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ABITARE BENE IL MONDO: UN PROGETTO CULTURALE

INTERVENTI DI ROBERTO GAMBINO

 

(a cura di) Paolo Castelnovi

 

 

INDICE

 

- AVVERTENZA

- PREMESSA

  

- Introduzione: il contesto

- Il contesto ‘60: la prevalenza della periferia

- Il contesto ‘70: il paradosso dell’urbanistica

- Il contesto ‘80: finalmente la città nello spazio e nel tempo

- Il contesto ‘90: tutto è un ambiente, tutto è paesaggio

  

- Valorizzare il patrimonio storico: un dovere
1. Il contributo dell’ANCSA per la conservazione urbana

Dai centri storici al territorio contemporaneo

Nuovi paradigmi per una società che cambia

Temi emergenti: centralità urbana e paesaggio

 

2. Risorse e territorio: separazione/integrazione
Il principio di conservazione: dagli oggetti ai sistemi
La conservazione innovativa come fattore di sviluppo
Dalle risorse al patrimonio
Tra separazione e integrazione

Una prospettiva progettuale

 

 La stagione dei parchi: il grande laboratorio

3. APE Appennino Parco d’Europa. Inquadramento strategico

APE nel contesto euro-mediterraneo

Gli scenari di sfondo, tra immagini e strategie

Il senso di APE: riconoscimento, progetto o processo?

APE come territorio

Una strategia per APE

4. Parchi e paesaggio d’Europa. Una ricerca territoriale

Conservazione e innovazione, un rapporto inscindibile

I nuovi paradigmi per le aree naturali e protette

Il paradigma paesistico secondo la CEP

Dagli oggetti alle loro relazioni

Una risposta territorialista

I rapporti con il tempo e con la vita

Interpretazioni strutturali e strategia progettuali

Il progetto di territorio come processo sociale

Radicamento strutturale e “utopie concrete”

  

Il paesaggio, finalmente

5. Attualità del paesaggio

La questione paesistica

Il crocevia pesistico

Il significato del paesaggio

Quali progetti per il paesaggio?

6. Il paesaggio tra coesione e competitività

Il paesaggio, volto della società

Il paesaggio, fondamento dell’identità

Coesione e competitività

Regolazione versus percezione?

Conservazione e innovazione, un rapporto inscindibile

Il rapporto natura-cultura

Nuova centralità e diritto alla città

Nuove alleanze per il progetto di territorio

 

Le porte aperte

Rappresentazioni politecniche

Coppie motrici di progetto

 

 Riferimenti bibliografici

Storia

Ambiente

Paesaggio

 

 

Martedì, 23 Gennaio 2024 18:12

Dossier Roberto Gambino

Da un’idea di ordinamento e pubblicazione che Gambino aveva impostato con Castelnovi prima di mancare con il Dossier si intende affrontare un lavoro complesso, che attende ancora una sistematica curatela, ma che comunque è importante anticipare con i contributi ancora ”caldi”, da considerare sul tavolo dei piani e dei progetti in corso.

Una prima antologia è uscita, curata e introdotta da Castelnovi per Editrice Bibliografica col titolo Abitare bene il mondo: un progetto culturale. Interventi di Roberto Gambino.

Il libro, con l’indice inserito in questo dossier, individua tra grandi settori tematici che caratterizzano tre periodi di avanzamento di un pensiero complessivamente olistico e integrato: riferiti alla storia, all’ambiente naturale, al paesaggio.

Il dossier riprende la stessa ripartizione complessiva, con una ulteriore scelta di interventi a cui appena possibile si accompagneranno abstract e traduzioni e, successivamente, le altre selezioni per completare progressivamente la pubblicazione di tutto il materiale ordinato, per passare, appena si sarà in grado, ad una presentazione dei piani (nelle loro parti ancor oggi di interesse), adeguatamente collocati anche su Atlasfor.

Sono inseriti, oltre all’indice del libro, :

Per il settore Storia:

Per il settore Ambiente:

Ascoli Piceno, 2011

Per il settore Paesaggio

Intervento a convegno OLBIA 2009

 

 

Il paesaggio come creazione di valore: tre domande chiave

di Roberto Gambino

Intervento a convegno OLBIA 2009

 

 

I.

Il paesaggio come terreno di confronto

Nell’ultimo decennio, soprattutto a partire dalla Convenzione europea del paesaggio (CE, 2000), le esperienze di pianificazione territoriale, le pratiche di governo e il dibattito internazionale hanno conferito al paesaggio una crescente rilevanza politico-culturale. Il paesaggio è diventato sempre più, da semplice oggetto di studio, terreno di frontiera, di scontro o di confronto, che sfida la cultura del territorio reclamando risposte nuove a domande in parte antiche. Questo è particolarmente evidente se – come in questo convegno – si affronta il tema dei rapporti tra il paesaggio e il turismo. Nonostante il facile consenso che si raccoglie sull’interpretazione “positiva” di questi rapporti (e quindi dello slogan che dà il titolo al convegno: Paesaggio e turismo), non c’è dubbio che si tratta di rapporti potenzialmente conflittuali: le contese sulla pianificazione paesaggistica della Sardegna ne sono una prova eloquente. Basta pensare al paradosso di fondo che caratterizza il turismo: un’attività che dipende crucialmente dalla ricchezza e integrità di quelle stesse risorse, naturali e culturali, che tende a divorare. L’esperienza e le analisi valutative hanno da tempo messo in luce molti aspetti critici. Fra questi, l’ineguale distribuzione dei costi e dei benefici: in senso spaziale (il successo delle località turistiche è spesso pagato dall’abbandono di altre aree, anche contigue); in senso sociale (i vantaggi premiano di regola i cittadini istruiti del ceto medio, mentre le penalizzazioni si scaricano spesso sui contadini, i montanari e altre fasce deboli); e in senso temporale (molti benefici sociali od economici si manifestano nei tempi lunghi, mentre i costi o le ricadute negative spesso non si fanno attendere). In prospettiva internazionale, il divario tra gli interessi e bisogni locali e quelli che si manifestano nelle reti globali (in particolare dai grandi tour operator) è spesso tale da soverchiare la tradizionale contrapposizione tra benefici economici e costi ambientali: nel forum ospitato recentemente dall’Unione mondiale della natura, la domanda “a chi giova” ha messo impietosamente in discussione l’idea che lo sviluppo turistico possa comunque favorire il decollo dei paesi sottosviluppati, seppure a prezzo di danni ambientali. Nell’esperienza di molte regioni europee, i costi ambientali del turismo sono stati e sono tuttora pesantemente accentuati dalle spinte che il mercato immobiliare (seconde case, villaggi turistici, grandi complessi alberghieri, porti turistici ecc.) esercita sulle dinamiche dell’offerta turistica. I meccanismi della rendita tendono in sostanza ad esasperare le contraddizioni di fondo della fenomenologia turistica, che tende da un lato a promuovere la “modernizzazione” economica, sociale, culturale e paesistica, dall’altro a schiacciare le pulsioni innovative sotto il peso delle convenienze “inerziali”. Ciò è particolarmente evidente nell’esperienza dei “grandi eventi”, che spingono, in nome dell’“emergenza”, a “far piovere sul bagnato” – come tipicamente è successo nelle Olimpiadi invernali del 2006 nell’area torinese, che, ad onta delle buone intenzioni dichiarate, hanno finito col privilegiare le grandi stazioni esistenti, in grado di mettere rapidamente a disposizione un capitale importante di attrezzature, impianti e know how (Bottero, 2007).

Ma i conflitti che le politiche del paesaggio debbono affrontare non riguardano solo il turismo e i grandi eventi. Si configurano sindromi complesse di problemi irrisolti, criticità, attese e sofferenze, ambiguamente intrecciate con le nuove opportunità che si dischiudono, a fronte delle quali è lecito chiedersi se non si possa parlare di una “questione paesistica” (che si affianca e in parte si identifica con la “questione ambientale”), analoga alla “questione urbana” che si dibatté negli anni Settanta. Una questione del paesaggio che, incrociando i processi di globalizzazione, implica nuovi rischi e nuove minacce incombenti sulla società contemporanea e mette in discussione paradigmi, statuti e concezioni consolidate nei più diversi ambiti disciplinari, a cominciare da quello della geografia, nel quale il concetto stesso di paesaggio ha preso forma compiuta. La riflessione sui nuovi paesaggi della geografia può utilmente prendere le mosse da alcune domande cruciali che le politiche del paesaggio si trovano oggi a fronteggiare. Domande che affiorano nel dibattito internazionale (valga per tutti il riferimento all’UNESCO, impegnato ad andare ben oltre il riconoscimento, nel 1992, dei «paesaggi culturali» tra i siti inseribili nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità: Feilden, Jokilehto, 2007) e a maggior ragione nel quadro della Convenzione europea del paesaggio (CEP), promossa nel 2000 dal Consiglio d’Europa. Ma domande, anche, che trovano preciso riscontro nelle consolidate tradizioni italiane della tutela paesistica, nel riconoscimento costituzionale (Costituzione, art. 9) del primato accordato a tale tutela e nelle tormentate vicende di rielaborazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004-2008). Domande, quindi, che la pianificazione territoriale e paesaggistica, in tutti i contesti e a tutti i livelli, non può evitare di porsi e che possono così riassumersi:

1. Di quali valori tratta il paesaggio? Quali sono le poste in gioco nella sua tutela e gestione?

2. Si tratta di riconoscerli o di crearli? Che senso ha la loro conservazione?

3. Chi sono i soggetti coinvolti nella gestione del patrimonio paesaggistico? E in che modo?

 

 

2

Valori universali o valori territoriali locali?

La CEP ha sancito il principio che la tutela del paesaggio – in quanto espressione delle culture locali e fondamento delle loro identità – non riguarda poche aree di particolare pregio paesaggistico ma l’intero territorio; e vi è generale consenso nel constatare che tale affermazione non implica una semplice dilatazione spaziale del campo d’osservazione, ma costringe a ripensare il rapporto tra paesaggi e territorio.

Il paradigma implicito nella Convenzione UNESCO del 1972 non sembra adeguato a cogliere questi nuovi rapporti. Esso ruota infatti attorno al concetto di «eccezionali valori universali» e fa riferimento a beni o siti di intrinseca rilevanza, autenticità e integrità, in quanto tali distinguibili dal contesto, chiamati a rappresentare e celebrare una eredità che appartiene all’umanità intera, senza vincoli di proprietà, appartenenza o identità nei confronti delle comunità locali. In parte, questo paradigma ha trovato finora riscontro anche nella logica con cui l’Unione mondiale della natura ha promosso le politiche di conservazione della natura e più specificamente le politiche delle aree naturali protette. Queste fanno riferimento a sei categorie, di cui la quinta (assai diffusa nei paesi europei) è costituita dai «paesaggi protetti», nei quali la lunga interazione tra l’uomo e la natura ha prodotto aree di carattere distintivo, di significativo valore ecologico, biologico, scenico o culturale (IUCN, 1994). Sebbene sia attualmente in corso, in seno all’IUCN, un rilevante spostamento d’attenzione dalle singole aree alle loro «reti di connessione» (IUCN, 2003, 2004), il concetto dei paesaggi protetti, così come sono interpretati nella maggior parte delle esperienze europee (Gambino, Talamo, Thomasset, 2008) sembra in larga misura assimilabile a quello dei paesaggi culturali considerati dall’UNESCO.

È solo con la Convenzione europea del paesaggio che si propone un approccio esplicitamente “territorialista”, che sposta l’accento dai singoli paesaggi (le “isole di pregio”, le “eccellenze”, le aree di valore intrinseco ed eccezionale) al patrimonio paesaggistico diffuso in tutte le sue articolazioni locali. È in questo nuovo paradigma che prende forza il significato complesso e pervasivo dei valori paesistici locali e si delinea il necessario riferimento alle percezioni, alle attese e alle responsabilità gestionali delle popolazioni direttamente interessate. La tutela del paesaggio cessa di proporsi in nome soltanto di principi universali (la salvaguardia del Patrimonio culturale dell’umanità intera, come nella Convenzione UNESCO, o la conservazione della biodiversità come nello schema dell’IUCN) per collocarsi invece al centro delle rivendicazioni locali a favore della qualità e sostenibilità del contesto di vita delle popolazioni, della difesa delle culture locali e dei loro fondamenti identitari. La domanda sociale di paesaggio, in questa chiave interpretativa, si collega strettamente all’affermazione delle istanze dello sviluppo locale e dei diritti inalienabili delle popolazioni locali, compresi quelli che riguardano la qualità e la bellezza dei luoghi.

Tuttavia, nonostante il successo mediatico delle retoriche “localiste” e il forte impulso territorialista impresso dalla CEP, la questione del paesaggio non è certamente affrontabile senza un chiaro ed esplicito riferimento ai principi di base ed ai valori universali. Anzi, il preoccupante «arretramento dei valori universali» di fronte ai particolarismi dei gruppi e delle comunità (Touraine, 2008), la frantumazione dei valori identitari e la drammatica esplosione delle «identità armate» (Remotti, 1996) e delle affermazioni fideistiche pongono sempre più spesso il paesaggio al centro di scontri di valori. Valori locali e valori universali non sono necessariamente contrapposti, ma la loro tutela può richiedere strategie diverse, potenzialmente in contrasto. L’integrazione delle opzioni paesistiche nelle politiche e nel governo del territorio (esplicitamente richiesta dalla CEP) comporta difficili arbitraggi e richiede di rispondere a domande come le seguenti:

– Come si concilia il riconoscimento dei valori universali del paesaggio (quali quelli che determinano l’inclusione nelle liste del patrimonio mondiale) col riconoscimento dei valori identitari locali perseguito dalla CEP?

– Come si concilia la logica “delle eccellenze”, dei beni paesaggistici di intrinseco ed indiscusso prestigio (in quanto tali staccabili dal paese reale) con quella dei valori diversificati e diffusi in tutto il territorio, e dei sistemi di valore che fanno parte inscindibile del territorio?

– Come si concilia la difesa dei valori naturali e della biodiversità con quella dei valori estetici e simbolici (di cui ad esempio il Codice del 2004 afferma implicitamente la priorità)?

Per riscoprire il valore del paesaggio, uscendo dalla sterile contrapposizione tra valori locali e valori universali, occorre ripensarne il rapporto col territorio, tra visto e vissuto, tra la produzione incessante di nuove immagini e rappresentazioni paesistiche e i sottostanti processi di territorializzazione. In questo orizzonte dilatato, gli scontri di valori devono sempre più cedere il passo al confronto argomentato e trasparente dei diritti in gioco.

