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Sul senso di una semiologia del paesaggio

Una specifica semiologia del paesaggio può proporsi soltanto partendo da un dato antropologico preciso: l’atto umano generatore di nuovi ordini ecologici e territoriali si associa generalmente alla ricerca, da parte dell’uomo, di imprimere il segno di sè nella natura, di generare effetti semiotici. Ciò comporta una ridefinizione del concetto di paesaggio, che andrebbe inteso come il risultato, colto percettivamente, di un momento autoriflessivo dell’agire umano nella natura, trovando la sua giustificazione nella diversità delle società umane. Così inteso il paesaggio diventa per l’uomo ricerca di sè, atto squisitamente culturale, distinto perciò dall’ agire bruto, non riflessivo, puramente animale.

Una specifica semiologia del paesaggio può proporsi soltanto partendo da un dato antropologico preciso: l’atto umano generatore di nuovi ordini ecologici e territoriali si associa generalmente alla ricerca, da parte dell’uomo, di imprimere il segno di sè nella natura, di generare effetti semiotici. Ciò comporta una ridefinizione del concetto di paesaggio, che andrebbe inteso come il risultato, colto percettivamente, di un momento autoriflessivo dell’agire umano nella natura, trovando la sua giustificazione nella diversità delle società umane. Così inteso il paesaggio diventa per l’uomo ricerca di sè, atto squisitamente culturale, distinto perciò dall’ agire bruto, non riflessivo, puramente animale.

Con queste premesse, la semiologia del paesaggio dovrebbe riguardare essenzialmente il paesaggio altrui: più difficile sarebbe invece giustificare una semiologia del paesaggio di cui siamo autori e attori in prima persona, dato che, in questo caso, dovrebbe dipendere da noi il contenuto (il significato) dei segni che introduciamo nell’ordine preesistente, anche se sappiamo che generalmente i significati primi, originari, sono superati dalla normalizzazione degli usi territoriali (U.Eco).

A parte ciò esiste per tutti un momento semiologico nell’agire, in quanto esistono sempre delle preesistenze territoriali che dobbiamo interpretare per raccordarle ai nostri interventi, benché un conto siano quelle naturali e un altro quelle antropicoculturali. In tal senso si possono riconoscere due livelli o momenti semiotici: di chi legge un paesaggio sul quale deve  agire e di chi legge il paesaggio  agìto, trasformato dopo la sua lettura e l’azione modificatrice che ne segue.

La lettura del paesaggio altrui consiste nel riconoscimento di categorie diverse di segni (intendendo con questi, ovviamente, anche gli oggetti territoriali non inseriti in funzione comunicativa, ma in quanto entrano nella comunicazione sociale e in quanto integrati in un contesto segnico) tra loro legati in modi sintagmatici, che rimandano alle diverse attività esplicate sul territorio da una società. Segni, quindi, come parti di un discorso che è poi l’organizzazione territoriale (o regionale) che si esprime o può esprimersi nelle cosiddette “unità di paesaggio”, giustamente ricercate da urbanisti e pianificatori.

I modi in cui l’organizzazione si esplica dipendono dalle società, dai loro meccanismi interni, dall’ambiente naturale in cui operano (l’Emilia ha gli edifici in mattoni gialli, la Lombardia in mattoni rossoscuri), dal loro modo particolare di produrre, di usare l’energia e le altre risorse che ci sono nella natura, di estrinsecare la religiosità, i momenti ludici, il gusto estetico, le relazioni sociali, ecc., in una parola di esprimere la loro identità culturale.

