Paesaggio, ragione, memoria e immaginazione
L’uomo abita il territorio, ma se non vuole abitarlo come un animale, deve abitare alla maniera di un poeta. Questa idea di Hölderlin significa che la poesia è il vero “fare abitare”. Abitare poeticamente significa mettere in movimento la ragione, la memoria e l’immaginazione. Queste facoltà sono essenziali per pensare in generale, ma particolarmente per pensare il paesaggio. L’uomo abita veramente il territorio soltanto se ha prodotto una rappresentazione paesaggistica del suo territorio. La relazione del’uomo e del territorio trova la sua finalità non solo nella produzione materiale dell' insediamento, ma anche nella produzione della rappresentazione di questo insediamento. Non può abitare la “realtà” senza pensare l’immagine di questa realtà. Abitare la realtà è un atto puramente materiale, cercare di abitare anche l’immagine di questa realtà è un atto estetico che significa che gli altri bisogni sono soddisfatti. Produrre un’immagine è inventare, a partire da un linguaggio qualunque, un insediamento per il pensiero. L’insediamento per il pensiero non è unico come quello materiale ma plurale. Infatti, la ragione, la memoria e l’immaginazione possono creare teoricamente un’infinità di immagini, all’origine delle quali c’è una matrice territoriale unica, ma in evoluzione permanente.
Se all’origine del paesaggio ci sono sempre degli elementi della realtà, questa può essere frammentata dalla ragione che costruisce dei paesaggi ideali. Allora abbiamo i paesaggi della ragione come quelli disegnati secondo l’idea umanistica della città ideale[1]. Leonardo da Vinci illustra, probabilmente per la nuova città degli Sforza, questa “idea di un radicale rinnovamento della struttura della mobilità delle città del tempo”[2]. La ragione è ancora e sempre all’opera in Sebastiano Serlio con il teatro come laboratorio urbano[3]. e in Bartolomeo Del Bene con la città filosofica[4]. Il gioco della ragione non ha smesso, attraverso la storia, di inventare dei paesaggi, ideali o futuristi, come quelli disegnati da Antonio Sant’Elia e da Ludwig Hilberseimer che hanno sicuramente influenzato le realizzazioni archittettoniche del Novecento. Purtroppo, occorre immediatamente mettere in luce che la ragione moderna è sempre più cinica, cioè che la ragione classica è tradita a profitto di una “falsa coscienza illuminata” capace di accettare il peggio nella produzione territoriale e dunque di condannare l’esistenza stessa di un paesaggio del pensiero. Il valore del territorio è, allora, puramente economico e il paesaggio sparisce : “Êêtre idiot et avoir du travail, voilà le bonheur”[5]. La ragione tradisce se stessa quando la realtà diventa incapace di suggerire un immagine che non è il risultato dell’astrazione del denaro. Il cinismo è, allora, al suo livello più alto. La confusione tra territorio e paesaggio diventa possibile attraverso il denaro per il quale la realtà deve coincidere con l’immagine, l’una è l’altra. Astrazione pura che conduce a una estetica, non della natura antropizzata, ma del denaro come motore degli usi della natura.
Il territorio, come costruzione, decostruzione e ricostruzione continua attraverso il tempo, accumula dei depositi che possono essere decifrati nel mondo materiale e che costituiscono la base della memoria storica della realtà. Le immagini delle rappresentazioni, al contrario, costituiscono la memoria diacronica virtuale. I storici dell’arte hanno mostrato la lacunosa e pericolosa qualità di questa memoria per conoscere il territorio passato.[6] L’autonomia del paesaggio è doppia, come forma pittorica independente e come produzione dello spirito. La conquista di queste autonomie è tardiva. Forse per questa ragione, le immagini non permettono un’analisi spettrale diacronica sempre soddisfacente. Il paesaggio, dunque, è una narrazione imperfetta del territorio.
