Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni
Centri? Storici?
Dopo 30 anni dietro le quinte il tema dei centri storici ritorna in primo piano, perché sul territorio nessuna battaglia è vinta per sempre e di nuovo minacce di cambiamento violento incombono sul cuore delle città italiane. Perché come sempre mancano gli equilibri: il troppo e il troppo poco devastano. Questa volta il killer è il turismo, ma lo sceriffo bisogna cercarlo nei nuovi abitanti e nei nuovi city user.
ANCSA è il glorioso acronimo dell’Associazione nazionale centri storici e artistici, che tra il 1960 e il 1980 radunò il meglio della cultura italiana del territorio e la capitanò nella battaglia per la conservazione e la valorizzazione dei centri storici, vincendola. In Italia è l’unica battaglia del dopoguerra sui temi di cultura del territorio che si può dire vinta dai buoni: quella sul paesaggio è tuttora molto combattuta, mentre sulle periferie non si è neppure scesi in campo. La battaglia è stata vinta chiamando i sindaci e la gente ad una consapevolezza della risorsa fondamentale del territorio italiano: i centri sono il luogo identitario per eccellenza proprio per i segni sedimentati della loro storia.
Dal 1961 la Carta di Gubbio, atto di fondazione dell’Associazione, ci ha fatto rendere conto che il nostro centro storico è il luogo più significante della nostra identità, per ciascuno di noi, che abitiamo la terra dei mille campanili. Questo ha legittimato, politicamente e culturalmente, l’introduzione di un trattamento speciale per questo pezzo di territorio, in tempi di assoluta prevalenza della comoda “legge uguale per tutto”, che favoriva una falsa e banale omogeneità di trattamento nel costruire la città. Quindi, liberati dalla regola omologatrice, si sono inventati gli attrezzi più diversi per affrontare i problemi non solo del degrado fisico o dell’obsolescenza funzionale ma anche dell’inadeguatezza dei progetti fotocopia che dominano nel resto della città.
Comunque ci sono voluti decenni prima che diventasse pratica comune recuperare invece che demolire, riutilizzare invece che costruire ex-novo, pedonalizzare invece che allargare le strade. E’ risultato vincente associare alla conservazione l’innovazione, integrare l’attenzione ai muri e alle pietre con la cura degli aspetti sociali (dalla casa per i bassi redditi ai fondi per gli artigiani e i negozi tradizionali), valorizzare le particolarità e il progetto dello spazio pubblico piuttosto che l’omogeneità delle costruzioni e lo standard dimensionale dei servizi. L’aggettivo “storico” ha consentito di trattare il centro delle città come un pezzo di territorio a parte, con regole attente al particolare, del tutto diverse da quelle ordinarie dell’urbanistica.
La battaglia dei centri storici ha generato un’onda lunga, che ha portato ad ampliare l’oggetto di attenzione:
dal centro alla città, dalla città al paesaggio. Il luogo “centro” è parso riduttivo per definire il territorio da trattare con riguardo delle sue particolarità e l’ANCSA è stata nuovamente la sede in cui si sono promosse strategie per “la città storica”, poi per il “paesaggio storico urbano” (che sono state poi raccolte in una raccomandazione Unesco), e infine per il “territorio storico” (a cui Roberto Gambino ha dedicato l’apertura del convegno dei 50 anni dalla Carta di Gubbio, nel 2011).
Con il tema del “territorio storico” si è mostrato l’orizzonte della nuova sfida, aperta dalla Convenzione europea del paesaggio, per cui non è un tipo di luogo specifico ad essere particolare, ma un atteggiamento generalizzato di rispetto dei segni sedimentati dalla storia (non solo umana ma anche naturale) e di progettualità adeguata, attenta ai singoli casi, che va esteso a tutto il territorio.
Come sempre l’allargamento dell’orizzonte dal particolare al generale affascina la comprensione e rende eticamente ineccepibile ogni strategia di azione, ma contemporaneamente riduce la chiarezza del bersaglio e disperde le energie positive.
Infatti, l’attenzione alla interpretazione e al progetto della città e del territorio storico stanno bene influenzando la stagione dei piani paesaggistici e dei progetti di paesaggio, ma d’altra parte i centri storici non sono più all’ordine del giorno. Sono ormai inglobati in una procedura ordinaria di gestione urbanistica, che mantiene formalmente tutte le cure ormai stabilite per legge, ma è di fatto disattenta alle nuove dinamiche e ai processi trasformativi in corso.
E i centri non sono luoghi di quiete, come sembrerebbe se si bada alle cronache travagliate delle periferie o alle stragi di suolo perpetrate in aperta campagna. Nei centri si stanno consumando cambiamenti epocali, anche se quasi sempre lasciano intatti i muri e le decorazioni storiche. Nei centri i cittadini sono sempre più spesso solo city users, mentre vi pernottano ormai solo foresti: poveracci di altri continenti o turisti senza albergo.
