempre e di nuovo minacce di cambiamento violento incombono sul cuore delle città italiane. Perché come sempre mancano gli equilibri: il troppo e il troppo poco devastano. Questa volta il killer è il turismo, ma lo sceriffo bisogna cercarlo nei nuovi abitanti e nei nuovi city user.
ANCSA è il glorioso acronimo dell’Associazione nazionale centri storici e artistici, che tra il 1960 e il 1980 radunò il meglio della cultura italiana del territorio e la capitanò nella battaglia per la conservazione e la valorizzazione dei centri storici, vincendola. In Italia è l’unica battaglia del dopoguerra sui temi di cultura del territorio che si può dire vinta dai buoni: quella sul paesaggio è tuttora molto combattuta, mentre sulle periferie non si è neppure scesi in campo. La battaglia è stata vinta chiamando i sindaci e la gente ad una consapevolezza della risorsa fondamentale del territorio italiano: i centri sono il luogo identitario per eccellenza proprio per i segni sedimentati della loro storia.
Dal 1961 la Carta di Gubbio, atto di fondazione dell’Associazione, ci ha fatto rendere conto che il nostro centro storico è il luogo più significante della nostra identità, per ciascuno di noi, che abitiamo la terra dei mille campanili. Questo ha legittimato, politicamente e culturalmente, l’introduzione di un trattamento speciale per questo pezzo di territorio, in tempi di assoluta prevalenza della comoda “legge uguale per tutto”, che favoriva una falsa e banale omogeneità di trattamento nel costruire la città. Quindi, liberati dalla regola omologatrice, si sono inventati gli attrezzi più diversi per affrontare i problemi non solo del degrado fisico o dell’obsolescenza funzionale ma anche dell’inadeguatezza dei progetti fotocopia che dominano nel resto della città.
Comunque ci sono voluti decenni prima che diventasse pratica comune recuperare invece che demolire, riutilizzare invece che costruire ex-novo, pedonalizzare invece che allargare le strade. E’ risultato vincente associare alla conservazione l’innovazione, integrare l’attenzione ai muri e alle pietre con la cura degli aspetti sociali (dalla casa per i bassi redditi ai fondi per gli artigiani e i negozi tradizionali), valorizzare le particolarità e il progetto dello spazio pubblico piuttosto che l’omogeneità delle costruzioni e lo standard dimensionale dei servizi. L’aggettivo “storico” ha consentito di trattare il centro delle città come un pezzo di territorio a parte, con regole attente al particolare, del tutto diverse da quelle ordinarie dell’urbanistica.
La battaglia dei centri storici ha generato un’onda lunga, che ha portato ad ampliare l’oggetto di attenzione:
dal centro alla città, dalla città al paesaggio. Il luogo “centro” è parso riduttivo per definire il territorio da trattare con riguardo delle sue particolarità e l’ANCSA è stata nuovamente la sede in cui si sono promosse strategie per “la città storica”, poi per il “paesaggio storico urbano” (che sono state poi raccolte in una raccomandazione Unesco), e infine per il “territorio storico” (a cui Roberto Gambino ha dedicato l’apertura del convegno dei 50 anni dalla Carta di Gubbio, nel 2011).
Con il tema del “territorio storico” si è mostrato l’orizzonte della nuova sfida, aperta dalla Convenzione europea del paesaggio, per cui non è un tipo di luogo specifico ad essere particolare, ma un atteggiamento generalizzato di rispetto dei segni sedimentati dalla storia (non solo umana ma anche naturale) e di progettualità adeguata, attenta ai singoli casi, che va esteso a tutto il territorio.
Come sempre l’allargamento dell’orizzonte dal particolare al generale affascina la comprensione e rende eticamente ineccepibile ogni strategia di azione, ma contemporaneamente riduce la chiarezza del bersaglio e disperde le energie positive.