 

 

3

Riconoscimento o creazione di valori?

Piani e programmi degli ultimi decenni hanno sempre più spesso inseguito l’obiettivo di «ripartire dall’ambiente e dal paesaggio» come base o pre-condizione su cui costruire le scelte di trasformazione del territorio. L’interpretazione “strutturale” del territorio, il riconoscimento dei suoi caratteri stabili o permanenti, la ricostruzione degli «statuti dei luoghi», l’individuazione delle cosiddette «invarianti», hanno assunto il significato di un «riconoscimento pregiudiziale di valori» che le scelte di trasformazione non possono mettere in discussione. In alcune regioni, questo significato ha trovato anche riscontro nell’apparato legislativo. Questa attribuzione di una più o meno esplicita valenza “normativa” al riconoscimento dei caratteri e dei valori del paesaggio, ha richiesto e richiede un tentativo di lettura e comprensione olistica del territorio di cui il paesaggio stesso è l’espressione dinamica ed evolutiva. Lettura che non poteva non richiamare le suggestioni del pensiero geografico, a partire almeno da von Humboldt (1860; Quaini, 1992), ma che non può evitare di confrontarsi con gli altri sviluppi specialistici consolidatisi nell’ultimo secolo in diversi ambiti disciplinari: in particolare col ruolo egemone dell’ecologia del paesaggio – soprattutto dopo la svolta degli anni Sessanta in cui si profila il «new determinism» di McHarg (1966) ed altri, come Forman e Godron (1986), Steiner (1994) – con la solidità degli approfondimenti storici e archeologici, con le stimolanti provocazioni degli economisti, degli agronomi, dei sociologi ed antropologi, con le “incursioni” degli architetti e degli urbanisti, con i nuovi sviluppi delle analisi estetiche e semiologiche. Sviluppi ed approfondimenti che hanno favorito un approccio “scientifico” alla questione del paesaggio, concorrendo a superare il confuso impressionismo delle opzioni di tutela e i vagheggiamenti nostalgici di un passato pre-industriale e pre-moderno, non meno che l’arroganza progettuale implicita nel «plaisir superbe de maitriser la nature». È un approccio che tende a consolidarsi e che comporta una “interpretazione” multilaterale, che non può nascere dal semplice accostamento delle molteplici letture disciplinari, ma richiede che esse interagiscano confrontandosi e fecondandosi a vicenda e convergendo in un quadro interpretativo unitario. Nonostante le difficoltà che si frappongono ad ogni tentativo di ricognizione inter- o trans-disciplinare, gli sforzi in questa direzione consentono di radicare nelle concrete realtà territoriali le scelte di tutela e gestione del paesaggio, motivandole, argomentandole e giustificandole nei confronti di ogni altra scelta di trasformazione e di sviluppo. Ma l’ambiente e il paesaggio non sono mai “un dato”, fisso ed immutabile, non sono mai separabili dal loro divenire. Anche in presenza dei più intoccabili valori, anche di fronte agli «outstanding universal values» che meritano l’inserimento nel Patrimonio mondiale dell’umanità, l’azione conservativa e le misure di protezione devono confrontarsi con il cambiamento: cambiamento dei dati fisici dell’ambiente e del paesaggio o anche e soprattutto dei modi con cui tali dati sono percepiti e interpretati nella insopprimibile attualità del presente. Questo riguarda direttamente i paesaggi “culturali”, come gran parte dei paesaggi agrari ereditati dal passato, il cui interesse paesaggistico nasce non tanto dalla coerente rappresentazione delle attuali attività agroforestali, quanto piuttosto dalla memoria o dalla nostalgia di quelle pregresse: un desiderio di paesaggio che nasce dalla nostalgia del territorio (Raffestin, 2007). Ma il cambiamento incessante dei rapporti del paesaggio col territorio interessa tutti i paesaggi: «anche i paesaggi che crediamo più indipendenti dalla nostra cultura possono, a più attenta osservazione, rivelarsene invece il prodotto» (Schama, 1995).

Questo richiama l’attenzione sul ruolo culturale del paesaggio, in quanto processo di significazione (Barthes, 1985) e di comunicazione sociale (Eco, 1975). Se si riconosce il duplice fondamento – naturale e culturale – dell’esperienza paesistica, occorre anche riconoscere che il sistema segnico costituito dalla sostanza sensibile del paesaggio non può in alcun modo ridursi ad un insieme “dato” di significati. La semiosi paesistica è un processo sempre aperto, in cui la dinamica delle cose – l’ecosfera – è inseparabile dalla dinamica dei significati – la semiosfera – e quindi dai processi sociali in cui questa si produce (Dematteis, 1998). La complessità del paesaggio si manifesta proprio nell’insopprimibile apertura dei processi di significazione che riesce ad attivare, nella molteplicità ed imprevedibilità degli approdi semantici. D’altra parte, questa apertura dinamica investe l’ambiguità intrinseca del paesaggio, la sua capacità di alludere insieme alle cose e alla loro immagine, alla res extensa e alla res cogitans; ambiguità che non va confusa con le incertezze semantiche del termine e che appare feconda proprio perché mantiene aperto e metaforico il suo significato: se ridotto a realtà oggettivabile e neutralmente quantificabile il paesaggio perderebbe il suo significato primario di «processo interattivo, osservazione incrociata tra idee e materialità» (Bertrand, 1998).

Queste constatazioni, se da un lato inducono ad utilizzare con cautela il concetto, sopra richiamato e largamente frequentato, di “invariante strutturale”, dall’altro richiamano l’attenzione sul carattere intrinsecamente “progettuale” del paesaggio: spiegano in che senso si può affermare che non c’è paesaggio senza progetto (Bertrand, 1998). Se è vero, come afferma la CEP, che il paesaggio è l’espressione della diversità del patrimonio naturale e culturale delle popolazioni e fondamento della loro identità, e che dunque ogni paesaggio ha una intrinseca valenza culturale (pur in assenza di un progetto “esplicito” e di un insieme coerente di scelte intenzionali, quali quelle che costruiscono i paesaggi culturali riconosciuti dall’UNESCO), ci si deve chiedere se o fino a che punto il riconoscimento culturale dei paesaggi possa prescindere da scelte di valore o da conseguenti strategie di valorizzazione. Sembra infatti evidente che la conservazione dei valori del paesaggio, se da un lato trova il suo fondamento nell’interpretazione strutturale sopra accennata, dall’altro non può evitare di fare riferimento ad una strategia più o meno esplicita di valorizzazione: riconoscimenti strutturali e visioni strategiche del cambiamento svolgono ruoli distinti ma complementari. Quale significato assume, in questa prospettiva processuale, la “conservazione” del paesaggio? Fino a che punto la salvaguardia dei valori riconosciuti può distinguersi dalla creazione di nuovi valori? Quale senso preciso può essere attribuito alla conservazione “innovativa” del paesaggio, ad una conservazione pensabile non solo come gabbia di vincoli ma come «luogo privilegiato dell’innovazione» (ANCSA, 1990)? E quale ruolo vi svolgono i giochi della memoria e le nostalgie del passato, a fronte delle pulsioni verso il progetto, verso nuovi codici d’ordine da imprimere nella materialità dei luoghi e negli sguardi che vi si proiettano?

 

 

4

Oggettività o soggettività del paesaggio?

Nella prospettiva della CEP, una difesa efficace e non meramente vincolistica dei valori paesistici non può evitare di fare riferimento a un progetto sociale, fondato sulla percezione e sulle attese delle comunità e degli attori locali. Un progetto che non si limita a registrare neutralmente le esigenze di tutela scaturenti dalla ricognizione dei valori in campo, ma riflette più o meno tacite opzioni di valore e concorre a perseguire i «disegni territoriali» (Sereni, 1961) di comunità più o meno vaste. Un progetto, quindi, che anche quando applicato in territori che non hanno conosciuto cambiamenti radicali dei paesaggi “originari”, comporta una creazione di valori e mette in causa i rapporti del paesaggio con le formazioni sociali che lo abitano, lo vivono e lo lavorano. Rapporti di identificazione e appropriazione, prima ancora che di produzione e fruizione, che costruiscono e continuamente ripropongono la “territorialità” del paesaggio, nel suo significato più profondo (Raffestin, 1998).

La considerazione di questi rapporti, richiesta dalla CEP, pone in risalto la dimensione “soggettiva” del paesaggio, al di là dell’“oggettività”

scientifica dei suoi dati geomorfologici, ecologici, storici, urbanistici ecc. D’altra parte la tensione fra soggettività e oggettività sembra ineliminabile dall’esperienza paesistica: la libertà intrinseca di questa esperienza, il fatto che il paesaggio circonda il fruitore e lo forza a partecipare costringendolo ad una percezione attiva (Zube, Sell, Taylor, 1982) ed obbligandolo a scegliere almeno il punto di vista, sembrano destinare i paesaggi contemporanei ad una fruizione sempre più individualizzata, quasi come ipertesti (Cassatella, 2001). Ciò non impedisce che l’evidenza empirica attesti il ruolo del paesaggio nella comunicazione sociale, la sua funzione d’orientamento (Lynch, 1971), il suo insostituibile contributo a far sì che gli uomini «non abitino ciascuno nel proprio isolotto», creando legami che ci uniscono attraverso «il nostro contatto muto con le cose, quando esse non sono ancora dette» (Merleau Ponty, 1993), la sua capacità di esprimere «un senso comune che crea un legame silenzioso e latente tra ogni individuo e gruppo sociale e il resto del genere umano e dei suoi ambienti geografici» (Dematteis, 1998). Ma la imprevedibile complessità delle interazioni tra i processi naturali e culturali che modellano il paesaggio, le nuove forme di mobilità e fruizione turistica del paesaggio e degli spazi naturali, la progressiva scomparsa dei tradizionali referenti sociali e l’emergere di nuovi attori e di nuovi modi di produzione paesistica, indeboliscono la possibilità di riconoscere il «senso comune» del paesaggio, di gestirne l’«iper-testualità» e di individuare i nuovi soggetti che possono prendersene cura. Il paesaggio «degli abitanti», che rinvia al territorio dell’abitare (Magnaghi, 1990) in cui si invera l’equazione heideggeriana tra l’abitare e l’edificare, rischia di diventare un’astrazione.

Nel contempo ogni pretesa d’ordine sovralocale rischia di contrastare o soffocare le istanze democratiche delle comunità locali tese a fondare sull’appropriazione e la difesa del paesaggio le proprie affermazioni identitarie. Il riconoscimento “oggettivizzante” di valori sovralocali rischia di soffocare il paesaggio come spazio dell’identità, evidenziando la contrapposizione tra le visioni e gli interessi degli outsider e quelli degli insider (Cosgrove, 1984). E d’altra parte è chiaro che l’identità si costruisce sulla diversità e presuppone quindi l’alterità (Telaretti, 1997); il riconoscimento dell’identità dei luoghi è basato sull’esperienza dell’altrove e del diverso, che coinvolge anche gli outsider, gli osservatori e i landscape users, come tipicamente nel caso del turismo.

Come conciliare allora l’oggettività razionale dei riconoscimenti e delle conseguenti misure di tutela con l’imprescindibile soggettività delle percezioni e delle attese locali? Come evitare da un lato l’arroganza dei piani e del sapere esperto, l’autoreferenzialità dei progetti che calano dall’alto e, dall’altro, la frantumazione delle azioni di difesa e la chiusura autistica dei sistemi locali?

 

Riferimenti bibliografici

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Martedì, 23 Gennaio 2024 17:02

Landscape Planning: invarianti e criticità

Landscape Planning: invarianti e criticità

Roberto Gambino

in Maria Mautone e Maria Ronza (a cura di), Patrimonio culturale e paesaggio: un approccio di filiera per la progettualità territoriale, Roma, Gangemi editore 2009

 

Abstract Landscape analysis and planning are assuming a growing relevance in territorial government processes, in relation to the scaling-up of many environmental problems and their complex interference with the social and economic ones.

According to the European Landscape Convention, landscape has to be conceived not only as the result of the interaction between natural and cultural factors, but also as the expression of the diverse common heritages and the foundation of the population’s identities. It requires a new paradigm for landscape policies, that cover the entire territory and invest a wide range of different administration sectors.

Landscape may be considered with diverse scientific approaches, ranging from geography and geomorphology to ecology, economy, history, antropology, semeiology, aesthetics and so on. But we need also a holistic vision, based on a structural interpretation of the territorial context, pointing out the "invariants” to be rispected, as well as the pressures and critical factors threatening them.

The structural interpretation is a crucial step towards the landscape planning, where the special protection granted to the outstanding values must be reconciled with the need for a careful and sustainable management of the entire territory.

 

La questione del paesaggio: rilevanza e attualità

Il paesaggio ha assunto negli ultimi due o tre decenni una crescente importanza nei processi di gestione e di pianificazione territoriale. La “domanda di paesaggio”, lungi dal ridursi ad una pulsione edonistica schiacciata dai bisogni primari, riflette il tentativo di ridefinire i rapporti dell’uomo con la terra (Berque, 1995). Essa è entrata da tempo nelle rivendicazioni con cui comunità più o meno ampie tentano di difendere o di ricostruire la propria identità. La rivalutazione della estrema diversità del proprio patrimonio paesistico fa parte delle politiche con cui l’Europa È in cerca di se stessa, ma l’identità paesistica È spesso orgogliosamente difesa anche dai paesi emergenti, non senza drammatiche contrapposizioni etniche e culturali. A scala locale, molte piccole comunità “perdenti”, emarginate dallo sviluppo economico e sociale, affidano alle proprie risorse paesistiche e ambientali le residue speranze di sopravvivenza o di rinascita.

L’obiettivo della valorizzazione del paesaggio figura quasi ritualmente nelle dichiarazioni e nei programmi strategici con cui le amministrazioni pubbliche ai diversi livelli tentano di disegnare il proprio sviluppo economico e sociale.

