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Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni

Prima rigeneriamo la nostra creatività, poi il resto

Un pensiero radicale sugli strumenti culturali di cui disponiamo per orientare il futuro delle nostre città. Uno spunto per le giornate di ArtLab a Mantova, dove il 28-29 settembre si rafiona delle potenzialità offerte dal prossimo Anno del Patrimonio europeo

Chi si trova a ragionare di città lo fa da urbanista, o architetto, o promotore di servizi ed eventi. Manca da anni la dimensione politica, ormai esecrata, e tutti fingiamo di fidarci delle nostre competenze tecnico-operative per dare un contributo a risolvere i problemi della polis (che ovviamente si aggravano, negandone la radice profonda).

Quasi tutti i progetti urbani recenti sono come la meccanica antica. Idee geniali, efficienza bassissima, efficacia non valutabile: Leonardo non ha mai fatto vincere una guerra al Visconti, ma ha incantato tutti, posteri compresi, con i suoi disegnini fantasiosi. Così le archistar, o chi pensa agli eventi e alle performance: fuochi d’artificio.

D’altra parte dobbiamo renderci conto che la cultura urbana è stata protagonista del cambiamento, quando ha dato forma e sede a un nuovo modello di società al mondo contadino, soprattutto quando fu scosso dalla rivoluzione industriale, ma ora, che il mondo sta nuovamente cambiando con la rivoluzione digitale, la cultura urbana non è più all’altezza del cambiamento.

Siamo bloccati in una vision della città esistente, con le sue strette relazioni fisiche, con l’alto contenuto di segni identitari, di memoria delle innovazioni passate, come il miglior ambiente di sviluppo possibile, ma lo è stato rispetto alle relazioni territoriali rurali tradizionali, lasche, lente, senza segni, senza storia. Curiamo la macchina che ci ha dato il cambiamento della modernità e il suo senso della storia e non ci accorgiamo che le nuove leve della città sono già immerse in un nuovo clima di cambiamento.

Vediamo poco questo cambiamento epocale perché abitare comporta abitudini e siamo abituati a cercare la stabilità come fattore positivo, come ambiente dove svilupparci bene. E pensiamo che la stabilità del contesto fisico dove abitiamo, il riconoscimento positivo delle sue forme costituisca non poco della nostra identità, e quindi delle nostre strumentazioni per affrontare il futuro. Questo vale ancora per chi vive stabilmente in un contesto di qualità, ma oltre la metà degli italiani non abita bene, cerca il cambiamento. Chi sta nelle periferie è abituato non alla stabilità ma al cambiamento: perché cambia fisicamente ogni anno il contesto e perché lui si muove sempre di più, vede i luoghi dal finestrino del mezzo che lo porta ogni giorno a mete lontane (oltre ¾ degli italiani prende un veicolo ogni giorno). Per loro non c’è più il tempo di affezionarsi ai luoghi, semmai l’identità si proietta in spazi simbolici, rappresentativi, e questi possono essere vicini o più lontani, o addirittura essere virtuali, solo immaginati.

La generazione millennial (10+, 10-) sta rinunciando alla normale identità legata ai luoghi e costruisce identità basate su non-luoghi, cioè rinuncia a differenziarsi per aderire a spazi e segni omologati e appartenere a grandi gruppi che non ricorrono più a segni distintivi spaziali, a identità storiche o a grandi progetti ideali.

Quindi da una parte c’è un mondo che dichiara di voler dare valore all’identità locale, al patrimonio culturale (dopo averli calpestati come un elefante in una cristalleria), finanzia progetti che intervengono come gocce nel mare per ridare luogo a spazi perduti; dall’altra c’è la componente più giovane di quel mondo che non si riconosce nei luoghi, ma semmai negli eventi, nei raduni, nei comportamenti.

Come fare i conti con un popolo non di cittadini ma di city-users? Come fare a chiamare a collaborazione questi abitanti dei non-luoghi, di un mondo che ci sembra solo periferia, che un week end vanno a fare trekking in montagna e quello dopo visitano una mostra a 300 km. e forse quello dopo vanno in una pizzeria e una multisala nel centro? Di quei giorni questo popolo apolide segna sul suo diario (rigorosamente condiviso e omologato alle regole ferree della piacioneria social) indifferentemente il selfie con il palco teatrale, gli amici della compagnia che fanno boccacce, il cagnolino che gioca con le onde. Il resto è contesto, sfocato, come fa di default l’ultima versione della fotocamera dell’Iphone.

Detto in modo retorico: Che ne è della politica se non c’è più la polis come valore, che ne è della cultura se la sua coltivazione non è più ritenuta interessante, nei termini di obbedienza a cicli lunghi, della semina del sapere, della cura nel tempo del raccolto e della sua messa in valore in termini di idee?

Che ne è della memoria se non interessa più porre in riga gli eventi della nostra vita e di quella degli altri, se la si usa solo per sprazzi, scintille senza nesso tra loro, come fanno i bambini piccoli e i vecchi inoltrati, o i cybernauti con i vecchi hard-disk dove avevano messo le foto quando non dominava ancora il cloud?

Insomma, quali saranno i valori relazionali dei nostri figli, nel tempo e nello spazio? E perché di fronte a questa destrutturazione dei nostri rifermenti culturali infiliamo la testa nella sabbia e riusciamo solo a pensare a RI-generare la città, a valorizzare la memoria lineare inventata nel 1800 dagli storicisti, a tessere relazioni culturali strategiche che non interessano a nessuno che abbia meno di 40 anni?

