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Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni

Il Paesaggio in vacanza

Pericoli per il senso del paesaggio dalla vacanza culturale, dalla schiavitù dei tempi contingentati, dalla perdita degli ozi delle villeggiature.

Abatantuono, parvenu sul lastrico, si chiude in cantina con la famiglia tutto agosto, per poter poi raccontare di essere andato in vacanza (in Mari del sud, un film di Cesena del 2001). Ridiamo dello stratagemma paradossale, ma anche noi, cittadini che d’agosto in vacanza ci andiamo, non scherziamo quanto a paradossi masochisti.

Nonostante il caldo deprimente consideriamo un dovere spostarci dai luoghi dove stiamo il resto dell’anno per andare in altri luoghi. Un dovere verso noi stessi, un diritto che umilia chi non lo esercita: ci si deve spostare, a qualsiasi costo. E’ l’esito parossistico di un processo socioculturale che dura da oltre mezzo secolo.

I nostri padri e nonni che potevano permetterselo mandavano la famiglia in villeggiatura; nel racconto del ritorno risultano cinquanta o cento giorni di tempo libero, di ozi e amori: si tralasciano i tre o quattro giorni di viaggio e fastidi vari.

Lo stesso nella generazione di mezzo, dominata dall’ipnosi balneare, anche se si riducono i giorni feriali: alle truppe scelte di chi fa stagione con la seconda casa si accompagna l’esercito degli affittuari da mese, poi da due e ora da una settimana. Ma gli ozi e gli amori rimangono nell’orizzonte desiderato per il resto dell’anno: cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso, eccola qua…..

Ma il cambiamento reale è nell’ultima generazione: quella del viaggio. I resoconti delle vacanze sono oggi pieni di spostamenti e di passaggi fastidiosi: fare e disfare bagagli, jetlag, pulire casa imprestata e/o penare per disguido prenotazioni, malessere per coda da museo e/o per sbornia, bronchite per temporale lungo il trekking e/o gastrite per rabbia di documenti rubati … Insomma il racconto delle vacanze di viaggio narra di un tempo occupato, senza ozi e senza amori, pieno di disavventure come nei romanzi del Marchese De Sade.

Non è solo un tempo occupato: è preoccupato. E’ un effetto perverso della nuova ipnosi Trivago e Airb&b, che ammalia con le sere di primavera passate a cercare voli low-cost e pacchetti scontati per l’estate, e a farne un puzzle perfetto per i venti giorni delle ferie, predefinite sin da Natale. Così ci si costruiscono gabbie: incastrati anche più che a casa, i nuovi turisti culturali si muovono nei tempi stretti di programmi self-made. Sono macchine ansiogene, come quelle tanto criticate dei viaggi organizzati, ma ora in più non ci si può neppure sfogare a criticare il tour operator.

Così si consolida non solo una metamorfosi del tempo libero classico, quello della vacanza: ma si avanza una nuova dimensione del viaggio.

Se la villeggiatura con i suoi ozi e amori chiede di essere ospitata in luoghi da abitare a fondo, dove ciascuno possa riconoscere lo spazio per le proprie identità e abitudini (per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia, stesso mare), la vacanza in tour ci proietta nell’universo del collezionista. Ogni anno i viaggi consentono di arricchire le bandierine sull’atlante personale con molti luoghi diversi. E’ una spinta compulsiva: i luoghi si raggiungono, benché vada si visitano, ovviamente non si abitano. Né si vogliono abitare: la frase “Là ci siamo già stati” non fa scegliere una meta, al contrario, la fa escludere. Non è ritenuta importante la frequentazione di un luogo, la ripetizione rassicurante di atti e visuali, che il senso di abitare comporta.

D’altra parte anche la meta e gli spostamenti non contano: ci sono solo tappe. Il viaggio delle ferie è spesso un itinerario da seguire come un gioco dell’oca, non un viaggio verso qualcosa o da gustare nel percorso. E’ un effetto perverso che coinvolge anche i prodotti della moda slow: si va in aereo sino alla partenza dell’itinerario da fare in bici, e ogni giorno va compiuto il tragitto prefissati sino a giungere al traguardo di tappa, dove troveremo i nostri bagagli e un drink di benvenuto. E così via giorno dopo giorno per tutta la settimana, poi aereo e a casa. Fine del viaggio e della vacanza. Dopo un giorno passa anche il male al sedere.