Perciò l’ANCSA si mobilita di nuovo: in questi giorni pubblica un Libro bianco sui centri storici delle città italiane, in cui il CRESME ha curato un report statistico sulle dinamiche socioeconomiche recenti che investono i centri storici: gli alloggi diventati alberghetti, i rioni diventati ghetti. Nel libro questi fenomeni sono raccontati in numeri dal censimento del 2011, ma ne risulta solo una pallida avvisaglia del problema, che da allora si è moltiplicato fino a diventare priorità per le amministrazioni delle metropoli turistiche europee, da Barcellona a Roma, o delle città assediate dall’immigrazione, come a Genova o a Madrid.
Le trasformazioni dell’utenza senza modifiche fisiche hanno spiazzato le amministrazioni, abituate a gestire l’inanimato, nella (falsa) speranza che al controllo degli spazi conseguisse il controllo dei fruitori, animati. Tutto crolla quando centinaia di appartamenti normalmente sottoabitati da vedove e studenti, si sono magicamente tramutati in migliaia di stanze sovraffollate di turisti a buon mercato, svegli 24/24 e attivi 7/7. Un incubo metropolitano, che il centro storico ospita apparentemente “senza fare una piega”. Sono gli abitanti tradizionali a lamentarsi, mentre gli spazi pubblici e le case sembrano accoglienti senza fatica.
E’ proprio questa resilienza che merita una riflessione. Perché emerge una proprietà strutturale del “centro” (storico), che lo differenzia dal resto del territorio e che dà speranza per il suo futuro.
Innanzi tutto dobbiamo capire che ciò che oggi chiamiamo “centro storico” era La Città, nella sua interezza. In molti casi lo si legge perfettamente, soprattutto dove, data la modesta dimensione, la città antica si è conservata in tutte le sue parti e soprattutto nella sua struttura funzionale. Non un bonsai, ma un seme, un DNA di città, che contiene tutti gli elementi essenziali dell’identità italiana, che poi corrisponde a una comunità di piccola città, che mette parte del suo lavoro in comune (in Comune) e partecipa alla sua gestione. In qualche modo questo riferimento identitario profondo rimane, e non solo come ricordo per gli abitanti da generazioni, ma anche come fascino del visitatore: il centro storico in molti casi è l’unico fattore di paesaggio culturale universalmente riconosciuto, tanto che ormai dobbiamo studiare strategie per diradare l’affluenza turistica nei centri rinomati, mentre nessuno visita i mille monumenti e musei del territorio.
Poi va raccontata la storia del centro, ciò che lì è accaduto nei decenni e nei secoli: le sue cangianti utenze, l’enormità dei traffici e dei servizi per il territorio rispetto alle normali funzioni residenziali, il riempirsi e vuotarsi come un sacco periodo per periodo, il riuso selvaggio dei contenitori (nelle occupazioni, nei disastri, nelle guerre), e soprattutto il suo farsi e rifarsi. Perché come l’araba fenice il centro storico italiano rinasce dalle proprie ceneri, dall’abbandono, dalla distruzione. Ancora oggi ci pare ovvio rifare il centro di Amatrice dov’era e com’era, anche se è tecnicamente quasi assurdo. D’altra parte l’inerzia delle rendite fa sembrare ovvio costruire grattacieli in centro, anche se ormai è quasi assurdo, urbanisticamente.
La potenza della continuità del centro è dunque risorsa e dannazione per chi gestisce la città: le pressioni trasformative, compresa la ricostruzione, sono fortissime e spesso vincono.
Insomma dobbiamo accettare il fatto che quello che vediamo non è mai un complesso autentico, come è stato realizzato in un atto primigenio, ma che il centro storico è come Argo, il vascello di Giasone, che si rifà in viaggio, sede sperimentale di continue contaminazioni di usi e assestamenti di spazi, luogo delle più inedite interazioni tra culture e funzioni diverse. Insomma il centro storico è la palestra ideale per esorcizzare la paura delle trasformazioni, dove constatare la continuità identitaria molto al di là della costanza dei comportamenti e della permanenza dei muri.
Se la resilienza e la capacità di sperimentare interazioni e meticciati sono la caratteristica della storia dei nostri centri, allora possiamo anche progettare una strategia per affrontare queste nuove tensioni, senza aver paura delle novità, anzi puntando proprio ad esse. La febbre dell’airbnb passerà e si assesterà un nuovo modello di utilizzatore dei centri, che noi dobbiamo però coinvolgere nella loro tenuta, che non può solo sfruttare una risorsa millenaria, ma deve partecipare al processo. Dobbiamo impedire che il centro diventi luogo dove si congela lo status quo, dove le rendite di chi già sta impediscono le azioni di chi potrebbe essere il nuovo utilizzatore, dove si cerca di fermare il fluire della storia, come capita per i centri storici che si museizzano, o che diventano il centro degli affari della città moderna. Dobbiamo favorire chi viene ad abitare o a usare questi luoghi consapevole di un ruolo di innovatore, della responsabilità di navigante su Argo, dove mentre viaggi devi partecipare ad aggiustare e modificare la nave perché tenga il mare fino alla meta, cioè perché il centro si offra ai futuri visitatori e abitanti ricco di fascino come e più di oggi.
Insomma, per sintetizzare in uno slogan “la storia ci porta a favorire chi il centro se lo merita, perché dimostra di avere un progetto a suo favore”.