Infatti, l’attenzione alla interpretazione e al progetto della città e del territorio storico stanno bene influenzando la stagione dei piani paesaggistici e dei progetti di paesaggio, ma d’altra parte i centri storici non sono più all’ordine del giorno. Sono ormai inglobati in una procedura ordinaria di gestione urbanistica, che mantiene formalmente tutte le cure ormai stabilite per legge, ma è di fatto disattenta alle nuove dinamiche e ai processi trasformativi in corso.
E i centri non sono luoghi di quiete, come sembrerebbe se si bada alle cronache travagliate delle periferie o alle stragi di suolo perpetrate in aperta campagna. Nei centri si stanno consumando cambiamenti epocali, anche se quasi sempre lasciano intatti i muri e le decorazioni storiche. Nei centri i cittadini sono sempre più spesso solo city users, mentre vi pernottano ormai solo foresti: poveracci di altri continenti o turisti senza albergo.
Perciò l’ANCSA si mobilita di nuovo: in questi giorni pubblica un Libro bianco sui centri storici delle città italiane, in cui il CRESME ha curato un report statistico sulle dinamiche socioeconomiche recenti che investono i centri storici: gli alloggi diventati alberghetti, i rioni diventati ghetti. Nel libro questi fenomeni sono raccontati in numeri dal censimento del 2011, ma ne risulta solo una pallida avvisaglia del problema, che da allora si è moltiplicato fino a diventare priorità per le amministrazioni delle metropoli turistiche europee, da Barcellona a Roma, o delle città assediate dall’immigrazione, come a Genova o a Madrid.
Le trasformazioni dell’utenza senza modifiche fisiche hanno spiazzato le amministrazioni, abituate a gestire l’inanimato, nella (falsa) speranza che al controllo degli spazi conseguisse il controllo dei fruitori, animati. Tutto crolla quando centinaia di appartamenti normalmente sottoabitati da vedove e studenti, si sono magicamente tramutati in migliaia di stanze sovraffollate di turisti a buon mercato, svegli 24/24 e attivi 7/7. Un incubo metropolitano, che il centro storico ospita apparentemente “senza fare una piega”. Sono gli abitanti tradizionali a lamentarsi, mentre gli spazi pubblici e le case sembrano accoglienti senza fatica.
E’ proprio questa resilienza che merita una riflessione. Perché emerge una proprietà strutturale del “centro” (storico), che lo differenzia dal resto del territorio e che dà speranza per il suo futuro.
Innanzi tutto dobbiamo capire che ciò che oggi chiamiamo “centro storico” era La Città, nella sua interezza. In molti casi lo si legge perfettamente, soprattutto dove, data la modesta dimensione, la città antica si è conservata in tutte le sue parti e soprattutto nella sua struttura funzionale. Non un bonsai, ma un seme, un DNA di città, che contiene tutti gli elementi essenziali dell’identità italiana, che poi corrisponde a una comunità di piccola città, che mette parte del suo lavoro in comune (in Comune) e partecipa alla sua gestione. In qualche modo questo riferimento identitario profondo rimane, e non solo come ricordo per gli abitanti da generazioni, ma anche come fascino del visitatore: il centro storico in molti casi è l’unico fattore di paesaggio culturale universalmente riconosciuto, tanto che ormai dobbiamo studiare strategie per diradare l’affluenza turistica nei centri rinomati, mentre nessuno visita i mille monumenti e musei del territorio.
Poi va raccontata la storia del centro, ciò che lì è accaduto nei decenni e nei secoli: le sue cangianti utenze, l’enormità dei traffici e dei servizi per il territorio rispetto alle normali funzioni residenziali, il riempirsi e vuotarsi come un sacco periodo per periodo, il riuso selvaggio dei contenitori (nelle occupazioni, nei disastri, nelle guerre), e soprattutto il suo farsi e rifarsi. Perché come l’araba fenice il centro storico italiano rinasce dalle proprie ceneri, dall’abbandono, dalla distruzione. Ancora oggi ci pare ovvio rifare il centro di Amatrice dov’era e com’era, anche se è tecnicamente quasi assurdo. D’altra parte l’inerzia delle rendite fa sembrare ovvio costruire grattacieli in centro, anche se ormai è quasi assurdo, urbanisticamente.