Questo ci dice della complessità del paesaggio e della complessità di un sistema di significazione che voglia interpretarlo, leggerlo come sistema di segni; ci dice anche come la complessità si superi facendo corrispondere ad un ordine categoriale di segni un ordine di motivazioni che ci rimandano alle strutture interne della società, per cui ad ogni società corrisponde un certo paesaggio e un certo tipo di segni, cioè una certa langue. La corrispondenza tra strutture sociali e strutture territoriali è netta, per la elementarità del dettato segnico, nelle società etnografiche o premoderne; non lo è allo stesso modo nelle società più evolute, più complesse. Al punto che oggi si rimpiangono le classificazioni marxiane fondate sui “modi di produzione”, che semplificavano l’identificazione delle società e quindi consentivano una lettura facile e diretta dei paesaggi che esse producevano. Un conto infatti è tener conto dei fattori economici, con le loro leggi che si esplicano nel paesaggio secondo regole precise, ed un conto di quei fattori incalcolabili che sono il sentimento del sacro, le convenzioni sociali, le esigenze ludiche, estetiche, ecc.

La complessità del paesaggio aumenta ulteriormente se si aggiungono ai segni delle società che operano in un certo territorio le sedimentazioni storiche legate alle generazioni e alle società diverse che hanno operato in quello stesso ambito, ciò che allarga lo spettro semantico in modi smisurati. In realtà ci sono livelli di significazione diversi, perché ci sono ordini diversi di situazioni,di storie, di informazioni che si possono cogliere. Diversità che, secondo la più generale classificazione su cui operano i semiologi, si possono far rientrare in due grandi categorie, quella che si rifà ad un sapere dizionariale e classificatorio di primo grado, e quella che riguarda un sapere enciclopedico,  più vasto, ricco di rimandi e di specificazioni di diverso ordine. Ma è una classificazione che aiuta poco, a mio avviso, i semiologi del paesaggio. E’ come se di una casa d’abitazione si facesse vedere solo l’ingresso, sufficiente per dire che si tratta di una casa d’abitazione, ma non tutto il resto, il più.

In proposito U.Eco nel suo recente libro Kant e l’ornitorinco fa l’esempio, molto calzante per noi che ci interessiamo di paesaggio, dell’Ayers Rock. Ci dice, da semiologo poco abituato a ragionare sugli oggetti geografici, ma acutissimo nel teorizzare sui temi semiotici, che dai dizionari si possono ricavare informazioni che fanno rientrare l’Ayers Rock nella categoria (il TC o Tipo Cognitivo) delle montagne; ma che esso può anche non essere considerata una montagna così come la intendiamo solitamente, dato quel suo ergersi in mezzo ad una pianura in modo atipico e curioso. Aggiunge che, da un punto di vista scientifico, può non essere classificata una montagna perché si presenta come “una pietra, un solo sasso, ovvero un monolito infitto nel terreno, come se un gigante lo avesse scagliato dal cielo. “Ayers Rock”, conclude, “è una montagna dal punto di vista del Tipo Cognitivo, ma non lo è dal punto di vista del Contenuto Molare (CM), ovvero di una competenza petrologica o litologica che dir si voglia”.

La differenza fra Contenuto Nucleare e Contenuto Molare, tra sapere dizionariale e sapere enciclopedico è profonda, anche se, come ci fa capire Eco, il confine tra i due saperi è tutt’altro che rigido e c’è anzi un continuo passaggio da un campo all’altro. Il sapere enciclopedico a cui si rifà la geografia per riconoscere la diversità e la specificità dei luoghi è sterminato, corrisponde all’intero sapere del mondo (giustamente C.Socco parla di Atlante enciclopedico). Da esso dunque possiamo derivare le informazioni per dare un senso, un significato a paesaggi come quello dominato dall’Ayers Rock. Ma quali saranno le informazioni che dobbiamo trascegliere? Possono bastare quelle traducibili in cartografia, la quale è comunemente considerata come il linguaggio proprio della geografia? Gli urbanisti pensano generalmente che ciò basti, ma sappiamo che la cartografia invece non può fornirci che poche indicazioni riguardanti il paesaggio, in quanto rimanda a poche categorie di segni e quindi ad un saperedi tipo dizionariale, anche se le cartografie tematiche sembrano poter ampliare il ventaglio enciclopedico e quindi superare i limiti insiti nel linguaggio cartografico. Neanche il sapere enciclopedico a cui ricorre la geografia al di fuori di quello cartografico e dizionariale può risolvere il problema della lettura semiologica del paesaggio se non usato adeguatamente, perché così come è preso solitamente dalla geografia non fa che ingrassare la semiosi per bulimia, senza dirci nulla del paesaggio, almeno sulla base delle premesse che abbiamo posto all’inizio sul senso e il fine della semiologia del paesaggio (che cosa vogliamo sapere guardando l’Ayers Rock? Che cosa ci dice quella rupe misterosa?).

