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Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni

Quando il gioco si fa duro…Il progetto di sviluppo alla prova del sisma

Dov’era come sarà: il motto del seminario di Symbola 2017 apre al futuro senza ipotecarlo e motiva, ancora per un po’, le mille iniziative locali che però sono in affanno a uscire dall’infinita emergenza e dalla immane fatica imposta dalla complessità dei problemi e dalla loro incredibile amplificazione burocratica.

 

Il titolo del seminario Il senso dell’Italia per il futuro sottintende ... dopo il sisma. Ermete Realacci, Fabio Renzi e i loro amici hanno messo insieme una serie di teste pensanti e operanti, mostrando che non mancano le capacità di visione e le prospettive di futuro, anche in una situazione drammatica come quella del “cratere”. Cratere, termine odioso, indica però la dimensione epocale della tragedia, che ha provocato 150.000 senza tetto, oltre 300.000 edifici colpiti, di cui oltre 1200 tutelati, 12.000 beni culturali da proteggere.

Con un’efficacia stupenda nel giro di pochi giorni dagli eventi le persone sono state messe al sicuro (e le quasi 300 vittime sono meno di quelle che la devastazione poteva provocare). Il territorio, con uno strenuo lavorio collettivo coordinato dai sindaci, ha metabolizzato più che poteva le ferite alle famiglie e alle attività: moltissimi hanno trovato posto nelle case vuote non danneggiate, qualcuno ha ricominciato il lavoro anche se in condizioni difficili, in certi nuclei si è subito reso accessibile il cuore del centro, a costo di mille impalcature. Sin qui la superba reazione locale: dove si può la vita continua.

Ma il sisma ha piegato intere economie, ha cancellato comunità, ha fatto cadere ogni ipotesi di tirare a campare per terre e generazioni pregiate ma già in bilico sull’orlo della povertà. Da tempo per queste terre si richiede una strategia di valorizzazione delle risorse sottoutilizzate dal modello metropolitano. E’ un tema che percorre la montagna italiana e che da decenni deve essere raccolto e coordinato dallo Stato.

Ma a quel livello siamo in gravi difficoltà. Per le prospettive e per le urgenze.

Dal livello locale in su la macchina del dopo terremoto non si è ancora mostrata in piena attività, ed è passato quasi un anno. In parte questo ritardo è dovuto all’emergenza che continua (decine di migliaia di scosse sino a ieri hanno logorato nervi e murature), in parte è dovuto all’immensità del territorio sconvolto (140 comuni di 4 regioni – per l’Aquila erano 57 di una sola regione), ma in parte importante è dovuto all’incapacità dei decisori centrali di far fronte in tempi brevi alla normalizzazione delle attività e dei servizi, e soprattutto di spendere energie e risorse per la rifondazione delle comunità locali.

Ma via, non siamo pessimisti… ci sono notizie che ci fanno pentire di esserci lamentati dello Stato. Ad esempio la Gazzetta ufficiale del 14 febbraio 2017 porta in allegato un documento programmatico: «RESTART - Per la strategia di sviluppo del territorio dell’area del cratere». Meraviglia!

Dopo qualche riga, ci si accorge che si tratta del cratere de L’Aquila, formatosi nell’aprile del 2009. Otto anni per dire a quei poveretti che cosa le istituzioni pensano (di pensieri si tratta) per aiutare il loro futuro. Senza rilevare che nel frattempo un altro sisma, con oltre il doppio di danni, ha colpito lì vicino e messo in ginocchio ulteriormente la già fragile situazione socioeconomica di quelle aree interne.

Il tempo non passa nei ministeri. La programmazione è desueta anche come termine (roba da piani quinquennali dei soviet).

Il Governo ora agisce stanziando fondi che il Commissario distribuirà attraverso complessi slalom tra la burocrazia, attenta a ogni sospetta corruttela o spreco formale (con Cantone che sorveglia), tra le soluzioni standard delle tecnostrutture specialistiche, ciascuna attenta al suo specifico e indifferente all’effetto complessivo, tra le pressioni di ciascun sindaco, che ha in casa un assortimento diversamente combinato delle medesime urgenze, sempre più ribollenti e in attesa di risposta.