La potenza della continuità del centro è dunque risorsa e dannazione per chi gestisce la città: le pressioni trasformative, compresa la ricostruzione, sono fortissime e spesso vincono.
Insomma dobbiamo accettare il fatto che quello che vediamo non è mai un complesso autentico, come è stato realizzato in un atto primigenio, ma che il centro storico è come Argo, il vascello di Giasone, che si rifà in viaggio, sede sperimentale di continue contaminazioni di usi e assestamenti di spazi, luogo delle più inedite interazioni tra culture e funzioni diverse. Insomma il centro storico è la palestra ideale per esorcizzare la paura delle trasformazioni, dove constatare la continuità identitaria molto al di là della costanza dei comportamenti e della permanenza dei muri.
Se la resilienza e la capacità di sperimentare interazioni e meticciati sono la caratteristica della storia dei nostri centri, allora possiamo anche progettare una strategia per affrontare queste nuove tensioni, senza aver paura delle novità, anzi puntando proprio ad esse. La febbre dell’airbnb passerà e si assesterà un nuovo modello di utilizzatore dei centri, che noi dobbiamo però coinvolgere nella loro tenuta, che non può solo sfruttare una risorsa millenaria, ma deve partecipare al processo. Dobbiamo impedire che il centro diventi luogo dove si congela lo status quo, dove le rendite di chi già sta impediscono le azioni di chi potrebbe essere il nuovo utilizzatore, dove si cerca di fermare il fluire della storia, come capita per i centri storici che si museizzano, o che diventano il centro degli affari della città moderna. Dobbiamo favorire chi viene ad abitare o a usare questi luoghi consapevole di un ruolo di innovatore, della responsabilità di navigante su Argo, dove mentre viaggi devi partecipare ad aggiustare e modificare la nave perché tenga il mare fino alla meta, cioè perché il centro si offra ai futuri visitatori e abitanti ricco di fascino come e più di oggi.
Insomma, per sintetizzare in uno slogan “la storia ci porta a favorire chi il centro se lo merita, perché dimostra di avere un progetto a suo favore”.
L’Associazione culturale Landscapefor ha in disponibilità una piattaforma digitale, di libero accesso sul web, in cui si stanno inserendo progressivamente materiali che illustrano le risorse culturali e ambientali del territorio. La piattaforma è esplorabile come data base georeferenziato in forma di elenchi (parole chiave), ma soprattutto di Atlante (vedi il sito www,landscapefor.eu).
Su Atlas Landscapefor sono reperibili gratuitamente, luogo per luogo e con semplicità, i documenti iconografici che aiutano a capire meglio il paesaggio urbano e non: carte e foto storiche, progetti, frame di film ambientati in quei luoghi, racconti di abitanti e di eventi, opere d’arte, attività e curiosità che possono interessare il visitatore. Le immagini sono accompagnate da brevi didascalie organizzate in modo da poter comporre per ogni luogo un racconto preordinato, leggibile immediatamente anche con tablet o smartphone,
Gli studenti sono fruitori ottimali dell’Atlante, che utilizza un mezzo a loro famigliare come il web, mette in campo immagini e un linguaggio svelto stimola la conoscenza storico geografica del territorio.
Il progetto Atlas Landscapefor per la scuola propone di far svolgere agli studenti non solo il ruolo di fruitori ma anche quello di PRODUTTORI di parte dell’Atlante. Infatti con il Progetto, inserito nei programmi di alternanza scuola-lavoro, si mettono gli studenti in condizione di utilizzare il software dell’Atlante per produrre ricerche di materiali, organizzati in appositi comparti separati dal resto dell’Atlante, secondo un progetto condiviso tra scuole e associazione, con l’accompagnamento dei tecnici di Landscapefor e il coordinamento e l’assistenza dei tutor scolastici.