Così i geografi quando ci parlano dell’Ayers Rock, per dire la loro e ampliare il racconto enciclopedico relativo alla grande rupe devono ricorrere alle conoscenze dei geologi e dei geomorfologi, per i quali l’Ayers Rock è semplicemente un rilievo (non proprio una montagna, ha ragione Eco) che fa parte della categoria degli Inselbergen, i monti-isola, relitti di antichi rilievi che restano come testimoni nei penepiani, le superfici di spianamento dei territori montuosi. Residuo quindi di montagne ormai demolite, fatto di arenarie paleozoiche, che ci racconta la storia geologica di una regione dell’Australia. E qui si potrebbe andare avanti, scavando nei depositi narrativi del sapere enciclopedico, raggiungendo livelli semantici sempre più profondi, raccontando la storia dei legami di tale regione con la geosinclinale della Tasmania,ecc.

Ma è questo che chiediamo alla semiologia? No di certo, trattandosi di questioni attinenti meccanismi il cui studio possiamo pacificamente lasciare alla geografia fisica. Diverso è il compito della semiologia, la quale deve cercare, di fronte ad un paesaggio naturale come quello dell’Ayers Rock, non ancora antropizzato (?), in che modo l’uomo vi ha stabilito un rapporto, come lo ha annesso alla sua cultura, come vi si è trovato riflesso, in quanto uomo e in quanto membro di una società. Ora, il punto di partenza per un esame semiologico di questo genere è la percezionedel paesaggio, il suo modo di imporsi allo sguardo conisuoi diversi elementi, le sue forme diverse. Alla percezione l’Ayers Rock si presenta con l’aspetto caratteristico dei rilievi relitti in ambienti aridi o semiaridi, con le superfici rocciose modellate dall’azione eolica, la quale ha creato delle cavità alveolari che suscitano l’impressione di una pietra antica, logora, simile a un vecchio legno tarlato. Sicuramente queste manifestazioni di antichità, di arcaicità, non sono certo sfuggite ai primi aborigeni che scorsero l’Ayers Rock, come non sfuggono ai visitatori d’oggi capaci di emozionarsi di fronte alla maestà del rilievo australiano, avvertendo, anche attraverso la suggestione scenografica (l’Ayers Rock si tinge magicamente di rosso all’alba e al tramonto), la singolarità e l’antichità della roccia, il mistero del tempo, una prima idea, una prima ierofania dei misteri della natura. E’ insomma il rapporto archetipo, originario, primordiale, eppure così decisivo per il nostro muoverci nel mondo, quello che fa dire a MerleauPonty che basta un solo elemento di tal genere per farci capire la verità e la complessità del mondo, come basta una sola parola per rivelarci un intero discorso.

Ma come arrivare  a comprendere la visione ierofanica degli aborigeni e a dare contenuti del genere alla grande rupe? Una prima indicazione può venirci dalle istoriazioni rupestri e poi altre dal fatto che l’Ayers Rock è ricordato nelle celebrazioni mitiche degli eroi capostipiti i quali, in tempi remoti, muovendosi in lungo e in largo nel continente, hanno esplorato e conosciuto il mondo, annettendo alla cultura i territori vitali (territori per la caccia e la raccolta) di cui gli Inselbergen come l’Ayers Rock costituivano i riferimenti primi, le stazioni mitico-memoriali per eccellenza, come per noi le città monumento della nostra storia. Ossia, l’annessione alla cultura di una presenza numinosa come l’Ayers Rock viene risolta legandola alle gesta degli antenati mitici, che è un modo di immettere nel Logos gli elementi territoriali, producendo paesaggio (C. LéviStrauss).