D’altra parte, a dispetto di tali programmi e dichiarazioni, la “questione del paesaggio”, in quanto groviglio inestricabile di problemi, di rischi e di minacce che hanno a che fare con il patrimonio paesistico, sembra destinata ad aggravarsi e complessificarsi, stando ai Rapporti ambientali internazionali, che evidenziano congiuntamente:

  • l’incessante salto di scala di molti problemi ambientali, quali quelli connessi al global change, che pongono crescenti difficoltà di controllo, di regolazione e di governo alla scala locale;

  • la crescente interferenza dei problemi ambientali con quelli economici e sociali, quali quelli che concernono la povertà, l’accesso all’acqua ed alle risorse primarie, l’accesso all’informazione e alla cultura.

In questo contesto, il paesaggio gioca un ruolo centrale. Esso lancia un ponte tra natura e cultura, non soltanto perchè storicamente è sempre il risultato storico dell’interazione tra fattori naturali e culturali, ma anche perché (come dice la Convenzione Europea del Paesaggio: CEP, CE 2000) È “una componente essenziale del quadro di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità”. Infatti, non esiste paesaggio, per quanto remoto, che possa dirsi esente da ogni influenza antropica (Shama, 1995).

Questa affermazione trova riscontro anche in situazioni di estrema dominanza dei fenomeni naturali, come le grandi vette o i grandi complessi vulcanici (nei quali, come dimostra esemplarmente il caso del Vesuvio, le dinamiche eruttive hanno spesso coabitato per secoli con le attività antropiche). Ma vale anche in assenza di trasformazioni fisiche indotte dall’uomo: è lo sguardo dell’uomo, la sua interpretazione del dato naturale che dà senso e “crea” il paesaggio, inventandolo (come nell’”invenzione delle Alpi” da parte dei grandi viaggiatori del ‘600 e ‘700: Joutard, 1986) o scoprendolo (come nei “paesaggi della scoperta”).

In entrambi i casi la creazione del paesaggio implica una qualche forma di controllo della realtà materiale da parte della cultura umana (Raffestin, 2007). In entrambi i casi lo sguardo dell’uomo lascia il segno. Da

Martedì, 23 Gennaio 2024 16:51

Riconoscere e ri-progettare la città contemporanea

UNIVERSITA’DI CAMERINO

SEMINARIO

Riconoscere e ri-progettare la città contemporanea

Ascoli Piceno, 20-5-2011

 

I TEMI DELLA TRANSIZIONE

Roberto Gambino *

 

 

 

1.Una fase di transizione?

 

Le notizie e le immagini della immane tragedia del Giappone sembrano travolgere ogni possibilità di approccio razionale, scientificamente orientato, alle grandi questioni dell’insediamento umano contemporaneo. Nonostante il clamore mediatico e la “domanda di verità” che accompagnano di regola le emergenze ambientali, è spesso troppo arduo o forse impossibile distinguere le questioni d’emergenza da quelle che si manifestano nel segno della quotidianità e dell’ordinarietà. Difficili, largamente inadeguati, i tentativi di cogliere i nessi che legano le catastrofi “naturali” all’opera più o meno consapevole e intenzionale dell’uomo. Non meno difficili i tentativi di riportare ad un’interpretazione unitaria, anche alla luce della teoria Thomiana delle catastrofi, gli esiti che si manifestano nei diversi settori dell’attività antropica, da quelli che riguardano le trasformazioni fisiche del territorio a quelli che riguardano l’uso ed i consumi delle risorse naturali, o le dinamiche sociali e culturali, o i processi economici e finanziari. E le difficoltà sono tanto maggiori quanto più all’interpretazione si tenta di associare la previsione: ”nel buio discernere il futuro”.

 

Ma davvero stiamo attraversando “la fase dei grandi rischi” (Scalfari 2011)? Davvero non è casuale la concomitanza tra sommovimenti tellurici di inedita violenza, effetti disastrosi del cambio climatico globale (Kushner, 2011), drammatiche scosse d’assestamento geopolitico su scala internazionale, crisi economica globale ed esplosione della “bolla speculativa”? Non è certo questa la sede per rispondere a domande come queste. Ma, anche se si concentra l’attenzione sull’urbanistica e la pianificazione, non si può fare a meno di interrogarsi sui grandi cambiamenti che attraversano i territori della contemporaneità e sulle risposte che la cultura tecnica e scientifica ha elaborato o sta elaborando agli albori del terzo millennio. La “crisi della modernità” (Harvey 1990) consumata nel corso degli ultimi decenni aveva segnato la decadenza delle grandi narrazioni, delle idee di progresso e di giustizia sociale, delle questioni generali come quelle legate al controllo agli usi del suolo e delle risorse primarie. La frammentazione ecosistemica, prodotto perverso dell’urbanizzazione totale del territorio, sembrava trovare riscontro nella frantumazione del tessuto sociale e dei sistemi di relazione, nella estrema diversificazione degli interessi e delle domande sociali. E. di conseguenza, negare spazio alle interpretazioni unificanti, all’idea stessa di interesse pubblico.

 

Nel corso degli anni ’80, i dibattiti sulla crisi dell’urbanistica, caratterizzati dalla contrapposizione quasi caricaturale tra la cultura del piano e la cultura del progetto, sembravano destinati a smentire definitivamente l’efficacia sociale della pianificazione. Luigi Mazza, in una lucida analisi su Urbanistica (n.98, 1990) riprendendo una nota di Bernardo Secchi (Casabella n.530, 1986), osservava come “la domanda sociale a cui tradizionalmente gli urbanisti davano risposta sarebbe mutata, non più ‘questione generale’, ma problema di minoranze; di questo gli urbanisti non si sarebbero accorti e perseguendo una ‘questione generale’ ormai inesistente avrebbero aggravato il sistema di disuguaglianze anziché attenuarlo”. Problemi d’ordine generale come quelli legati ai rapporti tra stato e mercato nella costruzione del territorio, e quindi al controllo dei valori del suolo, sembravano “rimossi dalle passioni e dagli interessi di buona parte degli urbanisti. L’attenzione di molti è piuttosto concentrata sulla questione della forma e del disegno della città”. Affascinata dai problemi dell’identità complessiva dell’urbs, la pianificazione sarebbe incapace di affrontare quelli della “frammentazione e l’articolazione della civitas e quindi la molteplicità delle forme secondo cui la nostra società tende ad autorappresentarsi”. Il contributo della pianificazione urbana e territoriale alla risoluzione della “questione urbana” su cui si era concentrata nei decenni precedenti la riflessione di studiosi come Castells, non senza potenti riscontri nei movimenti di base della società, sembrava indebolirsi; ed anzi la stessa questione - come questione, appunto, generale - sembrava perdere d’attualità e rilevanza nelle domande e nelle percezioni della società contemporanea.

 

A più di vent’anni di distanza, ci si può chiedere se queste osservazioni siano ancora valide, se la questione urbana costituisca ancora o nuovamente il quadro problematico con cui la pianificazione deve confrontarsi. E se l’uscita dalla crisi che sembra pervadere le nostre città e i nostri territori richieda la costruzione di un quadro interpretativo ampio e comprensivo: un quadro nel quale si possa tentare di situare coerentemente i grandi problemi della società contemporanea, da quelli che concernono le trasformazioni fisiche del pianeta a quelli che riflettono la radicalizzazione delle diseguaglianze economiche e sociali, le carenze ed il degrado delle condizioni abitative, la crescente mobilità delle popolazioni, delle attività e delle idee. In altre parole, dobbiamo chiederci se e come la cultura della pianificazione (in termini di statuti scientifici e competenze disciplinari, di capacità tecniche professionali, di apparati amministrativi, di strumenti giuridici e di quadri istituzionali, ma anche di attitudini e sensibilità culturali) possa oggi tradurre “le preoccupazioni individuali in questioni pubbliche” (Bauman, 2008). . Si impone un cambio di prospettiva, per passare da una visione patrimoniale statica e inventariale – quale quella che ha orientato e tuttora in larga misura orienta l’azione di tutela del patrimonio culturale e naturale (Choay 1993) - a una visione dinamica e strutturale, in grado di cogliere le drammatiche criticità e l’attualità del territori. E’ una visione che sconta l’impossibilità di archiviare l’eredità storica nelle memorie e nei reperti del passato e spinge invece a riconoscere l’attualità del territorio storico nella sua incessante contemporaneità con la cultura della società che lo abita e lo produce. Una visione che, incrociando più vaste riflessioni sulle dinamiche della società contemporanea, ha aiutato a comprendere la (ri)scoperta del territorio come risorsa a rischio di perdita e di degrado, ma anche come insostituibile fondamento dell’azione politica e culturale.

 

Nel tentativo di offrire qualche risposta a tali interrogativi, non si può prescindere da una constatazione quasi banale, che riguarda l’incrocio della questione urbana con la “questione ambientale” latamente intesa. Espressione, quest’ultima, che evoca un groviglio inestricabile di problemi, di rischi e di paure, ma anche di speranze, di domande e di attese che hanno assunto nella seconda metà del secolo scorso crescente importanza per la società contemporanea. Da un lato infatti i processi di urbanizzazione e di trasformazione territoriale hanno accelerato e amplificato la frantumazione dell’ecosfera, moltiplicando le diseguaglianze e gli squilibri che richiedono specifica attenzione e quindi specifici “progetti”. L’enfasi sulla diversità (che, a livello internazionale, si è progressivamente spostata dalla sfera biologica –oggetto degli accordi di Rio nel 1992- alla sfera bio-culturale su cui l’Unesco e l’Unione mondiale della natura hanno ancora recentemente portato l’attenzione), la ricerca dei valori di identità (su cui la stessa Convenzione Europea del Paesaggio concentra le sue raccomandazioni: CoE, 2000), la rivendicazione dei nuovi diritti di cittadinanza (che includono la difesa delle proprie peculiarità), il rilievo politico e socioculturale attribuito allo sviluppo locale (che pervade le dichiarazioni e gli atti di indirizzo delle amministrazioni pubbliche a tutti i livelli), sono alcuni tratti fondamentali dei cambiamenti verificatisi in quei decenni, che spingono assai più di prima, a “rendere disomogeneo lo spazio e a definire al suo interno differenze” (Secchi, ibidem). Ma dall’altro lato, l’esplosione dei rischi ambientali e il “salto di scala” di gran parte dei problemi ambientali, economici e sociali (sempre meno trattabili a scala locale, sempre più richiedenti azioni e apparati di controllo a livello regionale, nazionale e soprattutto internazionale), ripropongono i grandi temi dell’integrazione trans-scalare delle azioni pubbliche di regolazione, dei grandi racconti e delle “big pictures” su cui si fondano le strategie d’insieme (basti pensare ai sistemi infrastrutturali). Emblematico, in questo senso, il tema del “global change” e dello sconfinato insieme di attività e di politiche che dovrebbero contrastarne o mitigarne gli effetti indesiderabili.

 

2. Luoghi, reti e paesaggi nella transizione in corso

 

La grande transizione in cui siamo impegnati non riguarda soltanto i cambiamenti reali del mondo contemporaneo, ma anche i modi con cui li osserviamo, le concezioni, i miti e le utopie che guidano le nostre analisi e le nostre scelte. Non possiamo evitare di misurarci coi processi emergenti, ma “per farlo dobbiamo poterli riconoscere. E per riconoscerli capire quanto sta accadendo” (Hillman, 2011). A questo fine l’approccio “territorialista” – quale quello recentemente proposto dalla neonata “Società dei territorialisti”: Magnaghi 2010 - ha svolto e può svolgere un ruolo significativo. “Questo approccio ha posto al centro dell’attenzione disciplinare il territorio come bene comune, nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva, e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile […]. Il ritorno al territorio come culla e risultato dell’agire umano esprime e simboleggia la necessità di reintegrare nell’analisi sociale e quindi anche economica, gli effetti delle azioni umane sulla mente umana e sull’ambiente naturale, sempre storicamente e geograficamente determinati”. Il territorio, dunque, non come inerte supporto delle attività antropiche, ma come sistema costitutivo delle relazioni che esse intrattengono con le dinamiche naturali.

 

In questa prospettiva, il rapporto tra natura e cultura svolge un ruolo cruciale, tutt’altro che scontato. Respinte le schematizzazioni meno sostenibili (come la divisione dicotomica del territorio in spazi naturali  e spazi antropizzati: divisione che tuttavia ricorre ancora non solo nelle politiche dei parchi e delle aree protette "insularizzate", ma anche in molte politiche territoriali volte a contrastare con misure di esclusione i consumi dissennati di territorio)  occorre riconoscere che la discussione è aperta, sul piano teorico non meno che  politico ed operativo. Occorre da un lato de-naturalizzare le scelte di trasformazione antropica, troppo spesso occultate da generici richiami  agli eventi naturali (le false emergenze naturali  che coprono autentiche  "calamità pianificate"  e  logiche devastanti di gestione "emergenziale" del territorio, ma anche quelle interpretazioni strutturali di piani urbanistici e territoriali che confondono il "dato" col progetto). Dall'altro occorre, dopo la svolta ecologista della metà del secolo scorso e le sue ricadute deterministiche (McHarg 1966), ricostruire i rapporti tra naturalità, ruralità e urbanità, riconoscendone la compresenza pervasiva in ogni angolo del pianeta. Si configura un radicale superamento di quella contrapposizione tra natura e cultura che ha svolto un ruolo centrale nella civiltà occidentale in età moderna, a partire dalle grandi utopie rinascimentali. Se ancora alla fine dell’800 Ebenezer Howard (1898) poteva proporre con la teoria dei tre magneti e l’idea della “Città giardino” una sintesi creativa, i grandi cambiamenti del secolo scorso (come l’industrializzazione dell’agricoltura o l’urbanizzazione “totale” dello spazio abitabile e la reciproca contaminazione dei rispettivi spazi dedicati) hanno messo fuori gioco i tradizionali modelli interpretativi e sollecitato l’elaborazione di nuovi rapporti.