Ad esempio: si decide di far casette vicino ai centri per ricoverare d’urgenza i senza tetto, ma si impediscono le soluzioni autonome dei singoli. La soluzione deve essere standard: appalto da molte migliaia di casette (problemi per Cantone, of course). Tutte le casette devono essere allineate come in un accampamento militare su platee urbanizzate che però si dovranno demolire a fine emergenza. I tempi di realizzazione e i costi sono quadrupli di quelli delle soluzioni autonome, e a un anno le casette tardano a essere pronte (128 su oltre 6000).

E’ chiaro che non c’è visione di futuro né gerarchia di priorità in questi processi decisionali, razionali forse a una visione settoriale dell’immediato, ma che sembrano caotici se visti dall’esterno, dalla gente, che ne riceve solo gli esiti come sentenze di un autocrate alieno.  

Occorre reagire alla brutta botta ricevuta… bisogna ripartire dai fondamentali: il coraggio di darsi una mossa, insieme. Allora: se (e sottolineo SE) c’è un processo decisionale razionale per dare servizi, non solo andrà comunicato nelle sue motivazioni, ma andrà condiviso, in quanto processo, con la gente che si sta servendo. Non è una modalità di democrazia (e basterebbe!) è una modalità di efficienza e di efficacia: è noto che le situazioni complesse richiedono requisiti generali uniformi e soluzioni flessibili. E’ noto che i pensatori a tavolino sono forse capaci a dare la rotta, le regole, ma che in ogni luogo la gente la sa più lunga, in tema di adattamenti alle necessità locali. Qui, in questi mesi, sembra che i requisiti generali non siano mai stati discussi e stabiliti e, in compenso, le soluzioni siano rigide.

Dal seminario di Symbola esce un contributo di merito e di metodo, positivamente integrati sul primo tema: metterci d’accordo sui requisiti generali. Non si tenta una risposta all’emergenza, ma ci si preoccupa di dare speranza, dell’orizzonte largo, del futuro della generazione che crescerà nel dopo-sisma.

Dal seminario emergono alcuni punti forti da radicare in una prospettiva condivisa, in un ordine di priorità indispensabile per partire insieme, comunità e istituzioni, subito, come una barca che salpa sulla scorta di una nuova velatura, e non rattoppa un telo da tempo logoro e definitivamente stracciato dal sisma.

E’ il tentativo di dare spazio alle strategie di fondo, da anni nell’aria ma mai fatte proprie dalle comunità locali, che ora devono diventare l’ossatura forte della ricostruzione. Per i loro temi si chiedono discussioni e ma poi, velocemente, indirizzi e requisiti, decisivi già per l’urgenza, utili subito, per i prossimi mesi, ma da mantenere in vista dei prossimi lustri.

Bastano cinque punti usciti forti dal teatro di Treia a dare il senso di un’impostazione preziosa, alla quale richiamare tutti i decisori, politici e tecnici.

Prima la comunità e quindi Prima la sicurezza

Prima di tutto la sicurezza delle persone, perché è un bisogno essenziale a meno del quale la gente se ne va e la comunità si scioglie. Senza la continuità della comunità non ha senso (cioè non possiamo capire il significato) di tutto il resto, tra cui la conservazione delle testimonianze. Le testimonianze, che chiamiamo Beni culturali, sono cose che segnano la storia della comunità e del territorio e che comunque testimonieranno di questa violenza naturale e del modo storico con cui ad essa si è reagito: non ci sarà da nascondere l’intervento del XXI secolo che mette in sicurezza i luoghi dove abitare e da visitare, ma da vantarsene nei secoli a venire.