Il Patrimonio e il Matrimonio, il tesoro dei padri e delle madri, sono sotto schiaffo da parte di una generazione che semplicemente non ne usa più gli strumenti fondamentali di strutturazione. Per il Patrimonio non si studia più il sistema relazionale del sapere: wikipedia soddisfa le esigenze funzionali e la creatività è colta come un bagliore episodico, alimento per stupori e innamoramenti momentanei. Per il Matrimonio non si fa più famiglia e tantomeno figli: uno sciopero bianco nella fabbrica base della società. Una rivoluzione non-violenta più radicale di mille ’68.

Se, come credo, dobbiamo rendere accessibile il passato dal futuro, perché il passato è una risorsa fondamentale per qualsiasi futuro, dobbiamo riprendere il discorso da zero. Dobbiamo renderci conto che è in atto un cataclisma che sta distruggendo i ponti, le reti, le infrastrutture su cui abbiamo sempre contato per mantenere vivo il processo di comunicazione epocale. Dobbiamo porci domande radicali. Esiste una società felice che faccia a meno dei valori urbani? Della memoria storica? Della cultura fatta di riferimenti ad altra cultura? E se rispondiamo di no, che non esiste, dove vanno tutti questi ragazzi? Possibile che abbiamo fatto una generazione di masochisti che si sta fabbricando un mondo infelice?

E se ascoltassimo un po’ di più i gorgoglii sotterranei che scaturiscono da quelle facce inespressive, che guardano schermetti, hanno tappi musicali alle orecchie, da quelle fiumane che sembrano muoversi poco e a caso?

E se guardassimo alle situazioni che li rendono felici e cercassimo di capirne le dinamiche? Orecchio per ascolto di emozioni senza ragione? Abbandono ad una sensibilità non specializzata? Ricerca dello stupore, dello stupefacente? Indisponibilità a sbattersi per raggiungere risultati e tendenza ad accontentarsi pur di avere tempo a disposizione? E quel tempo per cosa?

Con ogni probabilità il piacere rimane il motore delle azioni delle nuove leve, ma non utilizza più come carburante l’appartenenza ad una storia, il compiacimento dei quarti di nobiltà che si è dato l’Occidente con la sua cultura e il suo patrimonio. Rinunciamo per un attimo all’idea preconcetta della supremazia degli aspetti sistematici, ordinati, della tessitura, che la cultura ci offre. Cerchiamo di capire dove si attesta il desiderio di conoscenza, la curiosità del mondo di una generazione che fa a meno degli strumenti tradizionali. Con un minimo di distacco dall’impostazione tradizionale della cultura ci accorgiamo che non è in atto una demolizione del Patrimonio culturale, quanto una svalutazione radicale degli strumenti di comunicazione sinora utilizzati per istallarlo come valore. Tra quelli che non sentono la città e i suoi prodotti come proprietà culturale, non vale il rito iniziatico dell’appartenenza. Rifiutano l’iniziazione al Tesoro di famiglia affidata a Scuola e Musei.

Il Patrimonio resta tale anche se una generazione non lo considera tale, ma forse ripensare il suo ruolo nell’Europa può essere prezioso proprio perché sono saltati i modi tradizionali di considerarlo. Per la prima volta non solo c’è la possibilità ma c’è l’urgenza di raccontarlo in modo diverso. Come?

Ad esempio nascondendo l’interpretazione strutturale rigida, storicista, che le nazioni hanno seguito sinora, lungo l’asse del tempo e delle glorie di casa. Se, come ci illustra Rovelli, la fisica quantistica mostra che il tempo lineare non esiste, e che possiamo contare solo su eventi, perché non insegnare ai giovani le tecniche dell’investigazione, della caccia al Tesoro e partire dal rintracciamento degli eventi, degli esperimenti, delle avventure che hanno prodotto il Patrimonio?

Il Patrimonio può essere ricostruito nel nostro immaginario a partire da una serie di tracce, di riconoscimenti puntuali e di legami labili tutti da definire, ad esempio stando attenti alle relazioni visive, locali, geografiche. Girare la città e il territorio come terra incognita, con bussole di sapere episodiche che man mano ciascuno compone come gli pare. E’ la tecnica che ha appassionato generazioni di studiosi che 100 e più anni fa, hanno composto la storia della nostra cultura, quella che ora proponiamo ai più giovani come un Moloch monolitico, irrigidito dalle troppe, noiose letture. Perché non riproporre a quegli occhi disattenti nuove tecniche di esplorazione di quello che crediamo di sapere già? Perché non chiamarli a colmare l’enorme baratro che i cultori della cultura ancient régime hanno scavato tra il Patrimonio e la contemporaneità, un intervallo che in Italia è perfino stabilito per legge in 50 (o 70) anni, per rendere certe le nuove generazioni di non avere nulla a che fare con il sancta sanctorum della cultura?

Se l’occasione di un anno dedicato a ripensare in chiave europea il tema del Patrimonio ci aiuta a schiodarci in radice dai modi di rappresentarlo, se sappiamo proporre ai giovani tecniche di esplorazione dei segni della cultura per indizi e per relazioni locali, apparentemente casuali, se sappiamo chiamarli a ricucire con questo lavorio lo strappo della cultura passata con quella contemporanea, forse il Patrimonio torna ad essere, anche per i nostri figli, la sterminata miniera di futuro che abbiamo desiderato nei nostri migliori sogni di gloria.