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c. Nuovi paesaggi e rovine
Per chi lavora sul paesaggio e sul territorio è intrigante considerare anche l’ipotesi complementare: non solo le rovine svolgono un ruolo attivo dove si formano “nuovi” paesaggi, ma i “nuovi” paesaggi si fondano sulle rovine.
Con Guarrasi sosteniamo che la nuova attenzione al paesaggio è questione culturale e “politica”, animata da una domanda socialmente diffusa di segni distintivi sul territorio, sia di novità che di identità. [11] Nel nostro tempo assistiamo al risveglio del paesaggio e del segno monumentale (che del paesaggio è l’esclamazione) dopo una lunga eclisse che ha portato in primo piano altre priorità (la città, le strade e le case, si potrebbe dire).
Il risveglio del ruolo del paesaggio richiede però risorse culturali, materie prime non informi ma pezzi da ricomporre, perciò la storia come frullato, o meglio come minestrone nel quale pescare i “vecchi” segni che costituiscono la nostra “nuova” soggettività: si vorrebbe avere lo sguardo che duecento anni fa aveva solo il Re, e che faceva ricostruire al suo architetto paesaggi con rovine.
A Virginia Water, nel Sussex un cartello turistico descrive: “ Queste rovine furono erette in questo sito nel 1827/dal Re Giorgio IV/essendo state importate nel 1818/ dalla città Romana di Leptis Magna/ vicino a Tripoli in Libia/ Pericolo-Non avvicinarsi”. [12]
La diffusione dell’ingrediente “rovine” dai luoghi del piacere eccentrico nobiliare nei territori delle nostre pratiche quotidiane del paesaggio è uno dei sintomi della complessità del sistema che si viene formando in tempi di democratizzazione degli affetti culturali. A tutti noi si sono aperte possibilità di espansione quasi infinita dei riferimenti culturali: possiamo farci i paesaggi che vogliamo, viaggiando (o navigando in internet) e soprattutto con i riferimenti culturali che ci scegliamo, più o meno a caso.
In questo senso le rovine sono un pezzo forte della macedonia di riferimenti a cui facciamo riferimento per la costruzione dei nostri paesaggi: sono un prodotto di quel postmoderno rizomatico e reticolare di cui si parla da 30 anni con sospetto.[13] La diffusione del modo postmoderno di atteggiarsi verso la cultura e il sapere comporta l’eclisse dell’ordine e della sistematicità non tanto come struttura del sapere ma per l’ortodossia delle fonti, la gerarchia dei riferimenti, e la formazione di criteri di valore assegnati, nel paesaggio, molto più agli aspetti “sintattici” e sincronici che non a quelli “paradigmatici” dei tradizionali sistemi di riferimento culturale.
Lo sguardo di chi è incuriosito dal “nuovo” nel paesaggio cerca semi da far crescere nella SUA soggettività. Per quello sguardo le rovina è una sorta di “stargate” per una suggestione del passato intuitiva, non colta: come un seme viene considerato un frammento della struttura duratura del territorio, da collocare in un nuovo contesto culturale e paesistico. In questo modo si sviluppa generando nel paesaggio effetti nuovi, ancora legati alla struttura profonda del territorio ma evoluti in nuovi significati, che oggi diventando una leva per rimuovere la banalità di un territorio che appare senza segni e senza sogni.
Le rovine del passato (così come il riferimento “etnico”, orientale o africano) sono dunque pensate come pioniere di una nuova colonizzazione, componenti che vengono da abbastanza lontano, tanto da aiutare a smontare la gerarchia dei segni recenti ma consolidati e a metabolizzare nuovi sensi del paesaggio nei nuovi contesti.
Il ricorso ai riferimenti di segni lontani nella storia si è ripetuto molte volte, sempre sulla base della stessa sequenza operativa: i segni di civiltà in declino sono ripresi e rianimati in nuovi contesti, a formare il carattere distintivo di nuovi paesaggi. I pronai delle acropoli greche dirute sono ripresi nella Roma imperiale, questi abbattuti sono scoperti nel Rinascimento e reinventati (non tanto dall’Alberti, che li riproduce troppo strutturalmente quanto da Palladio che ne inserisce nuovamente il linguaggio nella campagna veneta, di nobili paesani); sulla loro debolezza sociale si generano con nuova linfa i sogni illuministi neoclassici; questi, spogliati del contenuto ideale, rivestono le opere pubbliche sacre e profane ottocentesche (o i caratteri distintivi delle dimore per la aristocrazia rurale americana); di nuovo i loro fasti ormai appannati si moltiplicano nelle infinite rifrazioni del postmoderno.