Come sarà non è dato ma è bene che sia green, smart e glocal

Nulla sarà come prima, anche i luoghi-simbolo dell’identità locale saranno diversi perché sarà cambiato il loro contesto, la loro vicenda costruttiva (che diventa ricostruttiva), lo sguardo dell’abitante che ha riconquistato il suo posto e del visitatore, che sarà ammirato per la vicenda di oggi più che per il bene fisico. Ma allora, se questa è un’occasione di nuovo insediamento, studiamo il meglio: promuoviamo il cratere come luogo della sperimentazione dell’abitare sostenibile, della produzione impregnata di economia circolare, delle relazioni immateriali garantite dalla banda larga, della ricostruzione dei beni antichi che testimoni anche la contemporaneità. I luoghi sono adatti, per l’intenso ed equilibrato rapporto storico città-campagna, per la tradizionale sobrietà delle comunità e laboriosità dei suoi artigiani.

Rinsanguare le reti di prossimità, nodi di reti lunghe

Il territorio devastato è patria di uno dei caratteri italiani più straordinari: una rete di paesi che sono stati città, dove la parola Comune risuona ancora del suo significato, dove le attività tradizionalmente si integrano in filiere e l’innovazione viene metabolizzata costantemente. Le distanze fisiche ridotte, il territorio diversificato ma da sempre percorso in lungo e in largo, l’essere in mezzo tra grandi città e linee di traffici millenari hanno abituato questi borghigiani ad essere cittadini, del loro comune e del mondo. Anche qui bisogna sperimentare, perché sinora poco si è fatto per le reti (si cita il Distretto culturale evoluto che le Marche tentarono qualche anno fa), ma non si possono perdere queste continuità, queste tradizioni di prossimità che sono la risorsa più particolare su cui contare per lo sviluppo locale. Così questi territori possono costituirsi come laboratori utili per tutta l’Italia non metropolitana, quella che oggi finalmente cominciamo ad apprezzare per uscire da una crisi infinita.

Partecipazione continua nella nuova progettazione

I commissari cominciano ad aver paura a partecipare agli incontri perché sanno che la gente comincia a non poterne più di aspettare, senza informazioni se non promesse via via procrastinate. La comunità dispersa rischia di riunirsi in protesta, quando sarebbe preziosa se riunita in progetto, in partecipazione diretta alla ideazione delle iniziative di ricostruzione. Dove ciò avviene, per l’abilità di qualche sindaco o di altri illuminati, il progetto locale va assolutamente seguito, accompagnato, agevolato, perché è solo sentendo propria la battaglia per abitare nuovamente che poi, nei prossimi anni, si avranno le forze per rimanere e riabitare luoghi ora ingrati: ogni progetto è bello a chi l’ha pensato.

Dare un segno di partenza: liberarsi dalle macerie

Se i punti precedenti sono stati espressi con forza, l’ultimo (ma primo per partire) si legge sottotraccia, come una sorta di subconscio affiorante: rimuovere lo scandalo delle macerie.

E’ incredibile che non ci si renda conto della violenza che le macerie e l’inagibilità dei centri provocano nell’animo degli abitanti. Ciò che si abitava ora è un imponente caos, privo di senso, se non quello della frustrazione di ogni tentativo di riabitare, del divieto di ritornare. Lasciare marcire le cose e le case di un paese, ridotte a montagna indistinta o a luogo deserto, è come lasciare marcire un morto per strada. Come quello non è trattabile come settanta chili di carne, così le macerie non possono essere ridotte a un rifiuto speciale: sono un corpo sacro, che ha bisogno di una liturgia della separazione e della sparizione, di un luogo di sepoltura vicino, dove la comunità riconosca il proprio passato. Ogni comunità scelga dove eleggere quel luogo e poi via, con la massima velocità, si tumulino le macerie e si restituisca il paesaggio liberato alla gente, dove progettare il proprio futuro. E non dite che ci sono rischi per la salute, visto che sinora si sono lasciate all’aria per un anno, e non dite che ci sono problemi di proprietà o di reperti d’interesse culturale. Sono certo che i tecnici sapranno rendere accessibili le piazze e i locali dei centri ancora in piedi, sapranno minimizzare il danno di una tumulazione indifferenziata. Ma da lunedì si deve cominciare e finire al più presto, con i mezzi a disposizione, senza appalti giganti: su questo lasciate fare ai sindaci, guardati a vista dai loro cittadini.

Poi, con la mente e il paesaggio più sgombro, si può dare spazio al progetto e alla speranza.

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