 

Si afferma faticosamente una crescente consapevolezza delle responsabilità antropiche nella determinazione o nell’aggravamento dei rischi, delle calamità e del degrado ambientale, mentre i “nuovi paradigmi” che si profilano a livello internazionale (IUCN 2003) legano ormai ogni prospettiva di conservazione della natura alla promozione e regolazione dello sviluppo culturale, economico e sociale sostenibile. Da un lato l’enfasi sull’impegno internazionale per la difesa della bio-diversità concede uno spazio crescente all’importanza della diversità bio-culturale, ostaggio dei processi di urbanizzazione totale ma mai indipendente dalle dinamiche naturali (Unesco 2009). E’ questa la diversità che costituisce la ricchezza (il “capitale”) su cui basare lo sviluppo sostenibile del territorio. E d’altro canto non si può certo ignorare il significato culturale connesso all’utilizzazione antropica delle risorse naturali, alla fruizione, alla percezione e all’apprezzamento individuale e collettivo dei paesaggi e delle “bellezze naturali”. Già la scoperta humboldtiana del “nuovo mondo” (von Humboldt, 1860), come l’”invenzione” sette-ottocentesca delle Alpi, orientano gli sguardi e umanizzano irreversibilmente il mondo naturale, anche in assenza di rilevanti trasformazioni fisiche. Soprattutto nei territori europei in cui più densa e pervasiva è stata la sedimentazione culturale, la naturalità con cui abbiamo a che fare è quella storicamente determinata dalle vicende pregresse dell’appropriazione antropica dello spazio: non solo da quella che ci ha lasciato un patrimonio ammirevole di paesaggi culturali, ma anche dalle spinte omologatrici che hanno investito la campagna, ipersemplificato e banalizzato i paesaggi agrari ereditati da secoli di storia, piegato le dinamiche naturali alle logiche, spesso indecifrabili, dell’espansione urbana e della dispersione insediativa, ”, smantellato i reticoli ecologici (fossi, canali, siepi ed alberate, ecc.), presidio prezioso della diversità paesistica e della stabilità ecosistemica. (Gambino 2000). Negli scenari che si vengono delineando a livello globale, la naturalità così “storicizzata” non è in alcun modo confinabile in “aree naturali” sottratte (illusoriamente) all’influenza antropica, ma incrocia ovunque l’opera dell’uomo, sia che essa si allei assecondandole con le dinamiche naturali, sia che le contrasti in forme più o meno calamitose.

 

E' in questo contesto complesso e problematico che va concentrata la ricerca di  una nuova territorialità, gravida di memorie e di consapevolezza ambientale, sullo sfondo di un'evoluzione del pensiero scientifico contemporaneo che sembra mutare il senso della presenza umana nel mondo. In questa ricerca il riferimento alla dimensione locale è fondamentale. Una dimensione che evidenzia le identità e i caratteri su cui riposa la diversificazione del territorio, senza vincoli di scala. Che crea i paesaggi, con visione dinamica e trans-scalare, con collegamento incessante alle percezioni, alle attese ed ai progetti degli abitanti. ma i luoghi non sono frammenti autonomi e indipendenti, non sono mondi separati, sono “schegge del mondo” (Magris…). La loro capacità di conservare i propri caratteri identitari dipende, non meno che dalle “chiusure operative” dei sistemi locali, dall’apertura verso il cambiamento e quindi dalla loro capacità di affacciarsi efficacemente sulle reti di relazioni che agiscono nel contesto territoriale, alle diverse scale.

 

E’ qui che si concreta il rapporto tra valori locali e valori universali. Negli scenari internazionali anche il riferimento prioritario ai sistemi di valori sovra-locali è oggi in discussione. Da un lato infatti l’indietreggiamento dei valori universali, minacciati od aggrediti dagli attuali modelli di sviluppo, spinge a misure esemplari di tutela, quali quelle accordate ai siti inseriti nel World Heritage. Ma dall’altro lato, la rivalutazione dei sistemi locali e delle ragioni dello sviluppo locale, soprattutto in situazioni di marginalizzazione o di declino, trova riscontro nella riaffermazione dei valori identitari locali, visti spesso dalle comunità perdenti come le “radici del proprio futuro”. Sebbene le rivendicazioni identitarie non siano certo esenti da chiusure autistiche e aspre conflittualità (le ”identità armate”), è nei sistemi culturali locali che si radicano i valori universali, come dimostrano le ricerche e i dibattiti che hanno accompagnato varie esperienze di riconoscimento di Siti Unesco, compresa quella recente, relativa alle Dolomiti: inserite come “sito naturale” ma per ragioni che richiamano esplicitamente la rilevanza dei patrimoni culturali locali. Tra i valori locali e i valori universali sembra così delinearsi un rapporto di complementarietà, o più precisamente di forte interazione, che non cancella la possibilità di conflitti e di contraddizioni. (Gambino 2010). Pensata come un argine contro la perdita o la regressione dei valori universali, la difesa del migliaio di siti del World Heritage sparsi in tutti i continenti sembra spesso portare piuttosto il vessillo di “peculiari” valori locali, capaci di competere vantaggiosamente sull’arena globale. Non a caso le battaglie politico-culturali per le “nominations” dei Siti da inserire nelle liste Unesco sono sempre più spesso ingaggiate in nome del rilancio e del consolidamento di culture e di paesaggi locali (come tipicamente nel caso dei paesaggi viticoli francesi od italiani).

 

La tensione tra valori naturali e culturali, tra valori locali e universali, evoca inevitabilmente il rapporto tra i luoghi e le reti. Luoghi e reti sono da tempo pensati come metafore complementari, per l’interpretazione e il progetto dei territori della contemporaneità (Gambino1994?). Esse possono aiutare a riconoscere la “territorialità del paesaggio” nell’ampio significato attribuitogli dalla Convenzione Europea promossa dal Consiglio d’Europa nel 2000. E’ nel paesaggio, quale risulta dall’incessante interazione delle dinamiche antropiche e naturali, che l’insediamento storico prende il suo pieno significato, di storicità ed attualità. E’ nel paesaggio che i centri storici dialogano non solo con la campagna “edificata” (Cattaneo 1845), nel corso dei secoli e dei millenni dalle reti agrarie, dai sistemi delle acque e dai sistemi della viabilità e delle infrastrutture, ma anche con la presenza mobile della natura, che, riluttante ad ogni confinazione, pervade e diversifica gli spazi che circondano le aree in vario modo costruite. Nonostante i processi di urbanizzazione diffusa, la proliferazione delle maglie infrastrutturali e la stessa “modernizzazione” della pratiche colturali – soprattutto nell’ultimo mezzo secolo - abbiano profondamente ed estesamente intaccato i paesaggi ereditati dal passato, frantumandone i reticoli connettivi e i caratteri identitari, è ancora in quei paesaggi e nella loro coerente evoluzione che si può tentare di recuperare la qualità, la bellezza e la riconoscibilità dei territori contemporanei. La ricostruzione di migliori equilibri ecologici e di più accettabili condizioni di sicurezza nel quadro di vita delle popolazioni, non meno che la ricerca di nuovi fondativi rapporti coi luoghi, trova nella diversità dei paesaggi un’espressione fondamentale. Ma anche, inversamente, la piena considerazione dei nuovi significati di centralità sociale spinge ad interpretarli nel quadro della reinvenzione dei paesaggi della modernità. La chiave paesistica offre un ausilio potente per orientare il progetto di territorio al riconoscimento delle nuove forme del rapporto tra cultura e natura: passo obbligato per migliorare la qualità complessiva offerta agli abitanti non meno che ai turisti e ai visitatori.

 

3. La riarticolazione della centralità urbana.

 

In particolare, è il paesaggio urbano storico, che compone forme propriamente urbane con frange peri-urbane di “campagna urbana” (Donadieu 2006), ad attrarre sempre più (come già rilevava il Memorandum di Vienna nel 2005) visitatori, residenti e capitali. Nella transizione verso la società della cultura e della conoscenza, e a fronte delle spinte omologanti determinate dai processi di globalizzazione, il ruolo della centralità è sempre meno affidato alle relazioni strettamente economiche e funzionali (le funzioni “centrali” del terziario e del quaternario) e sempre più alle relazioni simboliche, alle immagini identitarie e alle dinamiche “intangibili”. E’ soprattutto su queste che fanno leva le politiche di marketing con le quali città e territori cercano di affrontare con speranze di successo le sfide competitive che si profilano a livello internazionale. E’ su queste che recenti documenti Unesco (2009) richiamano l’attenzione, sottolineando il ruolo complesso che la “messinscena” paesistica svolge combinando le immagini durevoli della città storica con le suggestioni delle nuove architetture che ne ridisegnano i rapporti col contesto extraurbano. Le tensioni che ne derivano non sono certo esenti da equivoci e contraddizioni. Come dimostrano le aspre contese che hanno accompagnato la “verticalizzazione” di tante città europee (i grattacieli di Londra o di Parigi o di Milano) è evidente il rischio che proprio le nuove immagini della “modernizzazione urbana”, prendendo le distanze dall’eredità storica dei singoli paesaggi urbani e mettendosi al servizio degli stessi meccanismi speculativi che dominano il mercato immobiliare, ne configurino paradossalmente la sostanziale omologazione. In prospettiva internazionale, il rischio che i sogni della “città europea”, orgogliosamente contrapposta alla città “americana” per la complessità della sua stratificazione storica, cancellino ogni attenzione per i caratteri distintivi, le regole di coerenza e le qualità specifiche dell’urbanità contemporanea.

 

E’ questa la posta in gioco: la centralità urbana e il suo significato per la società contemporanea, come livello specifico dell’urbanità, essenza ultima di quel “diritto alla città” (Lefebvre 1970) su cui si svilupparono le lotte urbane degli anni ’70; ma nuovamente al centro della domanda sociale di città e di memoria. E’ il caso paradigmatico dell’Aquila, dove l’urgenza dei nuovi interventi sostitutivi per i “terremotati” ha gettato nell’ombra l’esigenza di recuperare la città storica e i suoi valori socioculturali, appassionatamente propugnata dai suoi abitanti. In prospettiva internazionale, la crisi delle politiche “centriste” (emblematizzate dalle new towns e dalle villes nouvelles) concorre a mettere in discussione l’idea che soltanto lo spazio della convergenza e dell’aggregazione fisica – la piazza – possa ospitare i valori di centralità e che al contrario gli spazi aperti, la campagna e gli spazi della “dissoluzione urbana” vi si oppongano dialetticamente. Questa discussione ha particolare rilevanza per i centri storici. Essa ne investe anzitutto il ruolo “centrale” sotto il profilo economico-funzionale, sociale e culturale, nell’ambito dei rapporti tra città compatta e città diffusa. Rapporti assai più problematici di quanto non emergesse nelle critiche alla dispersione urbana dei decenni scorsi, che vanno ripensati a fronte dell’emergere della città “reticolare” (Dematteis 1995, Gambino 2009), preludio forse di nuove più complesse forme di metropolizzazione (Indovina 2010), In queste nuove configurazioni urbane i grandi eventi prendono sempre più spesso forma fuori dei luoghi tradizionali, la quotidianità si appropria di spazi inconsueti, i giovani reinventano continuamente gli spazi della creatività. Ma la discussione investe anche l’altro termine del concetto di centro storico, la sua storicità, negandone in radice la possibilità di ancorarla a precise e stabili delimitazioni spaziali. La riarticolazione della centralità urbana non riguarda pezzi di città o brani staccabili di territorio, ma il territorio storico nella sua complessità.

 

4. Il nuovo ruolo degli spazi liberi

 

Nella città e nel territorio storico contemporaneo, dentro o ai bordi dello spazio “costruito”, gli spazi liberi sono sempre meno interpretabili con la metafora ambigua del ”verde urbano”, sempre più spesso teatro della nuova fenomenologia urbana. Teatro che non si racchiude nei confini stabili dell’urbano, poiché si ramifica dinamicamente nelle reti territoriali, che entrano ed escono dalla città compatta (tipicamente con le fasce fluviali e i sistemi delle acque), la attraversano e la legano al contesto territoriale. In questo quadro la “rinaturalizzazione” della città, oggetto di politiche urbane e territoriali ricorrenti a livello internazionale, può assumere un significato nuovo e diverso. Va pensata non tanto per concedere al verde qualche metro in più, quanto per riportare la natura in città restituendole la pienezza di quel significato ecologico, storico e culturale, che traspare vividamente dall’iconografia storica. Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e attualizzare l’idea delle “cinture verdi”, nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul territorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e paesaggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. In questa direzione le politiche di conservazione della natura e del paesaggio sembrano destinate a sfidare la cultura urbanistica, costringendola ad uscire dai suoi recinti tradizionali (legati più o meno rigidamente all’ambiente costruito) per assumersi nuove più pesanti responsabilità in ordine alla realizzazione dello spazio pubblico e dello stato sociale.

 

D’altronde, nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche – per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesistica del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate – ha già assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (Ced-Ppn, 2008). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni biologiche, di collegamento tra habitat e risorse naturali che rischiano l’insularizzazione, ma assumono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegando risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove “infrastrutture ambientali” capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno importante di quello tradizionalmente assegnato alle reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo “in uscita” dalla città, vale a dire verso i territori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche “in entrata”, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a riportare la natura in città (“greening the city”), per i progetti di recupero e riqualificazione delle fasce fluviali e per i sistemi delle acque storicamente consolidati, per il riuso non meramente immobiliare dei “vuoti urbani” e delle grandi aree dismesse, segnala il maturare di una nuova consapevolezza dei grovigli di deficit che occorre rimuovere.

 

5. Parchi e paesaggi, nuove alleanze

 

Lungi dal potersi rinchiudere in orizzonti settoriali e in pericolose politiche d’emergenza, la conservazione innovativa della qualità del territorio richiede strategie lungimiranti d’intervento strutturale e preventivo, che guardino non solo alle “eccellenze” ma all’insieme del territorio; è questo che va salvato e valorizzato, non le singole “cose” che ospita. Le nuove visioni che caratterizzano gli scenari internazionali, i nuovi paradigmi che dovrebbero guidare la conservazione della natura, le prospettive reticolari che si profilano nelle città e nei territori contemporanei, sollecitano strategie diramate e complesse, trans-scalari e pluri-settoriali. Calamità falsamente naturali e tragedie ambientali quotidiane ribadiscono la necessità e l’urgenza di collegare la tutela e la valorizzazione delle città e dei centri storici, dei paesaggi e del patrimonio culturale al rispetto della natura e del contesto ambientale, oggi oggetto di politiche largamente, drammaticamente separate. Convergono, nella crisi che attraversiamo, cause diverse, che attengono all’indebolimento e alla inadeguatezza degli apparati istituzionali e di governo, ma anche alla scarsa fiducia negli atteggiamenti cooperativi, nelle possibilità di partnership e di collaborazione inter-istituzionale: anche quando, come nel nostro paese, la “leale collaborazione” tra le istituzioni di governo è esplicitamente richiesta dalla stessa Costituzione. Si determina quindi una difficoltà insuperabile nella costruzione di quella “intelligenza collettiva” dell’impresa, della politica e del progetto (SIU, 2011) che costituisce una condizione indispensabile per affrontare con speranza di successo le sfide del territorio.