Se trascureremo questa conoscenza che, attraverso il mito, gli aborigeni avevano dell’Ayers Rock, ridurremmo ad una sola categoria, quella geologico-morfologica, la nostra semiologia, trascurando la geografia del vissuto, su cui possono informarci gli antropologi, autori del capitolo di quella più vasta enciclopedia che contiene tutte le storie del mondo. Tra cui quella delle rocche isolate nelle pianure, le quali ci suscitano un’emozione che noi oggi possiamo rivivere, fornendoci lo spunto per analizzare le nostre emozioni, quasi psicanalizzandoci, cioè indagando nel più profondo e primordiale dei nostri depositi memoriali e sentimentali che i paesaggi ridestano.

Proprio per questo anche una semiosi così particolare si può ridurre alla dimensione dizionariale, quella che riguarda il più generale modo dell’uomo di atteggiarsi nella natura, perché sappiamo che gli Inselbergen non solo in Australia ma anche in Africa e in Asia hanno suscitato nell’uomo le stesse emozioni e lo stesso senso del sacro, come testimoniano le incisioni rupestri, le leggende e i riti che si legano a questi rilievi isolati ed antichi, riferimenti di prim’ordine della geografia e primi elementi di una conoscenza del mondo, di una prima semiologia, precategoriale, predizionariale. Ma veniamo all’oggi, alle folle di turisti che si recano in visita a quel monumento di pietra piantato nella piatta superficiedel Bacino Amadeus.Ad essi i dépliants raccontano della leggenda del gigante che ha scagliato dal cielo l’enorme macigno, semplificando e attualizzando un episodio che ha invece le sue ragioni in una storia geologica e antropologica che, a conoscerla, è sicuramente più affascinante di tutte le altre. Esempio, se si vuole stare nel liguaggio dei semiologi, di fissione, di rottura o impoverimento della semiosi originaria rispetto a quella banalmente enciclopedica diffusa nella nostra società del turismo e dello spettacolo e di cui sono un po’ vittime anche i nostri architetti e i nostri urbanisti. Può l’architetto d’oggi, sottoposto alle spinte utilitaristiche del nostro mondo, soffermarsi ad ascoltare il silenzio dell’Ayers Rock, le sue misteriose emanazioni paleozoiche? La conoscenza di come sono nati i primi miti e i primi sistemi di significazione è importante? Si possono dare risposte diverse a questa domanda, ma certamente la conoscenza di quei primi significati dovrebbe essere alla base di ogni forma di sapere perché ad essi si collegano i primi imprinting che l’uomo ha dato al paesaggio terrestre, attraverso le prime forme d’uso di tipo culturale dello spazio che stanno alla base della diversità dei paesaggi. In ogni caso quel sapere precategoriale che ha consentito a quegli uomini di annettersi la natura e gli oggetti territoriali è semioticamente ambiguo, vago, indefinito, cioè poco dizionariale, così come è ambiguo, vago, indefinito il sapere dei poeti e degli artisti, dai quali, come dice U.Eco, non possiamo attenderci il riconoscimento di un contenuto nucleare, ma che pure sono importanti per la loro capacità di rinnovare ogni volta nel senso proprio teorizzato dal formalismo russo il nostro rapporto con il mondo, di rinsanguarlo di nuovi significati. Con l’esempio introdotto da Eco si fa riferimento ad un paesaggio naturale che rimanda all’universo delle semiosi originarie. Mi pare che sia importante introdurre ora un esempio riguardante un paesaggio antropico, un paesaggio costruito, e vedere come si può organizzare un sistema di significazione che ci consenta di trovare, se ci sono, delle regole di lettura, non trascurando, neanche questa volta, i contenuti legati alle popolazioni che per prime hanno operato su base semiologica in quel paesaggio.