Il prodotto di ciascuna scuola, per la parte ritenuta presentabile da un’apposita commissione, può essere pubblicato nella parte di Atlante accessibile a tutti. Gli studenti diventano di fatto redattori di una parte dell’Atlante. In questo modo partecipano a un’importante impresa culturale, acquisendo elementi di un’impostazione metodologica professionale:
Il progetto Atlas Landscapefor per la scuola è stato presentato nel 2016 al Miur e al Mibact, ed è stato testato con successo in 6 classidi 3a e 4° superiore (4 di liceo) di due Istituti (Avogadro di Torino ed Erasmo di Nichelino), con un modulo di alternanza scuola lavoro di 80 ore per quasi 150 studenti. Il contributo ad Atlas di quelle classi è stato presentato dagli studenti stessi in una manifestazione pubblica il 31 maggio 2017 ed è on-line su Atlas Landscapefor (archivio Alternanza scuola-lavoro).
Per il 2017/18, anche in riferimento all’anno ONU del Turismo sostenibile, si propone uno sviluppo del progetto: utilizzare il modulo già testato per far presentare agli studenti il proprio territorio ad altri studenti, in una rete di reciprocità e di scambi tra scuole, da attivare a livello nazionale.
Gli studenti di due classi di ogni scuola partecipante inseriranno in Atlas materiali per illustrare 50/60 punti di interesse della loro città (o di un quartiere, per le città maggiori), in parte predefiniti e in parte individuati dagli studenti stessi. Queste presentazioni, inserite in rete, si propongono come offerta per organizzare viaggi e visite didattiche di altre scuole. Costituiscono la base di uno scambio diretto e possibilmente reciproco tra i ragazzi che hanno lavorato sull’Atlante, offrendo gli agli altri anche un riscontro di utilità del proprio prodotto.
Per ottenere questi risultati è fondamentale un utilizzo sistematico della rete predisposta dall’Atlas Landscapefor, che consente di svolgere il lavoro di apprendimento, di ricerca, di redazione, di discussione e di comunicazione dei materiali dell’Atlante quasi completamente on-line, con strumenti di dialogo, accompagnamento e monitoraggio in tempo reale, tra studenti e tutor esterni o tra studenti di scuole diverse.
Quindi da una parte il percorso di alternanza scuola-lavoro si propone agli studenti anche come esperienza di smart working, quella che si prospetta come una delle modalità che diventeranno più diffuse per il lavoro intellettuale. Anche la parte formativa del progetto viene erogata come E-learning, la modalità che costituisce ormai lo strumento fondamentale di formazione permanente e degli aggiornamenti specifici richiesti per ogni inserimento in un’attività produttiva. In questo caso si tratta di una formazione e di prove di lavoro a distanza, ma assistiti in ogni momento da esperti dedicati, e in parte accompagnata in aula da insegnanti.
D’altra parte la proposta stimola l’autonomia e la capacità “imprenditoriale” dei ragazzi di documentarsi, informarsi ed elaborare in piccoli gruppi (max 3 studenti) i materiali utili per la documentazione da inserire nell’Atlante. Anche per questo aspetto si tratta di un esperimento che comporta una certa gradualità: si prevede che gli studenti si addestrino a muoversi prevalentemente da soli in un percorso di ricerca di cui però sono dati i riferimenti principali e la dovuta assistenza. Nel programma infatti si prepara, d’accordo con i tutor scolastici, una scelta dei territori, degli oggetti di attenzione principali e una “cassetta degli attrezzi”: un repertorio di cartografie storiche, di indirizzi dei siti o degli archivi dotati di immagini (con accordi con le biblioteche locali), tutorial con le modalità per esplorare direttamente il territorio, fare interviste, girare video, etc.
Le modalità organizzative del programma sono direttamente orientate agli obiettivi: introdurre alla capacità di ricerca ed elaborazione immagini e testi per descrivere un territorio, alla capacità di lavoro in team indipendente, alle modalità dello smart working e dell’ e-learning.
Infatti nel programma si prevede che le attività della parte “operativa” siano svolte in buona parte (20/25 ore) sul territorio, indirizzate dai tutor ma con indipendenza dei ragazzi, al di fuori degli orari scolastici.