 

Nel tentativo di cambiare rotta, si profilano in particolare nuove alleanze tra politiche per la natura e politiche per il paesaggio (Gambino 2009, 2010). Le ragioni sono molteplici e affondano le radici nella comune esigenza di incidere positivamente nel governo del territorio. Da un lato si constata che le politiche di conservazione della natura, nonostante le carenze e le contraddizioni dell’azione pubblica, stanno assumendo un rilievo inaspettato nelle politiche locali e regionali. In particolare, nel 2010, l’Anno della Biodiversità, è stato largamente ribadito il ruolo centrale dei parchi e delle “aree naturali protette”, sia di quelle istituite dai singoli Stati con riferimento alle definizioni dell’Unione Mondiale della natura (IUCN 1994), sia di quelle istituite a livello sovra-nazionale, come la Rete Natura 2000 per i paesi dell’Unione Europea. Una spettacolare e incessante crescita dell’insieme di aree protette ha portato negli ultimi decenni ad estenderle ad una quota assai rilevante del territorio complessivo: in Europa si stima che oltre un quarto ne sia coperto e che quindi oltre un quarto della popolazione sia direttamente influenzata dalla loro gestione (CED-PPN 2008). Tale quota può essere ulteriormente aumentata se si considera che i “nuovi paradigmi” sanciti dall’IUCN spingono ad estendere i benefici delle aree protette ai rispettivi contesti territoriali (IUCN 2003). Dall’altro lato, le politiche del paesaggio, secondo gli orientamenti fissati dalla Convenzione Europea, riguardano l’intero territorio e sono esplicitamente chiamate ad incidere su ogni politica, dall’urbanistica ai trasporti all’agricoltura, che possa comportare la conservazione e la trasformazione del paesaggio. Ma, nonostante la concordanza dei fini e la larga sovrapposizione tra le aree naturali protette e i paesaggi a vario titolo tutelati, le rispettive politiche sono, in generale, sostanzialmente separate: le politiche dei parchi fanno capo ad istituzioni, a strumenti e forme di regolazione e a strategie generalmente diverse, salvo che nel caso di vera e propria sovrapposizione (come per le “aree protette” ricadenti dei “paesaggi protetti” così classificati dall’IUCN, che coprono peraltro più di metà del territorio protetto). Nel caso dell’Italia, la difficoltà del raccordo tra i due ordini di politiche è ben rappresentata dalla contraddizione tra l’art.12 L.394, che affida ai Piani dei Parchi un ruolo “sostitutivo” nei confronti di ogni altro piano, e l’art…. del Codice … che attribuisce invece ai Piani Paesaggistici una sorta di primato nei confronti anche dei Piani dei Parchi.

 

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, sembra dunque profilarsi una doppia necessità di integrazione, delle politiche della natura e del paesaggio con le politiche del territorio. Un ambizioso programma di ricerca in tal senso, avente come campo d’attenzione l’intera Europa, fu presentato a Barcellona nell’ambito del Congresso IUCN (Gambino…). L’alleanza tra parchi e paesaggi non può che trovare un terreno comune di applicazione nel contesto territoriale e in una prospettiva autenticamente progettuale. Il “progetto di territorio” (Magnaghi 1998) è stato da tempo indicato come il luogo dell’integrazione degli interessi pubblici diversi, della valutazione e composizione dei valori e dell’orientamento strategico delle politiche di regolazione dei processi trasformativi. E già 50 anni fa documenti come la Carta di Gubbio (ANCSA1960) attribuivano al Piano Regolatore il compito di delineare le “azioni d’insieme” necessarie per il risanamento dei centri storici. Molti altri problemi attinenti l’insediamento umano hanno concorso in seguito a complessificare ed aggravare la questione urbana, sollecitando politiche pluritematiche convergenti, in grado di contrastare la settorialità dell’azione pubblica e la sua schiacciante dipendenza dalle logiche dell’emergenza E’ difficile pensare che esse possano fare a meno del “progetto di territorio” latamente inteso, come processo sociale ampio e condiviso, capace di rispecchiare, per dirla col Sereni, i “disegni territoriali” delle popolazioni locali. Processo che non può evitare di muoversi in un orizzonte cooperativo, in cui l’azione fondamentale dei soggetti e dei poteri locali trovi i necessari riscontri a livello regionale, nazionale e sovra-nazionale.

 

 

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Il testo riprende in parte la relazione dell’autore al Convegno internazionale dell’ANCSA su “Attualità del territorio storico” a Bergamo nel 2011.

 

Riferimenti

 

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Estratto da AAVV WWF 2010 su “Le prospettive territoriali delle aree protette” (cap.10)

Roberto Gambino

 

 

3. Parchi e continuità ambientale: da Caracas a Barcellona

 

3.1. Una piattaforma stabile

Pochi mesi fa a Barcellona, aprendo il IV Congresso Mondiale per la Conservazione della Natura, davanti a 7500 delegati di 177 paesi, Julia Marton-Lefevre (Direttrice dell’Unione Mondiale della Natura: IUCN 2008) ha richiamato la drammatica attualità dell’impegno assunto 60 anni prima a Fontainebleau dai fondatori dell’Unione. Cambiamenti globali, crisi energetica, conflitti armati per l’uso delle risorse di base, persino la crescita degli investimenti in campo ambientale e dell’eco-business, sembrano indicare altrettanti punti di svolta e sollecitare ripensamenti delle tradizionali posizioni ambientaliste.

Qualche anno fa, a conclusione del V Congresso Mondiale dei Parchi a Durban (IUCN 2003) l’allora Direttore dell’Unione, Achim Steiner, indicava l’urgenza di uno shift in focus, uno spostamento d’attenzione, nelle politiche dei parchi, delle aree protette e della conservazione della natura. Anche allora, l’impegno ad incidere sul futuro sembrava porre in discussione l’efficacia e l’affidabilità dei paradigmi tradizionali.

Continuità e cambiamento si inseguono nella storia dell’IUCN. Se si leggono con attenzione I documenti relativialleprimeAssembleegeneralidell’Unione,neglianniè50,in un mondo uscito stremato dalla guerra e scosso da potenti spinte di riorganizzazione globale politica ed economica, non È difficile cogliere anticipazioni tematiche che dovevano trovare nei decenni successivi più maturi sviluppi, sia nei documenti dell’IUCN, sia in quelli di altri organismi internazionali (UNCED,1992).Ed È interessante notare che fin dalle prime affermazioni di principio l’attenzione per la conservazione della natura ñ che ovviamente costituisce l’asse portante del pensiero dell’Unione, ancora recentemente ribadito a Barcellona nei dibattiti sulla ridefinizione del concetto di area protetta ñ non si stacca dalle preoccupazioni per i problemi di sviluppo e di qualità della vita. L’idea che la protezione della natura costituisca non soltanto un limite allo sviluppo (come nelle elaborazioni degli anni 60 del Club di Roma: Meadows et al., 1972) ma la base di ogni autentico sviluppo, sembra affiorare ñ non senza ambiguità e contraddizioni ñ nelle riflessioni dell’IUCN fin dai primordi.

Il rapporto tra ecologia e sviluppo (anche in armonia con gli slogan dell’UNEP circa l’Economic Ecology e più in generale con la svolta ecologica degli anni sessanta ) prende rilievo già a Caracas, 1952, o a Edimburgo, 1956, ben prima del Rapporto Bruntland del 1987, grazie alla visione globale che caratterizza l’evoluzione del pensiero IUCN. In questa visione campeggiano problemi come quelli delle carestie, della scarsità d’acqua, dell’indigenza estrema e delle nuove forme di sfruttamento, prevaricazione e schiavitù, che in nessun modo potrebbero essere ignorati dalle politiche di conservazione della natura. Anzi sono proprio questi problemi a spostare il fuoco dell’attenzione da una visione euro-centrica quale quella che ha plasmato a lungo le concezioni dominanti dei parchi e delle aree protette - ad una visione eco-centrica, quale quella che si È progressivamente consolidata attraverso le General Assemblies (da Fontainebleau,1948,a Buenos Aires,1994) e poi i World Conservation Congress (daMontreal,1996,aBarcelona,2008).Il concetto di Ecospace, su cui si concentra nel 2000 il Congresso di Amman, riflette la convinzione che gli obiettivi della

conservazione non possono essere raggiunti all’interno dei con fini nazionali. Si afferma una sorta di grande utopia, che porta a sperare ñ nonostante tutto - in un peaceable kingdom, a place of harmony and compromise between ourselves and our natural environmentî (Kakabadse, 2000), scavalcando ogni barriera.

Non È questa la sede per una riflessione critica sulle politiche internazionali che contrastano questa utopia, disegnando traiettorie di sviluppo che vanno spesso in direzione del tutto opposta.

Ma sembra lecito riconoscere nella storia dell’IUCN un filo conduttore che collega le sue proposte e i suoi dibattiti alla maturazione globale della questione ambientale e dei suoi rapporti con le grandi questioni irrisolte della società contemporanea. Seguendo questo filo conduttore, i documenti prodotti dall’IUCN in 60 anni di attività e la sequenza delle assemblee e dei congressi mondiali promossi dall’Unione possono essere riguardati come momenti diversi di un discorso ininterrotto sul grande tema dei rapporti tra l’uomo e la natura, che ha consentito l’edificazione di una stabile piattaforma di idee. Questo discorso ricco di spunti che possono variamente ispirare un ampio spettro di politiche pubbliche largamente interconnesse, da quelle riguardanti l’uso delle risorse o la produzione energetica a quelle per gli sviluppi insediativi a quelle per l’educazione, l’informazione e la cultura. Se si concentra l’attenzione sulle politiche più direttamente concernenti i rapporti tra pianificazione e biodiversità, È possibile riconoscere alcune linee evolutive di particolare interesse come le seguenti.

 

3.2. Dalle isole alle reti

Una prima linea evolutiva riguarda i parchi e le aree protette, tema centrale nell’attività dell’IUCN che gli ha dedicato, in parallelo alle Assemblee e ai Congressi Mondiali sopra richiamati, una apposita serie di appuntamenti mondiali, da quello di Seattle del 1962 a quello di Durban del 2003. I 5 congressi mondiali sui parchi, distribuiti nell’arco di 40 anni, hanno scandito un processo di profondo cambiamento nei paradigmi della concezione, gestione e pianificazione, secondo l’analisi di Adrian Phillips, a lungo presidente della apposita Commissione WCPA (Phillips, 2002?). Un cambiamento che nell’arco di più di un secolo ha accentuato il distacco dal modello nordamericano, sia per quanto concerne la realtà dei parchi (sempre meno riferibili all’archetipo del santuario della natura al riparo da ogni influenza antropica) sia per quanto concerne le forme di tutela e di gestione e il ruolo in proposito delle comunità locali (sempre meno riducibile ad un sistema di comandi top-down). Cambiano, dal primo Congresso ai successivi, le raccomandazioni finali di ciascun Congresso, anche se quelle indicate dal primo, quello di Seattle (concernenti la conservazione degli ecosistemi, la definizione degli standard, i rischi e le minacce da fronteggiare, l’assistenza tecnica, i servizi interpretativi, le misure specifiche per la biodiversità, l’apporto della ricerca scientifica) non mancano di essere richiamate in quelli successivi. Già a Bali, 1982, si mette l’accento sul contributo delle aree protette e più in generale delle Risorse viventi allo sviluppo sostenibile, tema centrale della World Conservation Strategy che proprio nel 1980 viene lanciata dall’IUCN con UNEP e WWF. Il tema È poi ripreso a Caracas, 1992,a poca distanza dal grande meeting di Rio de Janeiro (UNCED,1992),approfondendo i rapporti delle politiche delle aree protette con i problemi del global change, della perdita di biodiversità, delle comunità locali e delle popolazioni indigene, dell’uso sostenibile delle risorse primarie, del cambiamento del ruolo dei gestori (da ì manager a ì regolatori).

Ma È forse soltanto a Durban, 2003, che il cambiamento di paradigma si profila in tutta la sua portata. Esso puÒ essere riassunto (Phillips, 2003) mettendo a confronto le concezioni con cui le aree protette erano viste e quelle con cui dovrebbero ora essere viste:

-pianificate e gestite contro le popolazioni locali - ora attivate con, per e talora da loro;

-governate centralmente - ora da molti partner;

-messe da parte per essere conservate- ora governate anche per scopi economici e sociali;

-pagate dal contribuente- ora pagate anche da altre fonti;

-gestite dagli scienziati e dagli esperti naturalisti- ora da esperti di varia competenza;

-gestite senza cura per le comunità locali- ora per venire incontro ai loro bisogni;

-sviluppate separatamente- ora pianificate nel quadro nazionale, regionale e internazionale;

-gestite come isole- ora come reti (aree di stretta protezione, buffer e connessioni verdi);

-istituite soprattutto per tutela scenica- ora spesso per scopi scientifici, economici e culturali;

-gestite principalmente per visitatori e turisti- ora con più riguardo per le popolazioni locali;

-gestite reattivamente per il breve termine- ora adattivamente e in prospettive di lungo termine;

-pensate per la protezione- ora anche per il restauro e la riabilitazione;

-viste principalmente come una risorsa nazionale- ora anche delle comunità locali;

-viste soltanto come un problema nazionale- ora anche internazionale;

-gestite in modo tecnocratico- ora sulla base di esplicite considerazioni politiche.

 

Il Congresso di Durban, fin dal titolo (Benefits beyond Boundaries), pone vigorosamente l’accento sulla necessità di superare l’insularizzazione delle aree protette, in senso ampio.