Mi rifarò ad un esempio che è stato usato dalla geografia per mostrare la ricchezza e l’acutezza degli strumenti di cui essa dispone. E’ un esempio relativo alle motivazioni che starebbero alla base dei centri arroccati, i centri alti, che danno una impronta così caratteristica al paesaggio italiano, di cui rappresentano uno dei principali iconemi (leitmotif o immagine caratteristica) che balzano agli occhi degli stranieri. Secondo P.Gribaudi, geografo della generazione della prima metà del secolo, impegnato nell’evitare ogni banalizzazione della geografia, non bastano le ragioni difensive (la più ovvia delle letture) per spiegare tali insediamenti. Ricorrendo invece al rigore scientifico della geografia, le ragioni starebbero nel fatto che solo sulle sommità delle alture il terreno è al riparo dalle erosioni che solitamente intaccano i versanti. E’ una buona ragione che sicuramente può valere per i centri del Monferrato e in altri casi, ma che non si può sostenere allo stesso modo per altri contesti regionali, come per i centri che si pongono sopra le piane malariche della Maremma o della Basilicata. Possiamo dire pertanto che ci sono categorie diverse di centri arroccati, come fosserospecie diverse di una stessa famiglia botanica, ognuna delle quali contribuisce a qualificare una regione (ecco un esempio che giustifica le invocate “unità di paesaggio”). Ma le motivazioni non possono emergere così chiaramente come si pensa, perchè il principio di causalità non sempre emerge chiaramente nel paesaggio percepito.

Poniamo il caso, ormai frequente, in cui le piane sottostanti i centri alti siano state bonificate: come possiamo riconoscere una relazione causale come quella? Essa andrebbe ricercata sfogliando l’enciclopedia storica e recuperando un passato che nel paesaggio non è visibile se non dietro la sua scorza così come l’aspetto di una pianta è nascosto sotto la scorza del tronco. Diciamo allora che attraverso i segni del paesaggio (il cui riconoscimento pertiene agli outsiders, gli osservatori dei paesaggi altrui) non si può arrivare alla vita che sta dietro al paesaggio, se non attraverso una ricerca delle motivazioni storiche, diacroniche, quindi con incursioni all’interno della realtà che si esprime nel paesaggio, ma che il paesaggio, ingannatore molto spesso, non può dirci con esattezza. Del resto la storia dei centri arroccati del Sud e delle letture che di essi è stata fatta mostra quanto ampio sia lospettro delle significazioni possibili.Ricordiamo che per Carlo Levi quei centri si sono mantenuti così come erano secoli e secoli or sono perché Cristo, cioè il progresso, si era fermato a Eboli, mentre per il sociologo americano P.Banfield tutto poteva spiegarsi con il fatto che gli abitanti non si sono mai impegnati a scendere in basso e affrontare, in modo compatto e solidale, la Storia.

Come si possono leggere i paesaggi se non si conosce la società che li ha prodotti? Ci basta, per conoscere la Cina, viaggiare in lungo e in largo nel paese senza avere informazioni dai cinesi stessi sul senso delle loro opere, tenendo conto che spesso a cose e gesti eguali ai nostri essi danno significati opposti? Avremo solo delle collezioni di paesaggi che si differenziano rispetto ad altri paesaggi ma non sapremo niente dei contenuti che i cinesi hanno dato agli elementi che compongono il loro paesaggio. Insomma, conosceremo il paesaggio come insieme di forme ma non conosceremo i cinesi, il mondo silente dei segni ma non il rumore della parola. La semiologia del paesaggio passa inestricabilmente attraverso la semiologia del linguaggio, attraverso i miti, le credenze, le storie che esso ha espresso.