Questo vale non solo per la pittura ma anche per la letteratura e per la fotografia. Questa ultima affermazione può sembrare paradossale poiché la fotografia è un prodotto “meccanico”. In effetti, non lo è, perché la fotografia dipende dalla natura dello sguardo. L’occhio del fotografo è condizionato da una fisica e da una metafisica che eliminano molte cose nel territorio e che di conseguenza non sono rappresentate. La fotografia è anche una narrazione influenzata da un “vedutismo” nel quale il trattamento della luce gioca un ruolo importante:
“È stato osservato che, nell’ambito della descrizione urbana, la fotografia, per certi aspetti, sembrava perpetuare i tradizionali codici naturalistici della pitture, soprattutto finché le convenzioni dominanti limitate a un ristretto campo di possibilità tecniche”…”
Il passaggio da un codice ”prospettico”. Si puo' notare infatti che, nei loro reportages urbani, i fotografi mantengono, almeno inizialmente, un’ottica”pittorica””[7]. In altri termini, un nuovo strumento utilizza quasi sempre la messa in scena di quelli più vecchi prima di trovare la sua propria, ma “Lo scambio di tecniche e le frequenti inversioni tra pittura e fotografia, che caratterizzerano a lungo la rappresentazione moderna, avvengono in entrambi i sensi, dall’una all’altra”[8].
La fotografia fa pensare a Zola perchè, lui, amico di Nadar, “aveva iniziato a fotografare per diletto, ma proprio dopo questo viaggio la sua diventa una passione : e a Roma fotografa con continuità sopratuttto i Fori e le rovine, ma anche mercati, piazze, strade, cerimonie civili e religiose, fa dei ritratti ad alcuni degli amici che lo accolgono e lo introducono ai segreti della città”[9].
A sua volta, la letteratura è stata influenzata dalla fotografia :
“Va ricordato che il panorama, come veduta sistematica e complessiva a 360° di un contesto, fu una delle invenzioni tipiche dell’Ottocento, rinvigorita dalla scoperta della fotografia, della quale Zola fu un appassionato cultore[10].
È chiaro che per Zola quando è alle prese con le descrizioni paesistiche, “le pagine devono rendergli le emozioni che i panorami gli suggeriscono”[11].
Lo scrittore cerca di leggere il mondo quando descrive la campagna romana : “Una grande desolazione. Greggi intraviste nella nebbia. Terreni tristi dall’erba rada. Qualche costruzione dalle tegole giallastre, che mi ha ricordato il Midi. Fattorie tristi e bruciate. Il deserto”[12]. Si può fare un analisi semiologica ma non è utile in questo caso perché “il panorama zoliano non rassomiglia a nessuno di quelli descritti da altri in un numero incalcolabile di diaries, journaux, Tagebücher, … Zola ha una cultura visiva di timbro postimpressionista che sembra annunciare più corpose e lucenti immagini fauves,…[13].
Cosi constatiamo che ogni sistema di scambio tra realtà e rappresentazione è sotteso dalle metafore disponibili per tradurre l’una nell’altra. Non è una scoperta recente perchè alla fine dell’Ottocento tutto ciò era già chiaro :
“l’homme qui considère en artiste les choses de ce monde s’occupe moins de savoir comment elles sont faites que de se rendre un compte exact de l’action qu’elles exercent sur sa sensibilité. Or c’est par leur caractère que les choses nous affectent, et partant la première qualité d’une œuvre d’art est la vérité du caractère”[14].
Siamo qui nel cuore dell’immaginazione che nel caso della rappresentazione puo' definirsi come la capacità di semplificare cioè di scegliere:
“Qu’il s’agisse du monde extérieurou de l’âme humaine, la nature est toujours copieuse, luxuriante et touffue. L’artiste s’en tient à l’essentiel, il retrache les accessoires inutiles, il émonde, il élague. Il a l’esprit de choix, il a l’esprit de sacrifice”[15].