Per il resto (in particolare nella fase iniziale e nelle verifiche da condurre nella parte operativa, l’attività si svolge in aula (con dotazione di un computer con accesso internet per ogni 3 studenti). Ciascuna scuola individua e concorda con Landscapefor tempi e modalità delle attività, dell’occupazione delle aule, scegliendo se in orario scolastico o extra e con quale assistenza degli insegnanti, concordando le date e gli eventuali aggiustamenti del programma.
In aula gli studenti possono essere assistiti da un docente che, in orario scolastico, li accompagna, in particolare per le parti di redazione dei testi delle didascalie che accompagnano i materiali multimediali e per la loro traduzione in altre lingue.
Sia in aula che sul territorio gli studenti hanno l’accompagnamento e l’assistenza continua a distanza degli esperti Landscapefor, che comunicano in videoconferenza con ciascun gruppo in aula, e con una chat testuale con tutti quelli che ne hanno necessità in qualsiasi momento.
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni
Pescatori cercasi per reti inutilizzate
Ormai non c’è convegno che non inneggi alle sinergie, alle intese tra soggetti, ma stentano ad affermarsi esperienze in cui davvero si attivino connessioni stabili, tra operatori complementari diffusi sul territorio, reti di pescatori che valorizzino le ostriche e non solo le perle.
Giocassimo a Bridge, saremmo nella fase delle dichiarazioni. Nello scorso mese in almeno tre appuntamenti importanti di associazioni o istituzioni si sono sottoscritte conclusioni qualificanti, dove brilla l’impegno a collaborare tra i soci e a promuovere sinergie derivanti dalla cooperazione con gli altri soggetti del territorio.
Per il convegno più rilevante, promosso da ICOMOS (il Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti, organo consultivo dell’UNESCO) a Firenze, a margine del G7 della Cultura, il neo presidente Laureano ha messo in evidenza il potenziale sottoutilizzato delle associazioni e delle fondazioni come humus del territorio, agente reticolare diffuso, unico che può far crescere in modo capillare il rispetto e la capacità di valorizzazione del patrimonio. Terminata le relazioni con l’appello a fare reti, la platea si è divisa in 14 gruppi tematici, per discutere e approfondire le tesi principali. Nessuno dei 200 partecipanti ha fatto notare che quello non era certo il modo migliore per avviare in pratica le sinergie che tutti avremmo voluto elaborare. Ormai ci siamo abituati, nei convegni numerosi, a veder suddividere la sessione di approfondimento in lavori tematici paralleli: è il modo più semplice per dare voce a 200 persone, posto che ormai non si partecipa ai convegni se non per intervenire. Ma democratizzando i palchi si sono svuotate le platee: più sono gli oratori minore è la disponibilità all’ascolto. E’ ovvio: se sono invitato a un convegno alla settimana per relazionare in un ambito specifico, dopo un paio di mesi riconoscerò tutti i possibili partecipanti al gruppo tematico, e finirò per annoiarli con le stesse considerazioni, per profonde che siano, cercando di non stare a sentire le loro, ugualmente ripetute. E d’altra parte non potrò mai sentire gli avanzamenti del tavolo tematico vicino, per me sicuramente interessanti.