Allora che cosa ne facciamo del paesaggio come categoria della conoscenza del mondo, come manifestazione segnica dei diversi territori in cui esso si configura? Possiamo ridurlo a pura scenografia escludendo gli attori che in esso si muovono? Dobbiamo lasciarlo in mano agli architetti, agli urbanisti, ai tecnici agrari, agli ingegneri? Ai loro calcoli utilitaristici? Escludendo storici, sociologi, poeti, griot, artisti, sacerdoti? Il paesaggio acquista significati se lo leghiamo alla società che lo produce, ai suoi interni metabolismi, al dialogo o ai conflitti che si producono tra tecnici e poeti, tra ingegneri e artisti. Da questo punto di vista il paesaggio in sè non è polisemico, non lo è comunque se lo prendiamo come dato di partenza su cui indagare. Partendo dal dato percettivo, dai suoi segni componenti, gli iconemi come io li chiamo, che sono dati incontrovertibili della percezione (come può rivelarci un’inchiesta tra persone che percorrono uno stesso itinerario di viaggio), dati di partenza dell’operazione semiotica che ci porterà, a diversi livelli, a riconoscere un territorio o una regione, i rapporti interni tra i vari elementi (traducibili in segni) che ne assicurano il funzionamento e l’esistenza e sui quali dovrebbe perciò appuntarsi l’interesse prioritario del pianificatore. Per iconemi intendo i segni peculiari, emergenti,distintivi, identitari degli spazi regionali (o delle unità di paesaggio), parti rappresentative o sineddoche che rimandano alla langue di una società, alla sua organizzazione territoriale, come brani di un discorso che si può leggere a diversi livelli di approfondimento, passando dal dizionario all’enciclopedia. In questa si troveranno le ragioni dell’insider, cioè di chi vive nel territorio, che abbiamo riconosciuto come fondamentali per identificare i paesaggi e le loro diversità. Anche se non si potranno escludere le ragioni dell’outsider. Una lettura bivalente, incrociata tra i due diversi interpreti sembra indispensabile. Entrambi infatti sono carenti in qualche cosa, per le ragioni dette all’inizio, per cui il primo, come attore che vive all’interno di un territorio, ignorerà gli effetti che il suo operare avrà sul secondo, il quale da semiologo, da puro interprete dei segni, opererà ignorando le ragioni del primo, per il quale il paesaggioè riferimento identitario.

Solo dall’insider possono venire le indicazioni per una lettura del paesaggio vissuto, così come il contenuto dizionariale, classificatorio, cartografico, può venire dall’outsider. Entrambi tuttavia tenderanno a superare i sistemi classificatori che in sè non risolvono il problema della lettura del paesaggio, la quale non è semplicemente la conoscenza dei rapporti tra uomo e ambiente naturale (come la intende la geografia normale), ma la conoscenza di come, attraverso il paesaggio, l’uomo si commisura con il mondo. Ed ecco allora la necessità di invocare l’autoriflessività. Tornando all’esempio dei centri arroccati, occorre superare il sistema delle motivazioni classificatorie, delle tipologie cognitive, nucleari o molari, per cercare nel paesaggio i riferimenti sui quali si costruisce l’identità del gruppo sociale, il progetto, l’idea che mirano a realizzarla. Ogni società cerca di esprimere nel paesaggio il segno di sè, il marchio del proprio esistere e del proprio modo di essere, che nel caso dei centri arroccati si realizza attraverso la scelta del luogo di forte identità, distinguibile, riconoscibile entro il contesto della natura anonima, non riconosciuta, non denominata, e quindi con le caratteristiche che la rendono più facilmente accessibile alla cultura, alla denominazione. Questo significa che l’uomo non produce paesaggio “suo malgrado”, come sostiene P. Castelnovi. Certo può accadere e di sicuro è accaduto per molte società pressate da contingenze economiche particolari, o minacciate da situazioni belliche o da disastri naturali; ma questo fa parte della loro storia e della loro cultura ed a queste occorre guardare per sapere perchè è mancata loro la capacità autoriflessiva, ossia la capacità di generare effetti semiotici coerenti con il proprio disegno, le proprie aspirazioni. In tal senso la ricerca dell’altura come luogo per l’insediamento è la ricerca del luogo di forte identità nel mare indistinto della geografia scontata; per l’uomo che ci vive e l’ha scelta non sarà semplicemente l’altura che accoglie il suo villaggio, termine generico, categoriale, un luogo come un altro: ma l’Altura unica, l’Altura come possesso proprio, come centro del mondo, come propria dimora, in quanto tale difendibile sia contro i nemici che contro le erosioni o le alluvioni.