Soprattutto nel senso di estendere al di là dei loro confini le politiche di tutela (nessun parco è grande abbastanza da poter racchiudere nel suo perimetro efficaci politiche di conservazione della biodiversità) e nel senso di coinvolgere le popolazioni locali nelle azioni di valorizzazione, indipendentemente dai confini amministrativi. A sostegno di queste affermazioni convergono ragioni diverse, come i cambiamenti ambientali dei territori interessati ñ in particolare il progressivo aggravamento dei processi di frammentazione ecologica determinati dalla crescente espansione e dispersione degli insediamenti urbani e delle maglie infrastrutturali-oi cambiamenti sociali, economici e culturali ñ in particolare la crescente consapevolezza dei bisogni e dei diritti inviolabili delle comunità locali nella gestione delle risorse primarie. Questi cambiamenti sono resi più evidenti dalla stessa crescita, in numero ed estensione, delle aree protette, crescita che accentua le tensioni tra esigenze di conservazione della natura e spinte di sviluppo. Ciò è particolarmente evidente in Europa (dove la superficie protetta si È più che decuplicata nell’arco di un trentennio, ed ancora nell’ultimo decennio È cresciuta del 23%,impegnando ormai il 18% del territorio complessivo: Gambino et al. 2008); ma, in misure e forme diverse, riguarda tutto il pianeta. Il superamento della insularizzazione non comporta però soltanto un allargamento spaziale delle misure di protezione, come nel tradizionale concetto delle buffer zone o delle aree contigue, poste a riparo delle aree protette. Altre due strade vengono in evidenza.

La prima consiste nella pianificazione ecosistemica dei territori coinvolti, che prende in considerazione le unità ecosistemiche o le bioregioni interessate, indipendentemente dai perimetri delle aree protette (spesso delimitate in base a decisioni politico-amministrative scarsamente sorrette da motivazioni scientifiche).Al servizio di approcci ecosistemici, volti a contestualizzare adeguatamente le aree protette, viene chiamata anche la pianificazione paesistica, più spesso intesa come pianificazione a scala di paesaggio ,estesa ampiamente fuori dei perimetri delle aree protette, sulle aree terrestri o marine che le circondano. Si situa in questa logica l’attenzione (IUCN,2000) per le big pictures, per i grandi sistemi d’interesse regionale o interregionale, per lo scaling-up di molte tematiche ambientali.

Ma una seconda strada, concettualmente distinta, riguarda le reti di connessione, ossia i sistemi di relazioni ecologiche in cui le aree protette dovrebbero integrarsi, collegandosi (mediante opportuni corridoi o stepping stones) con altre risorse naturali con cui possono interagire indipendentemente dalla loro omogeneità e contiguità. Nella ricerca di politiche più efficaci per le aree protette irrompe quindi una logica reticolare che sostituisce od integra la logica areale finora dominante. Nonostante le critiche che da tempo hanno investito i fondamenti scientifici delle reti ecologiche (in primo luogo la possibilità di concepirle in funzione di protezione specie-specifica dei flussi di migrazione e dispersione realmente interessanti), sembra innegabile che la logica delle reti abbia intaccato profondamente il paradigma classico delle aree protette. Ciò è particolarmente visibile in Europa (basti pensare alle prime proposte per Eeconet, inizio anni 90, e alla Rete Natura 2000 e ad iniziative come il Progetto APE per la catena appenninica) ma trova riscontro anche in alcune grandi linee di connessione internazionali, come il corridoio delle Ande o dell’Amazon.

Anzi, si può osservare che soprattutto nell’ultimo decennio la logica reticolare esce dal campo strettamente biologico per assumere significati diversi, come quelli della fruizione paesistica o quelli dei legami storici e culturali (Gambino 2007?).

 

3.3. Dalla natura al paesaggio

Quest’ultima osservazione spinge a considerare una seconda linea evolutiva della filosofia IUCN, che riguarda i rapporti tra natura e cultura nelle concezioni e nelle politiche di conservazione. Rapporti non esenti da una certa ambiguità, fin dai documenti fondativi e soprattutto dalla World Conservation Strategy del 1980,la cui sfida centrale riguarda il contributo che la protezione dei sistemi viventi assume per lo sviluppo sostenibile. La sfida si precisa nel documento strategico del 1991 (Caring for the Earth, sempre di IUCN,UNEP,WWF),che prende le mosse dai principi per l’edificazione di una “società sostenibile”, per la cura e il rispetto delle comunità viventi, per il miglioramento progressivo della qualità della vita. Documenti e prese di posizione che tendono a dilatare le responsabilità della società contemporanea nei confronti del patrimonio naturale e culturale che ha ereditato e che deve trasmettere alle future generazioni, mettendo inevitabilmente in discussione la contrapposizione tra natura e cultura (tra l’ordine naturale e l’ordine razionale) che segna l’inizio dell’età moderna. Discussione che tuttavia non scalfisce l’attenzione prioritaria dell’IUCN per la natura e più precisamente per la biodiversità che la struttura.

In realtà, la storia dei parchi, da Yosemite e Yellowstone in avanti, riflette essa stessa una certa ambiguità, che ha variamente impregnato il dibattito e le riflessioni dei Congressi Mondiali IUCN. Essa nasce e si sviluppa, nella tradizione nordamericana, dall’intento dichiarato di celebrare la natura, dote fondativa del nuovo mondo; ma dà spazio crescente ai significati culturali

delle aree protette, nelle più diverse forme, dai paesaggi culturali, ai luoghi della memoria, ai monumenti naturali di precipuo valore simbolico e identitario. D’altronde la duplice missione assegnata ai parchi nel pensiero dei padri fondatori (conservation and public enjoyment, per F.L.Olmsted: Fein 1972) e la stessa filosofia di gestione sviluppata fin dai primi anni del 900 dal National Park Service americano (con l’importanza assegnata alle attività interpretative e all’organizzazione della fruizione), mescolano inevitabilmente natura e cultura nelle finalità dei parchi (Gambino, 2002).

Questa mescolanza assume contorni più precisi con riferimento ad alcune delle categorie di aree protette definite dall’IUCN (1994), segnatamente quella dei Paesaggi Protetti (Protected Landscapes/seascapes),il cui interesse deriva proprio da forme peculiari di interazione dell’azione antropica con le dinamiche naturali. Categoria che copre in Europa il 52% della superficie protetta (Gambino et al.2008),ma tende a diffondersi anche in altri continenti. Ma il riferimento al paesaggio come luogo d’incrocio di natura e cultura, che ha assunto una rilevanza centrale nel dibattito sulla classificazione delle aree protette ancora nel recente Congresso mondiale di Barcellona (IUCN, 2008), costringe a confrontarsi con altre concettualizzazioni, in particolare quelle maturate in seno all’UNESCO e al Consiglio d’Europa. Quanto all’UNESCO, non si può non constatare l’importanza assunta dalla categoria dei paesaggi culturali introdotta nel 1992 tra quelle dei siti eligibili nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità: l’inserimento nella Lista si basa sulla presenza di eccezionali valori universali e comporta uno screening estremamente selettivo (i siti attualmente inseriti nella Lista nel 2007 sono 878 in tutto il mondo, di cui il 20% naturali e il 77% culturali).

Ma se la logica con cui l’UNESCO seleziona i paesaggi di pregio non È molto distante da quella con cui l’IUCN classifica i “paesaggi protetti”, molto diversa È invece quella con cui i valori paesistici sono trattati dalla Convenzione Europea del Paesaggio, proposta nel 2000 dal Consiglio d’Europa e firmata da 45 paesi (CE,2000).Due aspetti soprattutto fanno la differenza: l’affermazione che tutto il territorio, e non solo singole aree, ha valenza paesistica; e quella secondo cui il paesaggio non È solo una componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, ma anche l’espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità. Se la prima affermazione è palesemente in sintonia con la linea evolutiva del pensiero IUCN sopra richiamata (dalle isole alle reti), la seconda trova anch’essa riscontro nei dibattiti recenti in seno all’IUCN, che spostano l’attenzione sul significato culturale del paesaggio (di ogni paesaggio),molto al di là di quel significato strettamente ecologico su cui la Landscape Ecology e i nuovi determinismi ad essa associati negli anni è50 e è60 avevano posto l’accento.

Capitolo X

 

3.4. Dai vincoli alla governance

Il richiamo alla Convenzione Europea del Paesaggio incrocia una terza linea evolutiva, che riguarda i sistemi di governo e di gestione posti in campo ai fini della conservazione della natura. Come nella Convenzione, così nei documenti enei dibattiti IUCN,il richiamo al paesaggio È infatti strettamente associato al ripensamento del ruolo delle popolazioni locali nei processi decisionali concernenti l’uso delle risorse e la gestione del territorio. E’ dalle loro percezioni, dalle loro attese e dalle loro scelte che si precisa il significato culturale del paesaggio. Ma il richiamo al paesaggio sembra assumere maggior concretezza in rapporto alle finalità IUCN, in quanto la stessa conservazione della natura dipende largamente dal supporto di quelle comunità che nel paesaggio vivono, usano le risorse e accumulano significative esperienze prendendo ogni giorno le scelte che lo riguardano (Borrini-Feyerabend, Philips 2008). Questa attenzione per i soggetti sociali, di cui le politiche di conservazione dovrebbero prendersi cura, non nasce dal nulla. Essa presuppone che le finalità generali della conservazione si misurino con le questioni globali economiche e sociali da cui la vita stessa delle comunità locali inesorabilmente dipende.

Questa esigenza È stata affermata come si È ricordato nel cap.1-fin dai primi atti dell’IUCN ed ha trovato piena espressione nel Congresso di Bangkok, 2004, e nel suo stesso titolo (People and Nature: only one World) che esplicitamente dichiara l’impossibilità di separare i bisogni e i problemi delle comunità umane da quelli del libero dispiegarsi delle dinamiche naturali. Più recentemente,nel Programma 209-2012 (Shaping a sustainable future),si ribadisce l’esigenza di “gestire gli ecosistemi per il benessere umano”. Ma già nei decenni precedenti, segnatamente nel Congresso di Montreal, 1996, queste affermazioni si collocano in una prospettiva cooperativa, che tende a ribaltare il tradizionale approccio top-down in favore di un approccio bottom-up, che sale dal basso. In questa prospettiva la cooperazione nella gestione delle risorse si configura come “la faccia emergente della conservazione”. Si fa strada l’idea che “la condivisione dei diritti e della responsabilità di gestione con una pluralità di portatori di interesse ñ in particolare le comunità locali - sia il modo più sicuro per conservare nel lungo termine le risorse naturali (IUCN, 1996).

Farsi carico delle comunità locali, in questa prospettiva, non risponde soltanto ad un cambiamento nella Gestione delle aree protette(i nuovi paradigmiîdelcap.2);risponde anche e in primo luogo all’esigenza di attuare, dentro e fuori delle aree protette, politiche di conservazione attiva più efficaci di quelle tradizionalmente basate sui vincoli e le limitazioni, e su apparati di comando e di controllo che si sono rivelati crescentemente inadeguati, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Di qui il crescente interesse, ribadito a Barcellona nel 2008, per i temi della governance; ossia per la ricerca di forme di gestione che favoriscano la coerenza, la convergenza e la sinergia tra le azioni che competono ai diversi soggetti operanti sul territorio, sia in senso verticale (dai poteri locali ai poteri globali), sia in senso orizzontale, tra le diverse politiche settoriali e tra i diversi saperi (compresi quelli incorporati nelle culture locali) che in vario modo incidono sui processi di trasformazione ambientale.

In questa ricerca si scontrano valori diversi, da quelli su cui si fondano le identità locali a quelli che rispondono ai principi universali dell’umanità. Gli atti dell’IUCN (in particolare i World Conservation Congress) hanno, nel corso di 60 anni, offerto un’arena in cui confrontare i diversi sistemi di valori, mettendone a nudo le ragioni e le implicazioni, al di là dei generici appelli al pubblico interesse, spesso intrinsecamente contraddittori, che hanno frequentemente inquinato il dibattito sulla questione ambientale. Ma i dibattiti e le riflessioni più recenti sembrano anche aprire uno spazio importante per il riconoscimento dei diritti che, ai diversi livelli e nei diversi campi d’interesse, dovrebbero trovare presidio e salvaguardia nelle strategie di conservazione della natura per la società contemporanea.

 

 

 

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Martedì, 23 Gennaio 2024 16:19

La dimensione contemporanea del territorio storico

 

La dimensione contemporanea del territorio storico

Roberto Gambino

POLITECNICO DI TORINO, DIPARTIMENTO INTERATENEO TERRITORIO

 

 

 

1. L’ATTUALITA’ DEL TERRITORIO STORICO

Varie ragioni concorrono oggi a restituire piena attualità alla questione dei centri storici, e più latamente del territorio storico. In primo luogo, la società contemporanea sembra incline o in qualche misura costretta a riportare l’attenzione sul territorio storico perché lo sente minacciato: le trasformazioni in corso mettono palesemente a repentaglio quell’insieme complesso di eredità naturali e culturali, di risorse infrastrutturali, di memorie, depositi immateriali e valori identitari, nonché di valori economici e sociali che forma il capitale territoriale. La difesa di questo capitale collettivo incorporato nel territorio figura sempre più spesso nelle rivendicazioni e nei programmi di ‘resistenza’ delle comunità locali, pur ambiguamente mescolata ad intenzioni di segno opposto. L’erosione di questo capitale, resa evidente dalla scomparsa dei paesaggi tradizionali e di gran parte dei segni superstiti del passato, è avvertita come un sorta di espropriazione collettiva. In secondo luogo, l’attenzione sul territorio storico si nutre di speranze o illusioni sulla possibilità di radicarvi forme anche innovative di sviluppo endogeno e auto-gestito e di recuperare e rafforzare il proprio patrimonio di valori; speranze o illusioni oggettivamente alimentate dal ruolo crescente che le ‘specificità’ territoriali, consolidatesi nei secoli o nei millenni, vanno acquistando nelle dinamiche competitive che si dispiegano alla scala globale. La valorizzazione delle specificità naturali-culturali, non a caso, si ritrova spesso nelle linee strategiche dei programmi di marketing territoriale e dei piani di sviluppo sostenibile, non senza più o meno ambigue alleanze con la rivalorizzazione dei ‘saperi e dei sapori locali’, dei prodotti tipici e del turismo enogastronomico. Se a scala locale la città, con le sue articolate centralità storiche, può essere di nuovo pensata come ‘motore’ dello sviluppo territoriale, a scala globale il patrimonio storico è celebrato come risorsa strategica del ‘sogno europeo’ da contrapporre a quello americano, per la costruzione di quella identità europea di cui l’Europa che si ‘allarga’ è tuttora in cerca. In terzo luogo, l’attenzione per il territorio geograficamente e storicamente determinato, è mossa dall’esigenza di conferire maggior efficacia alle politiche ambientali: la «territorializzazione» delle politiche ambientali – vale a dire l’impegno a calarle il più possibile nelle realtà locali, misurandole coi problemi, le peculiarità, i bisogni e le attese delle comunità locali – è stata riconosciuta con enfasi crescente da Rio (1992), a Bangkok (2004), come un passaggio obbligato per migliorarne l’efficacia.