D’altra parte la suddivisione per ambiti tematici è un criterio organizzativo nefasto ma ormai prevalente, dove si accetta un’impostazione concettuale riduzionista, che descrive il mondo assumendo come dominante un singolo aspetto e trascurando gli altri. La comodità nella descrizione si paga con la deformazione della realtà, che è sempre complessa e non riassumibile in specifiche singolarità e soprattutto con la perdita delle relazioni complementari, quelle che danno potenza alle reti, correlando in modo funzionale aspetti diversi. Questa alterazione inquina pesantemente non solo i convegni ma anche le pratiche dei sistemi relazionali. Ad esempio, la gran parte dei patrimoni diffusi viene presentata come insieme tematico. Ce lo insegna l’UNESCO quando seleziona i beni seriali: i Paesaggi vitivinicoli, il Barocco in val di Noto, le Ville Palladiane, i Palazzi dei Rolli a Genova. Sono scelte che andrebbero verificate dal punto di vista scientifico, ma in ogni caso sono dannose quando vengono tradotte in pratica in modo rigido, banalizzando il concetto di rete e l’idea stessa di territorio Ad esempio i gestori locali finiscono per evidenziare gli itinerari che uniscono, come in un gioco enigmistico, i punti segnalati come siti (in Piemonte i vigneti, in Sicilia le chiese, in Veneto le ville, a Genova i palazzi), perdendo tutti gli effetti dei paesaggi rurali e urbani che li contengono. Non ci si rende conto che il turista non va di chiesa in chiesa, ma visita il territorio nel suo complesso, affascinato non da una sequenza di facciate barocche (o di versanti a vigneto), ma dalle cittadine che le sorreggono, dal paesaggio di contesto, fino al mangiare locale, alla cortesia dell’oste. Non ci si rende conto che in Italia il bene patrimoniale eccezionale è l’ostrica e non la perla, è la matrice territoriale, unica per storia e con un metabolismo tuttora vivace, e non il prodotto d’eccellenza, che è spesso ridotto a simbolo statico, in concorrenza con mille altri capolavori nel mondo.
Se il patrimonio fondamentale è il sistema generativo delle qualità vive del territorio, le nostre attenzioni di “conservatori” devono essere rivolte in primis agli aspetti relazionali che rendono funzionale il sistema: più ai soggetti che agli oggetti, più alle reti che integrano competenze e prodotti diversi che a quelle monotematiche, più alle alleanze tra soggetti complementari (come ad esempio tra enti locali e associazioni del III settore) che tra soggetti omologhi. Sono relazioni poco dotate di strumenti, mai promosse delle istituzioni, vive nonostante. Dobbiamo portare alle luce le reti fondate su relazioni fertili, quelle che fanno i sistemi vivi, che Piaget chiama morfogenetici, di collaborazioni tra soggetti attivi e luoghi.
Il territorio è già fertilizzato da relazioni spontanee, funzionanti in base a fattori di integrazione e di prossimità tra iniziative locali e attrattori di visitatori. Ma tutto accade senza visibilità né coordinamento, con una fragilità e una debolezza dovuta alla solitudine e alla ridotta dimensione, spesso con soggetti che si impegnano in progetti interessanti all’insaputa dei loro vicini, o degli enti locali che dovrebbero costituire il loro riferimento.
Quello di cui abbiamo bisogno è il racconto del paesaggio attivo, genere poco praticato in Italia, dove invece c’è ormai una domanda significativa e curiosa di conoscere persone e attività. Manca la capacità di rispondere a quella domanda. fare Storia a partire dalla Cronaca, che è testimonianza del tessuto, su cui poi crescono le grandi opere come i lavori di ordito su un canovaccio preesistente e resistente. C’è bisogno di una mappa da aggiornare sistematicamente, importante e necessaria per colmare i vuoti enormi che lasciano le guide, riportando, quando va bene, solo le connessioni tra oggetti monumentali e paesaggi inattivi.
Le ragioni di queste mancanze e del ritardo con cui cerchiamo di intervenire vengono da lontano. Da quando gli ambientalisti ci hanno insegnato le potenzialità delle iniziative glocal, dove il radicamento locale si rafforza con reti lunghe, di confronti e conoscenze a livello mondiale, la componente global si è ingigantita, appoggiata alla rivoluzione del web. Ci pare di poter accedere all’intero sapere del mondo, o almeno alle attività in corso, in un clic. Non badiamo alla modalità con cui il clic seleziona gli argomenti di interesse: le parole chiave. E’ una modalità che comporta una organizzazione della conoscenza su base tematica, certo la più efficiente e veloce, ma con i difetti di semplificazione della complessità che abbiamo visto.