Se si tolgono gli eventi logistici, per lo più memorabili per le pene del corpo, nel racconto c’è poco spazio per ciò che si è visto. La facilità a lasciare una scia di selfie e video da postare riduce i tempi per assorbire gli effetti di un luogo e quindi per poterne parlare. E, come sappiamo, ciò che non si racconta non si memorizza, e dopo qualche mese non è mai accaduto: si guardano foto con occhi smarriti … Dove eravamo qui?… avevo il pareo fucsia… quindi era il 2014 e quindi DOVEVAMO essere a Mikonos.

Dentro questa macchina che costringe il tempo e lo spazio della vacanza in un data base predefinito e in una collezione di ricordi di disavventure, che fine fa il paesaggio?

Non è una domanda oziosa (magari!): al modello del viaggio culturale affidiamo le speranze di sviluppo del nostro turismo e al nostro turismo affidiamo le speranze di sviluppo del nostro Paese. Promuoviamo al massimo l’ospitalità delle città d’arte, includiamo borghi e monasteri, incentiviamo il riuso turistico di case sottoutilizzate, alimentiamo sulla rete l’immenso bengodi delle scelte di itinerario. E in questo marketing dell’Italia intera “paesaggio” fa brand quanto e più che “museo” (anche se ormai meno che “cucina stellata”).

Dunque, se in vacanza facciamo i turisti, in vacanza il paesaggio ci tocca. Ma è il paesaggio a cui pensa il ministro quando dice: Paesaggio italiano, elemento per attirare il turismo colto? (titolo del resoconto della Giornata del Paesaggio, il 14 marzo scorso).

L’archetipo del turista colto che gode del paesaggio è ovviamente il cilindrato solitario di C.D.Friedrich che guarda il mare di nuvole dalla vetta di un monte; ma quell’archetipo benemerito è rottamato la realtà delle folle che impediscono di camminare non solo in piazza S.Marco, ma anche lungo i sentieri delle 5 Terre o le ascensioni ai 4000 alpini.

Quei paesaggi (come ogni paesaggio) sono fatti dalla relazione che si stabilisce con il luogo, e se il luogo è pieno di gente, questo aspetto determina significativamente la relazione. Piazza S.Marco piena di gente in maschera è un altro paesaggio di quella stessa piazza vuota con luci serali. E’ ovvio, ma il turista compulsivo finge di non saperlo, e visita Kyoto, Machu Picchu e Selinunte, tra le 13 e le 16 del 12 agosto, come che siano, pensando di assaporarne il paesaggio.

Mente a se stesso.

Il turista colto sa (o almeno dovrebbe sapere) che il senso del paesaggio non è un dato, non è dato. Anche se non chiude mai, se puoi sempre vederlo, può capitare che un paesaggio famoso non ti generi alcun senso notevole, non tanto per colpa sua quanto perché in quel momento tu non sei in grado di entrare in contatto con quel luogo (e tu hai solo quel momento). Trascuriamo che il paesaggio è frutto di una metabolizzazione interna della relazione con l’esterno, che richiede di entrare in sintonia con il luogo per poterne cogliere aspetti che risuonano con le nostre capacità di comprensione.

E’ frutto di un lavoro che richiede tempo, in un processo che mette in sequenza attenzione (tensione verso), contemplazione (portare al templum, cioè all’orizzonte definito in cui sappiamo relazionarci con il contesto indefinito), riflessione (rivolgimento di se stesso verso). Le definizioni tra parentesi, prese dal vocabolario etimologico, dicono in generale ciò che faceva mio nonno ogni estate, sistemata la famiglia in una casetta in affitto di mezza montagna: portava con la bici il cavalletto, una tavola di compensato e la tavolozza dei colori in un punto panoramico solitario e lì, pomeriggio dopo pomeriggio, pennellata dopo pennellata, dipingeva quello che vedeva, con un fiore profumato in una narice.

Paesaggio: lavoro che ha bisogno di tempo, di ozio e di amore.