Per sempio, l’immaginazione è all’opera nel “paesaggio” della Gerusalemme di Hartmann Schedel (1493) che è una “produzione di simboli a mezzo di simboli” come l’evocazione del paradiso terrestre da Athanasius Kircher[16].. Questi paesaggi mitici rivelano la natura dell’immaginazione dell’epoca e le aspirazioni della gente. In questo senso, l’immaginazione interviene nella restituzione del paesaggio assai raramente per introdurre delle cose in più, ma assai sovente per selezionare e per trovare delle metafore adatte all’espressione.
La “moneta” dell’immaginazione è costituita dalle metafore che esistono già o che sono inventate. Dal punto di vista della creazione, il valore del paesaggio dipende da questa moneta. Se il “corso” di questa moneta è alto, cioè se le metafore hanno una forza di espressione molto grande, il paesaggio prende un valore tale che finisce per avere “corso legale” nella mente. Il meccanismo, il più interessante e diciamolo, leggermente paradossale, risiede nel fatto che in una certa maniera la realtà materiale diventa piu significativa quando la sua rappresentazione è riuscita ad imporsi. Cosi', il territorio che ha, naturalmente, il suo valore d’uso guadagna un valore di scambio sul “mercato” socio-economico attraverso il paesaggio. Infatti, il valore di scambio del territorio è il paesaggio nella misura in cui le sue rappresentazioni sono divulgate a grande scala. Per riprendere l’argomento iniziale del lavoro, nel senso di Sohn-Rethel, si può affermare che il territorio guadagna simultaneamente un valore di scambio economico più grande quando è sottolineato dal valore estetico nell' ambiente sociale. Questo valore estetico è il prodotto del “Geistesarbeit”, l’altro versante del lavoro. Ciò significa che il lavora del corpo, quello proiettato nel territorio, è riconosciuto quando è messo in evidenza dalle immagini generate dal lavoro del pensiero. Il rapporto tra territorio e paesaggio è veramente equivalente a quello del segno linguistico. Il territorio gioca il ruolo del significante mentre il paesaggio gioca quello del significato. La situazione è quasi omologica e merita di essere espressa.
Secondo me il geografo che ci ha dato una delle più interessanti analisi del paesaggio, in questa direzione, è Dardel, ritrovato qualche anni fa e pubblicato in italiano prima di essere riscoperto in Francia[17]. Questo piccolo libro, vecchio di un mezzo secolo, non ha quasi preso una ruga e costituisce un modello di geografia nutrita da una "conception du monde".Per lui, geografo sfortunatamente troppo dimenticato, "Tout autre chose qu'une juxtaposition de détails pittoresques, le paysage est un ensemble : une convergence, un moment vécu. Un lien interne, "une impression", unit tous les éléments"[18]. E Dardel prosegue nella identificazione del paesaggio :
"Le paysage s'unifie au tour d'une tonalité affective dominante, parfaitement valable quoique réfractaire à toute réduction purement scientifique. Il met en cause la totalité de l'être humain, ses attaches existentielles avec la Terre, ou, si l'on veut, sa géographicité originelle : la Terre comme lieu, base et moyen de sa réalisation"[19].
E Dardel aggiunge con una giustezza e un'intuizione di grande rilievo :
"Le paysage n'est pas un cercle fermé, mais un déploiement. Il n'est vraiment géographique que par ses prolongements, que par son arrière-plan réel ou imaginaire que l'espace ouvre au-delà du regard"[20].
Questa frase di Dardel fa eco a quella di Amiel che scriveva nel suo diario
"un paysage quelconque est un état de l'âme, et qui lit dans tous les deux est émerveillé de la similitude dans chaque détail. La vraie pensée est plus vraie que la science parce qu'elle est synthétique et saisit dès l'abord ce que la combinaison de toutes les sciences pourra atteeindre comme résultat"[21].
Questa idea è sicuramente molto vicina alla visione di Humboldt per il quale scienza e arte erano indissolubilmente legate per rappresentare una realtà materiale.