D’altra parte se non ammettiamo questa ricerca dell’effetto semiotico dell’agire dell’uomo forse viene meno il senso stesso del paesaggio e i contenuti su cui indagare; non solo, ma esso altrimenti non esisterebbe se non come prodotto d’un agire bruto, inconsapevole, cioè quello che noi tutti interessati al paesaggio non riconosciamo come tale. Tutte le nostre riflessioni, io credo, mirano invece a comprendere in che modo l’uomo riesca a costruire al meglio il proprio ambiente di vita. Se ciò non accade è perchè viene meno l’autoriflessività, la consapevolezza o l’interesse per gli effetti che il nostro operare ha nella natura, sia in senso estetico che in senso ecologico (generalmente all’uno corrisponde l’altro e viceversa, tenuto conto degli effetti positivi che nel paesaggio ha sempre l’adesione agli ordini della natura, il rispetto delle sue regole). Le società che dai loro obiettivi escludono gli effetti nel paesaggio del loro agire sono le società poco partecipi del senso della natura, squilibrate, produttrici di paesaggi privi della sacra essenza che le società migliori hanno saputo esprimere proprio attraverso una lettura del paesaggio (naturale o culturale) accordata alle proprie esigenze profonde. In tal senso la lettura semiologica del paesaggio consiste nella lettura del significato del significato che i costruttori dei paesaggi cioè gli attori, gli insiders vi hanno riconosciuto, in quanto interpreti del testo scenico, come dice Carlo Socco.

 

Ho fatto un richiamo alla complessità del paesaggio quando lo si voglia riconoscere nei suoi contenuti non categorizzabili in senso semplicemente dizionariale, riferendomi ai paesaggi altrui, cioè guardando il paesaggio da outsider. Ma se consideriamo ciò che sta accadendo oggi nel mondo, nel quadro dei processi di globalizzazione e di atopizzazione attraverso la trasmissione di stili e modelli culturali al di fuori degli ambiti che un tempo davano precisa identità e dei confini alle unità di paesaggio, ai quadri regionali in cui si articolava lo spazio terrestre agli occhi dei geografi-semiologi, si ha come l’impressione che i contenuti dizionariali, necessari ad una conoscenza tassonomica del mondo nella fase della sua scoperta, vadano soverchiando quelli veri, complessi, spesso indicibili, di tipo enciclopedico, che rimandano al passato e alle semiosi originarie, i quali ci sembrano indispensabili per conoscere le ragioni della diversità dei paesaggi.

Ma la comunicazione oggi è spiccia, di dimensioni colossali; quindi ha bisogno di categorizzare al massimo, di semplificare e unificare. Mi sbaglierò, ma il computer, l’informatizzazione del nostro comunicare ci induce a ciò. Allora si perdono le storie che stanno all’origine della varietà del mondo. Questo ci spinge a tornare al locale, ci induce a dare contenuti alla nostra enciclopedia che sempre più prescindano dalle classificazioni causali, deterministiche e generiche della vecchia geografia, riconducendoci piuttosto alla storia e alla sociologia del locale, con le sue permanenze, le sue memorie, nelle quali le società affondano le loro radici. Ossia, bisogna ormai ricorrere ad una sorta di determinismo socioculturale per dare contributi ai paesaggi locali: cioè riconoscere, come si diceva più sopra, i significati dei significati che gli uomini hanno dato al loro agire e gli sono serviti per rapportarsi col loro spazio di vita.

Occorre in altre parole farsi storici e indagare in senso psicosociologico. E’ in questa direzione che può condurci la semiologia del paesaggio, come disciplina rivolta a leggere il paesaggio testo, a coglierne in profondità il senso (un po’ al modo di NorbergSchultz quando parla di Genius loci), come unico modo per controbattere le tendenze verso l’omologazione e l’atopia. Era questa sostanzialmente la conclusione anni fa dei contributi di quel numero monografico di Espace Géographie dedicato alla semiologia del paesaggio. Ancora oggi mi pare che questo sia il senso che si debba dare a questo genere di ricerca.

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