Ma l’attualità del territorio storico non consiste soltanto nell’importanza che la sua difesa e la sua valorizzazione stanno assumendo nelle dinamiche economiche, sociali e culturali contemporanee. Essa consiste anche e soprattutto nel significato culturale attuale che esso presenta per la società contemporanea. Un significato che, lungi dal potersi ricondurre sempre e soltanto ai valori del passato, trova alimento in processi di significazione aperti e mai conclusi, che continuamente rimettono in discussione i rapporti di percezione e conoscenza, identificazione e appropriazione, uso e fruizione tra le formazioni sociali e i loro territori di riferimento. L’attualità che questi processi continuamente ricreano non nasce quindi da una semplice coincidenza temporale tra dinamiche sociali e dati sistemi di valore, in qualche modo riconosciuti e fissati nella coscienza collettiva, ma nasce ed evolve in funzione della rivisitazione continua delle relazioni che legano soggetti e oggetti, società e territorio. È un’attualità che ricorda da vicino l’«attualità del bello» teorizzata dal Gadamer (1986), fondata sulla perenne e inestinguibile contemporaneità tra l’osservatore e l’opera osservata. È nell’attualità del presente che continuamente si riproduce la contemporaneità del rapporto tra il territorio e i suoi fruitori. Questa contemporaneità implica la relatività storica dei giudizi di valore, attorno ai quali si costruiscono i sistemi di percezione, le immagini e le attese delle comunità insediate. Relatività ribadita dalle evidenze empiriche: basti pensare alla trasformazione dell’orrido in ‘sublime’ nella «invenzione delle Alpi» tra Seicento e Settecento, o all’apprezzamento naturalistico di paludi e zone umide, fino alla prima metà del secolo scorso pensate come terre da bonificare, o alla scoperta dell’archeologia industriale, o all’enfasi sui «paesaggi culturali», solo dal 1992 ammessi dall’Unesco a far parte del patrimonio mondiale dell’umanità. Ma la contemporaneità dei rapporti tra il territorio e i suoi fruitori stimola anche a ripensare le ragioni e il senso della conservazione (del patrimonio naturale-culturale) e la sua tradizionale contrapposizione all’innovazione: se la conservazione «è il luogo privilegiato dell’innovazione» per la società contemporanea, allora molte delle pratiche conservative e il concetto stesso di restauro vanno rimessi in discussione.

 

 

2. LA DILATAZIONE DEL CAMPO

Per tentar di capire i nuovi rapporti, è necessario riprendere il filo di un ragionamento che ha percorso i dibattiti e le riflessioni sulla questione dei centri storici, sfociando nella Nuova Carta di Gubbio del 1990. Proponendo a trent’anni di distanza un aggiornamento integrativo della Carta fondativa del 1960, l’Associazione nazionale centri storico-artistici (Ancsa) affermava allora che il centro storico, «l’area ove si sono concentrati, in ogni città europea, i valori della civitas e dell’urbs, costituisce al tempo stesso il nodo di una struttura insediativa più ampia. Tale struttura, interpretata nel suo secolare processo di formazione, deve essere oggi riguardata come «territorio storico», espressione complessiva dell’identità culturale e soggetto quindi in tutte le sue parti (città esistente e periferia, paesaggi edificati e territorio rurale) di una organica strategia di intervento». Questa affermazione segnava sinteticamente l’approdo di elaborazioni scientifiche, politiche e culturali che avevano costretto ad allargare progressivamente lo sguardo dai singoli monumenti e dai beni culturali al patrimonio insediativo della città esistente, ai paesaggi estesi, ai «sistemi culturali territoriali» ed al territorio intero, infine, nella pienezza dei suoi valori storici e naturali e delle sue articolazioni spaziali; e che conseguentemente avevano dilatato il senso e il campo dell’opzione conservativa, «fondamento di ogni azione innovativa», sempre meno riducibile alla mera preservazione difensiva dei valori in atto, sempre più fondata sul progetto, per essere luogo privilegiato di produzione dei nuovi valori della società contemporanea. Cambiavano le ragioni stesse della conservazione patrimoniale, indissociabili dalle percezioni, dalle attese e dai disegni territoriali delle popolazioni e dai nuovi diritti di cittadinanza (di identità, di natura e di bellezza). Si profilavano nuovi rapporti, più complessi e interattivi, tra conservazione e sviluppo, tra memorie e innovazione, tra riconoscimenti di valore ed opzioni progettuali. La conservazione, si è detto, presuppone sempre – in gradi e forme diverse a seconda della natura, della qualità e dello stato degli oggetti interessati – una certa tensione innovativa, anche soltanto in termini di nuove attribuzioni di senso; e simmetricamente ogni autentica innovazione propone alla società contemporanea un crescente impegno conservativo nei confronti dei siti e delle risorse che costituiscono i materiali stessi degli attuali processi di trasformazione. La produzione di nuovi valori non può separarsi dalla rielaborazione continua di quelli preesistenti (Gambino 1997). Si affermava, così, non una semplice dilatazione spaziale del campo d’attenzione, non un mero cambiamento di scala, ma una nuova filosofia di comportamento nei confronti dell’eredità storica e naturale e dei suoi rapporti con i territori della contemporaneità, destinata a ripercuotersi sulle concezioni della città, dei centri storici e del paesaggio, travolgendo molte consolidate separazioni e aprendo attese di riforma.

 

 

3. I CAMBIAMENTI DEL CONTESTO

L’allargamento del campo d’attenzione proposto dalla Carta del 1990 ha consentito di percepire tempestivamente (pur senza significative ricadute operative) alcuni aspetti chiave dei cambiamenti in corso: cambiamenti che tuttavia hanno subìto in questi anni drammatiche accelerazioni. Una particolare considerazione va rivolta al paesaggio, in quanto parte integrante (come recita l’art. 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, del 2004) del patrimonio culturale. A dispetto dell’attenzione che le amministrazioni pubbliche e la stessa opinione pubblica sembrano tributare alla questione del paesaggio non solo nel nostro paese, non si può evitare di constatare che il patrimonio paesistico ha subìto negli ultimi cinquant’anni un processo disarmante di devastazione e di degrado. Potenti fattori di cambiamento – come l’espansione delle città e la diffusione insediativa extraurbana, la proliferazione delle infrastrutture, l’industrializzazione agricola, la riconversione produttiva e lo sviluppo del turismo – hanno investito l’intero territorio, interagendo con esiti diversificati, a seconda dei caratteri generali dei quadri ambientali interessati e dei caratteri specifici determinati, nei diversi contesti, dagli sviluppi storici pregressi. Quei paesaggi che ancora alla metà del secolo scorso si presentavano relativamente omogenei, come i tipi di paesaggio individuati in Italia dal Sestini (1957) sono stati attraversati da dinamiche di trasformazione, che hanno tranciato, spesso irreversibilmente, i preesistenti equilibri, cancellato le dense trame delle antiche articolazioni produttive e i segni diffusi del lavoro della terra, disperso un patrimonio inestimabile di valori. Le spinte omologatrici che hanno investito la campagna hanno ipersemplificato e banalizzato i paesaggi agrari ereditati da secoli di storia e descritti dal Sereni (1961), in larga misura identificabili come irripetibili «paesaggi culturali», smantellandone i reticoli ecologici (fossi, canali, siepi ed alberate, etc.), presidio prezioso della diversità biologica e della stabilità ecosistemica. Lungo le coste, lo sviluppo distorto del turismo ha ormai colpito quasi ovunque il rapporto complesso, ecologico e paesistico, tra la terra e il mare, con effetti pervasivi assai più pesanti di quelli determinati dagli ‘ecomostri’ che richiamano saltuariamente l’attenzione mediatica. Nelle inconfinabili periferie urbane e metropolitane e nelle aree della diffusione insediativa l’erosione dello spazio rurale è generalmente lontana da ogni tentativo di dar forma e qualità ai nuovi contesti abitativi, crescentemente dominati dalle emergenze fisiche dei ‘non luoghi’ commerciali, produttivi o tecnologici. Non minor indifferenza per le specificità dei luoghi e per i valori dei «paesaggi originari» caratterizza lo sviluppo imponente degli apparati infrastrutturali (dalle autostrade alle nuove ferrovie, alle reti energetiche, etc.). E, d’altra parte, le nuove differenze prodotte dalle spinte innovative e dalla specializzazione delle traiettorie evolutive, se concorrono a formare nuovi «ambienti insediativi» in esito ad inediti incroci tra quadri ambientali, matrici territoriali e forme insediative (Clementi et al. 1996), ben raramente pervengono a disegnare nuovi credibili paesaggi, in grado di prendere il posto di quelli alterati o distrutti. Una generale, insondabile, perdita di memoria sembra caratterizzare la trasformazione territoriale dell’ultimo mezzo secolo e legare strettamente la questione del paesaggio a quella del patrimonio storico. E il gioco della memoria non riguarda soltanto il patrimonio storico ma anche quello naturale, mai indenne da forme più o meno stratificate di rielaborazione antropica (Schama 1995).

 

 

4. LA CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO

Nel nostro paese i processi di degrado e distruzione del patrimonio paesistico e culturale sono stati inadeguatamente contrastati, più spesso tollerati o assecondati – in nome di attese spesso illusorie di sviluppo – dagli apparati di governo, a livello nazionale, regionale e locale. Il sistema politico e la stessa opinione pubblica, nonostante il pungolo di gruppi e associazioni conservazioniste, solo negli ultimi anni hanno mostrato un principio di consapevolezza delle poste in gioco, della gravità dei rischi e delle opportunità connesse alla valorizzazione del paesaggio. Ma non è un problema soltanto italiano. In generale, i diversi paesi europei hanno affrontato la questione paesistica con sensibilità, approcci, strumenti istituzionali e azioni di governo assai diversi e non coordinati. Il ruolo del paesaggio come fattore d’identità europea e la crescente dipendenza dei loro problemi paesistici ed ambientali dalle dinamiche e dalle politiche europee hanno da tempo posto l’esigenza di una politica europea del paesaggio. È in questa direzione che si è mosso il Consiglio d’Europa, nel proporre la Convenzione europea del paesaggio, firmata a Firenze nel 2000 dai quarantacinque paesi membri e recentemente ratificata anche dal nostro paese. La Convenzione fornisce al riguardo alcuni orientamenti di fondo, che dovrebbero assicurare da un lato la convergenza delle politiche settoriali europee (soprattutto di quelle a maggior impatto paesistico-ambientale, come quelle agricole) e dall’altro l’armonizzazione delle politiche paesistiche nazionali e dei loro sistemi di guida e di controllo. Consacrando politicamente le concezioni che si sono prima richiamate, la Convenzione impegna le parti interessate in alcune innovazioni di grande rilievo. In particolare: a) l’affermazione netta ed esplicita che gli obiettivi di qualità paesistica da perseguire non riguardano pochi brani di paesaggi di indiscusso valore (quali le bellezze naturali o le emergenze sceniche o panoramiche) ma riguardano l’intero territorio, «gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani […] i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati» (art. 2); b) il pieno riconoscimento del significato complesso del paesaggio in quanto «parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni» (art. 1a) e «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità» (art. 5a); c) il sistematico riferimento ai «soggetti interessati» o «coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche» anche per quanto concerne la valutazione delle risorse paesaggistiche, che deve «tener conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate» (art. 5c, 6c) e le conseguenti procedure di consultazione e partecipazione.

 

 

5. IL RIPENSAMENTO “RETICOLARE” DEL TERRITORIO

Gli spunti innovativi della Convenzione congiuntamente riflettono una concezione dei rapporti tra paesaggio e territorio che non consente in alcun modo di isolare spazialmente i testi paesistici, separandoli dal loro contesto territoriale. L’idea (non di rado corrente nel linguaggio comune) che i paesaggi riguardino gli spazi aperti, i territori extraurbani o le «bellezze naturali» è del tutto estranea a questa concezione. La dimensione paesistica è presente all’interno dei centri storici e della città compatta (nelle varie forme del townscape) non meno che negli spazi rurali e nelle ‘campagne urbanizzate’ della dispersione insediativa, negli spazi ingannevoli della ville-nature agognata dagli abitanti in fuga dalle città, e nei grandi spazi naturali disabitati ma traguardati e in qualche modo frequentati dall’uomo. La «dissoluzione della città nelle reti territoriali», incrociata agli imponenti processi d’abbandono che hanno interessato e interessano non solo quote rilevanti dei territori di montagna e di collina, ma anche importanti aree produttive e impianti obsoleti dismessi ‘dentro’ alla città, ha cancellato ogni possibilità di dividere gli spazi aperti da quelli stabilmente occupati dall’uomo. Se già per Cattaneo a metà dell’Ottocento i «paesaggi edificati» non erano solo quelli occupati da case e industrie ma quelli modellati dall’insediamento umano e dalle sue esigenze produttive (tipicamente, allora, le campagne milanesi splendidamente riorganizzate dalle riforme teresiane), ben più intricati e complessi sono oggi i paesaggi della transizione, i patchwork che provvisoriamente disegnano le frontiere mobili della peri-urbanizzazione urbana e metropolitana. Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e attualizzare l’idea delle «cinture verdi», nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul territorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e paesaggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. Non a caso nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche – per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesistica del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate – ha assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (Ced-Ppn 2003). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni biologiche, di collegamento tra habitat e risorse naturali che rischiano l’insularizzazione, ma assumono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegando risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove infrastrutture ambientali capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno importante di quello tradizionalmente assegnato alle reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo ‘in uscita’ dalla città, vale a dire verso i territori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche ‘in entrata’, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a «riportare la natura in città» (greening the city), per i progetti di recupero e riqualificazione delle fasce fluviali e per i sistemi delle acque storicamente consolidati, per il riuso non meramente immobiliare dei «vuoti urbani» e delle grandi aree dismesse, segnala il maturare di una nuova consapevolezza dei grovigli di deficit che occorre rimuovere. È in questo quadro che va collocato il grande tema degli spazi di relazione nella città storica: delle piazze e delle vie, dei luoghi e delle loro connessioni, dei solchi fluviali che spesso la attraversano e del verde urbano che le consente di respirare. Non mera architettura di contesto, ma sistema connettivo diramato e complesso che lega esterno ed interno, eredità storiche e dinamiche ambientali. Non è forse un caso che l’attenzione per il contesto abbia ceduto terreno, nel dibattito disciplinare dell’ultimo decennio, all’attenzione per il paesaggio, nel significato ampio e comprensivo che si è ormai imposto a livello internazionale. Se infatti la nozione di contesto, nella versione co-evolutiva, aiuta a porre in relazione fatti apparentemente slegati, quella di paesaggio va oltre. In quanto fondamento delle identità locali, il paesaggio non si limita a porre in rete quei fatti e processi naturali e culturali che connotano i quadri ambientali, ma li ‘mette in scena’, li esibisce e spettacolarizza. Ed è proprio questa spettacolarizzazione – il paesaggio come ‘teatro’, in cui agiscono attori che diventano spettatori di se stessi (Turri 1998) – che spiega forse il successo mediatico che si registra attorno agli eventi che creano o ripropongono i paesaggi urbani o i grandi paesaggi territoriali.