I semiologi ci insegnano che il nostro modo di comunicare (e probabilmente anche di pensare, dando un senso a ciò che percepiamo) è una pratica di sintesi continua tra un asse di comprensione tematico, in cui lo stimolo rimanda a concetti generali o a esperienze memorizzate, e un asse di comprensione delle regole di prossimità (tra le parole, tra le parti di una immagine) che consentono di capire l’insieme di quello specifico messaggio, stando attenti alle relazioni presenti in quello specifico caso. Senza questa parte (che chiamano delle relazioni sintagmatiche, come le regole della sintassi) capiamo solo frammenti, sillabe, e perdiamo il senso del discorso, dell’insieme.
Ecco: noi abbiamo drogato con il web la nostra attenzione alle reti tematiche globali e abbiamo lasciato rattrappire la competenza a capire con le relazioni locali, invertendo le dominanze vive sino a 30 anni fa, nelle civiltà contadine e urbane radicate, che proprio sulle relazioni locali, di diretta esperienza, fondavano la loro ragione pratica.
Ecco: ci occorrono nuovi pescatori che sappiano tendere reti locali, che ritrovino e raccontino le potenzialità della complessità, non delle parole chiave lanciate attraverso il mondo, ma delle vicinanze intriganti, della serendipity nascosta nei nostri paesaggi attivi.
Selezione dei POI più completi realizzati da 150 studenti degli istituti Erasmo da Rotterdam di Nichelino e Avogadro di Torino, in un percorso di Alternanza Scuola Lavoro di 80 ore. Le aree interessate sono: Nichelino, la fascia del Po di Torino, i quartieri di Vanchiglia e Regio Parco.
Nell’Aula magna dell’Istituto Avogadro di Torino il 31 maggio 2017 è stato presentato il lavoro svolto nel 2017 dagli studenti, sperimentando Atlas Landscapefor nel quadro del programma di Alternanza scuola-lavoro.
Quattro classi di terza liceo scientifico e due del tecnico-industriale (elettrotecnico e informatica) hanno imparato ad utilizzare il software di redazione dell’Atlante dell’Associazione Landscapefor e hanno cominciato a descrivere un centinaio di punti di interesse dei quartieri di Vanchiglia e Regio Parco e dell’area di Nichelino, inserendo i materiali in una parte dell’Atlante ad essi riservata.
La descrizione è avvenuta, come di regola sull’Atlas, attraverso immagini e video, accompagnati da una breve didascalia, direttamente fruibili dal web, anche su tablet o smartphone.
La sequenza delle immagini, a partire dall’inquadramento nel contesto, alla storia, ai progetti, agli eventi, alle interpretazioni artistiche, viene organizzata fino a costituire un racconto dei luoghi, che documenta su aspetti non immediatamente leggibili e aggiunge spunti emozionali per il visitatore.
Il lavoro ha occupato 80 ore, di cui circa 20 di istruzioni e prove, mentre l’attività diretta ha occupato 3 moduli da 20 ore. Per le classi del Liceo Erasmo è previsto lo svolgimento del programma completo proposto dall’Ass.Landscapefor, di 5 moduli per complessive 120 ore (le restanti 40 nel 2018).
Gli studenti, in gruppi di tre, hanno lavorato prevalentemente in modo autonomo, con una ricerca di materiali e l’inserimento in Atlas, assistiti con una chat di dialogo immediato per tutti i problemi.
All’inizio di ciascun modulo si è spiegato, con incontri in aula, il funzionamento e le regole di Atlas e si è verificato l’avanzamento del lavoro dei gruppi.
Il lavoro di ogni studente è rendicontato analiticamente, attraverso il controllo dei suoi accessi al programma e del volume e qualità dei documenti inseriti e della loro organizzazione.
Una commissione formata dai tutor (scolastici e dell’Associazione) e da un esperto esterno (Andrea Longhi, professore di Storia della città e del territorio del Politecnico di Torino) ha selezionato i 50 punti di interesse redatti dagli studenti che sono adatti ad essere pubblicati (inseriti in Atlas nell’archivio “Alternanza scuola-lavoro”).