Insomma il tempo e lo spazio aiutano a indebolire i nuclei troppo “duri” e autoreferenziali di complessi progettati e rendono possibili le innovazioni solo se le relazioni fisicamente strutturate si alterano e perdono vigore.
Ogni volta il modello deve essere frantumato, ridotto a rovina perchè i fattori strutturali evolutivi (di lunga durata perchè adattabili) che contiene vengano alla luce e interessino per i nuovi interpreti.
Tutto ciò accade solo se i nuovi interpreti sono attenti agli effetti di insieme dei luoghi, hanno uno sguardo paesistico e non legato ai singoli oggetti; altrimenti lo sguardo legato alle architetture e alla conservazione dei progetti non può che lamentare le ingiurie del tempo e della natura senza leggerne il potere vivificante.
Dobbiamo accettare il fatto che nel senso comune del paesaggio gli aspetti di sedimentazione storica siano spesso letti come destrutturati, ridotti a rovina prima ancora nel pensiero che nella materia, e che questo processo non sia solo una perdita ma fornisca anche una suggestione per l’innovazione e un seme per l’interesse attivo verso la complessità del paesaggio.
[1] da A. Stifner, Abdia,1842 , Adelphi, Milano 1983, pg.13/15
[2] da M. Augè, Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pg.22
[3] v. G.Simmel, Die Ruine, 1911, tr.it. in Rivista di Estetica, 8, 1981
[4] In On Modern Gardening, Walpole (il romantico del Castello di Otranto e della serendipity) fa suo nel 1780 il principio di William Kent: “La natura detesta la linea dritta”, su cui si basa il disegno del giardino naturalistico. Ma da tempo quei caratteri non sono solo apprezzati: ad esempio “For instance, nature apparently abhors a straight line, so all paths and avenues and stream were sent serpentining about in the most tedious and unmeaning fashion” da Myra Reynolds, The treatment of Nature in english poetry between Pope and Wordsworth, Ams Pr Inc London 1909
[5] v. R.Barthes , La camera chiara, Paris 1980, (Tr.it. Einaudi, Milano 1980).
[6] v. P.Castelnovi, Il Senso del paesaggio (relazione introduttiva), IRES, Torino, 2000.
[7] v. P.Ricoeur, La Mémoire, l’Histoire, l’Oubli, Le Seuil, Paris, 2000; trad. it. La memoria, la storia, l'oblio, R. Cortina, Milano 2003
[8] M.Belpoliti, Crolli, Einaudi Torino 2005
[9] “ C'è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma una tempesta soffia dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l'angelo non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre davanti a lui il cumulo delle rovine sale verso il cielo. Ciò che noi chiamiamo progresso è questa tempesta.” dalle Tesi di filosofia della storia (Benjamin, 1940), tr. it (in Angelus Novus, Einaudi Torino 1962). There is a painting by Klee called Angelus Novus. It shows an angel who seems about to move away from something he stares at. His eyes are wide, his mouth is open, his wings are spread. This is how the angel of history must look. His face is turned toward the past. Where a chain of events appears before us, he sees on single catastrophe, which keeps piling wreckage upon wreckage and hurls it at his feet. The angel would like to stay, awaken the dead, and make whole what has been smashed. But a storm is blowing from Paradise and has got caught in his wings; it is so strong that the angel can no longer close them. This storm drives him irresistibly into the future to which his back is turned, while the pile of debris before him grows toward the sky. What we call progress is this storm.
[10] v. C. Woodward , In Ruins, 2001; trad.it., Tra le rovine, Milano, Guanda, 2008
[11] v. V. Guarrasi , Eterotopia del paesaggio e retorica cartografica, in Il senso del Paesaggio, cit.
[12] riportato da C. Woodward , cit..
[13] v. Deleuze e Guattari, Rizoma, Pratiche, Parma, 1977