 

 

6. LA TUTELA DEL PATRIMONIO ALLA LUCE DEL CODICE DEI BENI CULTURALI E DEL PAESAGGIO

L’ampia visione proposta dalla Convenzione di Firenze postula una filosofia di comportamento nei confronti del patrimonio culturale e del paesaggio che non ha ancora trovato adeguato riscontro nelle pratiche sociali e soprattutto nelle politiche pubbliche. Lo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 rispecchia solo in parte questa filosofia e lascia intravedere altri modelli di comportamento. Alla luce degli orientamenti osservabili a livello internazionale, ci si può chiedere quali problemi di politica del paesaggio e del patrimonio si profilino nel nostro paese, dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio. Un primo problema aperto riguarda la latitudine del campo di tutela. Se infatti il Codice allarga implicitamente la considerazione dei «beni paesaggistici» a tutto il territorio (o più precisamente a tutti i beni individuati dai piani paesaggistici, anche non compresi tra quelli «di notevole interesse pubblico» o tra quelli rientranti nelle categorie corrispondenti a quelle già tutelate ai sensi della legge 1497/1939 e della Legge Galasso, art. 134), questa dilatazione sembra lontana dalle pratiche correnti e dalle tradizioni di tutela, soprattutto nel nostro paese. Non è un caso che anche nel Codice si faccia esclusivo riferimento ai «beni culturali» e ai «beni paesaggistici» quali oggetti distinti di tutela e mai ai sistemi di relazioni che li legano strutturando il territorio. La cosa non stupisce: l’idea che l’opzione conservativa debba allargarsi all’intero territorio sembra, in realtà, fragile e perdente di fronte alle minacce e ai rischi incombenti, come tipicamente in Italia le aggressioni dilaganti dell’abusivismo (incoraggiato dai ricorrenti condoni) o la svendita dei beni pubblici (accelerata dai contestati provvedimenti legislativi degli ultimi anni). L’urgenza dell’azione di difesa sembra a molti operatori della conservazione (e anche a molti detrattori dello stesso Codice) indurre più di ieri a concentrare gli sforzi sulle cose di maggior valore – come i monumenti, le aree naturali di maggior pregio, o i paesaggi di pregio eccezionale – o a cercare di ‘salvare il salvabile’. Ma non si salva il paesaggio se non si salva il Paese. Staccare i monumenti o le «bellezze naturali» dal variegato mosaico di paesaggi umanizzati (pur frequentemente deturpati o sconvolti dalle trasformazioni recenti) che costituisce il volto vero del nostro come di altri paesi europei, significa ignorare le ragioni profonde che stanno alla base dell’attuale domanda di qualità, il ruolo dei valori identitari e il radicamento territoriale delle culture locali, il rapporto costitutivo che lega la gente ai luoghi.

Per evitare questa spaccatura, occorre passare da una logica ‘per oggetti’ ad una logica ‘per sistemi’, allargando l’attenzione all’intero territorio: è questa la strada obbligata per cogliere le differenze, diversificare l’azione di tutela, rispondere diversamente, nelle diverse situazioni, alla domanda di qualità. A differenza del «bene culturale», che ne costituisce una componente, il patrimonio naturale-culturale è necessariamente connesso al territorio ed ai suoi processi di sviluppo. Esso non è «nel» territorio ma «del» territorio. La sua valorizzazione non ha senso compiuto che come valorizzazione territoriale. L’uso dell’espressione «sistema culturale territoriale» in alcuni progetti europei (Euromed, Progetto Delta, 2002) tende a rendere esplicita questa connessione, proponendone un’articolazione operativa: un «sistema culturale territoriale» può essere definito come «il contesto relazionale evolutivo nel quale possono essere efficacemente perseguiti progetti di valorizzazione integrata del patrimonio culturale, mettendo in rete l’insieme delle risorse e degli attori locali e sviluppando le necessarie sinergie». È «il patrimonio, sotto le sue diverse forme (materiali o immateriali, morte o viventi) che fornisce allo sviluppo un terreno. Lo sviluppo non potrebbe infatti aver luogo staccato dal suolo.[…] Il patrimonio costituisce in questo senso una ‘risorsa locale’ che non trova la sua ragion d’essere che nell’integrazione con le dinamiche dello sviluppo» (de Varine 2002). Un secondo problema, strettamente connesso al precedente, concerne la divisione tra i «beni culturali», cui è dedicata la parte seconda e più cospicua del Codice, e i «beni paesaggistici», cui è dedicata la parte terza. È una divisione ben comprensibile alla luce delle tradizioni nazionali in materia di conservazione, ma difficile da sostenere sul piano strettamente scientifico e culturale (come si è già rilevato, le nuove concezioni del patrimonio tendono piuttosto ad abbattere le vecchie divisioni e a conferire al patrimonio paesistico un’accezione assai ampia e comprensiva) e difficile da praticare sul piano applicativo. Basti pensare ai centri storici, praticamente assenti dal Codice del 2004 se non ridotti alla figura di «monumenti complessi», chiaramente superata dal dibattito degli ultimi decenni: essi infatti non figurano nel pur minuzioso elenco dei tipi di beni culturali – l’art. 10 sembra anzi quasi negarne l’esistenza, nel momento in cui cita invece esplicitamente «le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico», come se in questi si esaurisse il ruolo complesso ed integrante dei centri storici – e sono esplicitamente esclusi dalle categorie di beni paesaggistici tutelati per legge (art. 142, c. 2, lett. a). Va però segnalato che le modifiche recenti del Codice (art. 136) hanno inserito i centri storici e le zone di interesse archeologico tra le aree di notevole interesse pubblico da tutelare. Naturalmente nulla esclude che i piani urbanistici o quelli paesaggistici dedichino particolari tutele a determinati centri storici, ma è curioso che il Codice, almeno nella sua prima versione, non colga la rilevanza generale degli insediamenti storici – e in sostanza della città, in tutte le sue articolazioni storiche anche recenti – come struttura di base del patrimonio culturale territoriale. Un terzo e cruciale problema concerne la separazione tra tutela e valorizzazione, peraltro già introdotta con la riforma del Tit.V della Costituzione (art. 117), che distingue «la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» di competenza esclusiva dello Stato, dalla «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Nonostante non manchino i richiami alla necessità di integrare tutela e valorizzazione con l’azione concorde di Stato e Regioni (e a prescindere dalle incertezze interpretative: vedi sentenza della Corte Costituzionale n. 407/2002), sembra evidente che proprio a questo riguardo il Codice manchi all’appuntamento più importante, quello dei nuovi rapporti tra conservazione e sviluppo sostenibile. Come si è già ripetutamente osservato, questi rapporti sono tanto più stretti e condizionanti quanto più la conservazione tende ad allargarsi a tutto il territorio, interessando le aree e i sistemi della marginalità e dell’abbandono, che coprono ormai una larga parte del territorio nazionale: qui non solo le misure di vincolo e protezione passiva, se sganciate dalle politiche di investimento e di sostegno economico e sociale, non possono concorrere alla rivalorizzazione territoriale, ma in molti casi non possono neppure essere concretamente applicate (quali vincoli, ad esempio, potrebbero mai fermare lo sfacelo dei versanti terrazzati o la ruderizzazione incalzante dei villaggi montani?). Ma la separazione tra tutela e valorizzazione rischia, ancor più in generale, di nascondere un problema di fondo del nostro paese, quello della prevenzione dei rischi. Un problema che torna alla luce dei riflettori mediatici solo in occasione di alluvioni o frane catastrofiche o di grandi sismi distruttivi, soprattutto se con vittime umane. Un problema che ha invece carattere strutturale, in un paese ad alto e diffuso rischio idrogeologico e in cui una parte rilevante del patrimonio edilizio ed urbanistico (comprese le scuole, gli ospedali, i servizi pubblici essenziali) è di vecchio impianto, fragile e vulnerabile, in condizioni ben lontane dalle soglie di sicurezza. Questo ci collega ad un quarto problema, quello appunto della valorizzazione economica del patrimonio culturale e paesistico. Fare i conti della valorizzazione, nel senso che si è appena indicato, cogliere le necessità e le opportunità economiche e sociali che essa comporta per i territori coinvolti, è infatti l’esatto contrario di quella ‘svendita’ che, secondo molti critici, il nuovo Codice rischia di propiziare o almeno agevolare, nella direzione già imboccata con precedenti provvedimenti come la legge 112/2002 (Ancsa 2003) e in piena sintonia con i famigerati provvedimenti sul condono. Una valorizzazione del patrimonio volta a ridurre le penalità e i rischi presenti nel territorio e ad accrescerne il valore aggiunto richiede infatti una valutazione attenta ed integrata dei costi e dei benefici, delle esternalità positive e negative che le azioni previste possono produrre, ben al di fuori delle aree e degli immobili direttamente interessati. È del tutto evidente, alla luce dell’esperienza quotidiana non solo nel nostro paese, che, a fronte di ritorni economici rapidi e significativi per le singole operazioni immobiliari, possono prodursi costi collettivi, più o meno monetizzabili, assai più rilevanti nel medio e lungo termine. È soprattutto il rischio di questa possibile divaricazione (più che un preconcetto avverso al coinvolgimento dei privati nei processi di valorizzazione), che induce a guardare con sospetto quelle norme, come quelle sul silenzio-assenso ai fini della sdemanializzazione, esplicitamente rivolte ad agevolare l’alienazione dei beni di proprietà pubblica, riducendo i sistemi di garanzie. Soprattutto se, come le prime esperienze applicative delle nuove normative hanno mostrato, l’obiettivo si riduce a quello di ‘far cassa’ e di tentare di sanare i conti pubblici gettando sul mercato i ‘gioielli di famiglia’, e rinunciando deliberatamente a quella considerazione integrata di costi e benefici che si è sopra richiamata. Contro il rischio di alienazioni o svendite che sprechino o addirittura distruggano le risorse patrimoniali, del tutto inadeguato appare l’argine previsto dal Codice nella forma della «verifica dell’interesse culturale» dei beni in discussione (art. 12) o della preventiva elencazione dei «beni inalienabili» (art. 54) che, ancora una volta, riporta l’attenzione dal sistema all’oggetto, dal territorio al settore, dalla valorizzazione attiva e integrata, alla difesa passiva ed episodica. Uno spostamento tanto più preoccupante in quanto avviene in carenza di una adeguata conoscenza della reale consistenza del patrimonio interessato, presumibilmente assai rilevante, ove si considerino non solo le proprietà edilizie, ma anche le aree del demanio civile e militare.

 

 

La relazione riprende in parte, con correzioni e integrazioni, quella presentata dall’autore, sotto il titolo Politiche europee del paesaggio al convegno organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, 1-2 ottobre 2004) sul tema Sulla città oggi; nonché quella presentata, sotto il titolo Patrimonio storico e paesaggio al convegno nazionale dell’ANCSA (Bergamo, 13 maggio 2006), sul tema Spazi aperti nei contesti storici.

 

 

 

 

 

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Associazione nazionale centri storico-artistici, La dismissione del patrimonio culturale, dichiarazione del XIII congresso nazionale, Contemporaneità e identità del territorio: le sfide del III millennio (Perugia, 7-8 novembre 2003), pubblicata a cura di Teresa Cannarozzo, in «Urbanistica Informazioni», 193, 2004.

 

Ced-Ppn 2003

Centro europeo di documentazione sulla pianificazione dei parchi naturali del Politecnico e dell’Università di Torino (a cura di), AP. Il sistema nazionale delle aree protette nel quadro europeo: classificazione, pianificazione e gestione, convenzione tra il Ministero dell’ambiente, Servizio conservazione della natura e il Ced-Ppn, responsabile scientifico della ricerca Roberto Gambino, rapporto di ricerca, Torino 2001; pubbl. Ministero dell’ambiente, Alinea, Firenze 2003.

 

Iucn 2005

International Union for Conservation of Nature, Proceedings of the Members’ Business Assembly, 3th World Conservation Congress (Bangkok, 17-25 November 2004), Iucn, Gland 2005

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ciata agli imponenti processi d’abbandono che hanno interessato e interessano non solo quote ri- levanti dei territori di montagna e di collina, ma anche importanti aree produttive e impianti ob- soleti dismessi ‘dentro’ alla città, ha cancellato ogni possibilità di dividere gli spazi aperti da quelli stabilmente occupati dall’uomo. Se già per Cattaneo a metà dell’Ottocento i «paesaggi edifi- cati» non erano solo quelli occupati da case e in- dustrie ma quelli modellati dall’insediamento umano e dalle sue esigenze produttive (tipica- mente, allora, le campagne milanesi splendida- mente riorganizzate dalle riforme teresiane), ben più intricati e complessi sono oggi i paesaggi del- la transizione, i patchwork che provvisoriamente disegnano le frontiere mobili della peri-urbaniz- zazione urbana e metropolitana.

Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e at- tualizzare l’idea delle «cinture verdi», nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul ter- ritorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e pae- saggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. Non a caso nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesisti- ca del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate ha assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (CED-PPN 2003). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni bio- logiche, di collegamento tra habitat e risorse na-

turali che rischiano l’insularizzazione, ma assu- mono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegan- do risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove infrastrutture am- bientali capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno im- portante di quello tradizionalmente assegnato al- le reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo ‘in uscita’ dalla città, vale a dire verso i terri- tori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche ‘in entrata’, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a «riporta- re la natura in città» (greening the city), per i pro- getti di recupero e riqualificazione delle fasce flu- viali e

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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