La presentazione è stata anche l’occasione per iniziare a verificare la possibilità di utilizzare l’Atlante come piattaforma dove ospitare le diverse esperienze di ricerca e di lavoro sul campo degli studenti delle scuole dell’area metropolitana, attinenti la conoscenza della città e del territorio e della sua storia sociale e industriale.
In questa prospettiva l’Associazione Landscapefor si impegna a programmare per il prossimo anno scolastico una proposta di Alternanza scuola-lavoro che non solo riproduca l’esperienza del 2017, migliorandola e arricchendola, ma consenta anche di pubblicare e mettere a sistema il lavoro di ricerca delle scuole dell’area metropolitana interessate, costituendo un vero servizio di rete per la città.
Gli studenti imparano a raccontare il territorio con strumenti innovativi
Nell’Aula magna dell’Istituto Avogadro di Torino il 31 maggio 2017 è stato presentato il lavoro svolto nel 2017 dagli studenti, sperimentando Atlas Landscapefor nel quadro del programma di Alternanza scuola-lavoro.
Quattro classi di terza liceo scientifico e due del tecnico-industriale (elettrotecnico e informatica) hanno imparato ad utilizzare il software di redazione dell’Atlante dell’Associazione Landscapefor e hanno cominciato a descrivere un centinaio di punti di interesse dei quartieri di Vanchiglia e Regio Parco e dell’area di Nichelino, inserendo i materiali in una parte dell’Atlante ad essi riservata.
La descrizione è avvenuta, come di regola sull’Atlas, attraverso immagini e video, accompagnati da una breve didascalia, direttamente fruibili dal web, anche su tablet o smartphone.
La sequenza delle immagini, a partire dall’inquadramento nel contesto, alla storia, ai progetti, agli eventi, alle interpretazioni artistiche, viene organizzata fino a costituire un racconto dei luoghi, che documenta su aspetti non immediatamente leggibili e aggiunge spunti emozionali per il visitatore.
Il lavoro ha occupato 80 ore, di cui circa 20 di istruzioni e prove, mentre l’attività diretta ha occupato 3 moduli da 20 ore. Per le classi del Liceo Erasmo è previsto lo svolgimento del programma completo proposto dall’Ass.Landscapefor, di 5 moduli per complessive 120 ore (le restanti 40 nel 2018).
Gli studenti, in gruppi di tre, hanno lavorato prevalentemente in modo autonomo, con una ricerca di materiali e l’inserimento in Atlas, assistiti con una chat di dialogo immediato per tutti i problemi.
All’inizio di ciascun modulo si è spiegato, con incontri in aula, il funzionamento e le regole di Atlas e si è verificato l’avanzamento del lavoro dei gruppi.
Il lavoro di ogni studente è rendicontato analiticamente, attraverso il controllo dei suoi accessi al programma e del volume e qualità dei documenti inseriti e della loro organizzazione.
Una commissione formata dai tutor (scolastici e dell’Associazione) e da un esperto esterno (Andrea Longhi, professore di Storia della città e del territorio del Politecnico di Torino) ha selezionato i 50 punti di interesse redatti dagli studenti che sono adatti ad essere pubblicati (inseriti in Atlas nell’archivio “Alternanza scuola-lavoro”).
La presentazione è stata anche l’occasione per iniziare a verificare la possibilità di utilizzare l’Atlante come piattaforma dove ospitare le diverse esperienze di ricerca e di lavoro sul campo degli studenti delle scuole dell’area metropolitana, attinenti la conoscenza della città e del territorio e della sua storia sociale e industriale.
In questa prospettiva l’Associazione Landscapefor si impegna a programmare per il prossimo anno scolastico una proposta di Alternanza scuola-lavoro che non solo riproduca l’esperienza del 2017, migliorandola e arricchendola, ma consenta anche di pubblicare e mettere a sistema il lavoro di ricerca delle scuole dell’area metropolitana interessate, costituendo un vero servizio di rete per la città.