Di questo punto di vista, la lettura di Stefan Zweig è veramente illuminante, in quanto molti testi sono costruiti su un solo punto di partenza. Per esempio, New York è interamente visto sotto l'angolo del ritmo; Bruges sotto l'angolo della nostalgia e della morte. Per dirlo altrimenti, colui che fa una rappresentazione si trova nella necessità di trovare una “legge” di continuità per comporre un paesaggio che rende conto simultaneamente del mondo materiale, del mondo dei sentimenti e delle sensazioni e del mondo del logos.
Joseph Roth appartiene alla stessa cultura, ma le sue descrizioni sono assai differenti perché fa giocare di piu le opposizioni attraverso la sua soggettività quando sta parlando della Provence :
"Ho sempre attraversato paesi nebbiosi. Ogni viaggio è stato una lotta contro i misteri nascosti e inesplorati del paesaggio. Qui per la prima volta ho viaggiato con piacere. Son riuscito a capire la felicità degli uomini che senza timore si abbandonano al proprio cammino. Nulla di orribile poteva colpirli strada facendo. Di una cosa soltanto la mancanza: del bosco"[22]..
Per lui è un paese senza segreti perché i boschi sono i segreti di un paesaggio. Aggiunge, parlando di Avignone, "è la più bianca di tutte le città. Non ha bisogno di boschi. È un giardino di pietra cosparso di fiori di pietra. Le sue case, le sue chiese e i suoi palazzi non sembrano costruiti da qualcuno, ma cresciuti da sé. Tra le sue forme chiare serpeggia tuttora un segreto. Dentro la mura si ode stormire, come in un bosco[23]. La "traduzione" ritorna sempre alle metafore del linguaggio del vedutismo originale. Roth si alimenta alla sorgente della storia e scrive :
"È al tempo stesso Gerusalemme e Roma, antichità e Medioevo"[24].
Sarebbe facile continuare a presentare la nascita del paesaggio, dei paesaggi attraverso una moltitudine di esempi, ma il problema è altrove. La costruzione paesistica, la messa in forma astratta della realtà materiale, sia sul piano dell'arte sia su quello della scienza è un sforzo del soggetto per sfuggire all'oblio che non è altro che la paura della morte del soggetto.
Se guardiamo ancora i paesaggi dei grandi pittori non è solo per la loro bellezza ma sopratutto per il legame che costruiscono tra loro, che sono scomparsi e noi che dobbiamo scomparire. I paesaggi sono delle immagine virtuali preziose quando i territori non esistono più. Sono come le stelle delle quali vediamo ancora la luce ma che sono "morte"da lungo tempo.
[1] Cf. Virgilio Vercelloni, Atlante storico dell’idea europea della città ideale, Jeca Book, Milano, 1994.
[2] Ibid. p. 43.
[3] Ibid. P. 58.
[4] Ibid. p. 79.
[5] Peter Sloterdijk, Critique de la raison cynique, Paris 1987, p. 30.
[6] Cf. Giovanni Romano, Studi sul paesaggio, 1991.
[7]Rrenzo Dubbini, Geografie dello sguardo, Torino, 1994, pp. 167-168.
[8] Ibid. p.170.
[9] Cesare de Seta, Vedutisti e viaggiatori in Italia tra Settecento e Ottocento, Torino 1999, p. 138.
[10] Ibid.
[10] Ibid.
[11] Ibid. p. 139
[13] De Seta, op. cit. pp. 140-141.
[14] Victor Cherbuliez, L’art et la nature, Paris, 1892, pp.39-40
[15] Ibid. p. 40.
[16] Vercelloni, op. cit. p. 48 e 91.
[17] Eric Dardel, Paris 1952
[17] Ibid. p. 41.
[18] Ibid. p. 42.
[18] Ibid.
[19] Eric Dardel, L’homme et la terre, Paris 1952
[19] Ibid. p. 41.
[19] Ibid. p. 42.
[19] Ibid.
[19] Cité par paulhan, op. cit. 73.
[22] Joseph Roth, Le città bianche, Milano, 1986, pp.51-52.
[23] Ibid. p. 53.
[23] Roth, op. cit. p. 54.