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Attualità del paesaggio

Indice

L’evidente attenzione che esperti e specialisti delle più diverse discipline nonché, in misura crescente, politici ed operatori sociali e culturali riservano da qualche anno al tema del paesaggio, merita un tentativo di spiegazione. Il fatto che questa problematica rifletta preoccupazioni, attese ed esigenze che si riconoscono di comune e generale interesse, il fatto che il paesaggio non è, non può essere considerato un affare privato di singole accademie od elites culturali o categorie professionali. Il fatto cioé che esista una “questione del paesaggio” che interessa la società contemporanea e che investe l’azione politica, con acutezza e complessità non molto diverse da quelle che hanno caratterizzato da trenta o quarant’anni la “questione urbana”.

Il seminario internazionale di cui sono qui raccolti gli atti non è stato che una delle tante occasioni in cui, in Italia e all’estero e nelle sedi più diverse, si è discusso e si discute di paesaggio. L’evidente attenzione che esperti e specialisti delle più diverse discipline nonché, in misura crescente, politici ed operatori sociali e culturali riservano da qualche anno al tema del paesaggio, merita un tentativo di spiegazione, se si vuol cercare di capire in quale contesto problematico si situino le riflessioni qui raccolte. Chiedersi perché il tema del paesaggio sia diventato tanto e così largamente attuale può forse servire anche a chiarire gli scopi e l’utilità specifica del Seminario di Torino e del confronto interdisciplinare che, con esso, si è inteso avviare.

Può sembrare paradossale che un dibattito, che si annuncia ristretto agli specialisti, per lo più operanti in ambito accademico, prenda le mosse dalla constatazione della rilevanza politica e sociale della problematica paesistica. Eppure è proprio questo il punto di partenza: il fatto che questa problematica rifletta preoccupazioni, attese ed esigenze che si riconoscono di comune e generale interesse, il fatto che il paesaggio non è, non può essere considerato un affare privato di singole accademie od elites culturali o categorie professionali. Il fatto cioé che esista una “questione del paesaggio” che interessa la società contemporanea e che investe l’azione politica, con acutezza e complessità non molto diverse da quelle che hanno caratterizzato da trenta o quarant’anni la “questione urbana”.

Se si accetta questo punto di partenza, può diventare comprensibile il percorso logico proposto dal Seminario, sostanzialmente illustrato nell’ampia relazione introduttiva di Castelnovi. Esso profila una sequenza di interrogativi:

1, quali sono le ragioni d’attualità della questione paesistica? A quali sollecitazioni politiche e a quali domande sociali il mondo scientifico e culturale che si occupa di paesaggio dovrebbe tentar di rispondere?

2, perché la questione paesistica si presenta così culturalmente e scientificamente complessa? Quali apparati teorici consentono di affrontarla efficacemente? E soprattutto esiste o ha senso tentar di costruire “una teoria” del paesaggio?

3, che significato assume, per la società e per l’uomo contemporaneo, il paesaggio? E soprattutto esiste un senso comune del paesaggio, una capacità di condivisione dell’esperienza paesistica che solleciti la pubblica responsabilità?

4, che senso può avere, allora, il progetto di paesaggio? Quale specificità gli va riconosciuta in rapporto al progetto d’architettura, di città, di territorio?

È evidente che una simile sequenza implica una convergenza, dalle tematiche generali verso le responsabilità specifiche delle scuole d’architettura (come quella che non casualmente ha ospitato il Seminario) e delle discipline che accompagnano e sorreggono l’agire progettuale. Ed inversamente, tale sequenza implica l’intento di risalire costantemente dai problemi pratici del progetto alle preoccupazioni politiche e culturali più generali che tali problemi sottendono. Questa interazione reciproca, che tende a legare l’agire progettuale al discorso sociale, non è ovviamente pacifica e scontata. Essa rispecchia da un lato una concezione del mondo non neutrale, nostalgica o rassegnata, non scevra di attese di cambiamento e quindi di speranze progettuali; una concezione che si fonda su un’analisi critica dei processi in corso e che respinge l’idea di una conservazione statica e passiva del patrimonio di valori che la nostra società ha ereditato dalla natura e dalla storia, che induce invece a credere che, in generale, “non si possono lasciare le cose come sono”. Credere in quell’interazione significa, d’altro canto, assumere una concezione del progetto molto lontana dai giochi autistici dell’architetto (o dell’urbanista o del paesaggista) arroccato nell’autoreferenzialità o nell’arroganza dell’atto creativo, molto attenta invece a quell’“impegno civile” che già con le parole del Defoe (1697) doveva caratterizzare la “projecting age”; significa pensare il progetto immerso nelle turbolenze e nei conflitti dei processi sociali, capace di esprimere le responsabilità tecniche, scientifiche e professionali non meno che le ansie, le speranze e le paure delle comunità che vi si riconoscono. È in questa duplice concezione - destinata a conferire un significato non banale a due principi che hanno acquistato da qualche tempo, sotto la spinta della “svolta ambientalista”, un ampio riconoscimento a livello internazionale, quello di conservazione e quello di responsabilità - che trovano articolate motivazioni gli interrogativi sopra richiamati, su cui si è sviluppato il nostro seminario (maiuscolo?).

Nel tentativo di capire le ragioni attuali della questione paesistica, è difficile sottrarsi alla tentazione di cercarle nei mutamenti strutturali della società contemporanea. Con brutale schematizzazione, si potrebbe pensare che, come la “nascita” del paesaggio è stata posta in relazione con l’esordio del capitalismo (Cosgrove, 1984), così la sua crisi attuale, preludio di una “morte” annunciata o di una metamorfosi radicale, possa e debba essere posta in relazione con la crisi del capitalismo maturo, post-industriale e post-moderna. E in effetti molti aspetti della società tardo-moderna o post-moderna - che caratterizzano quell’”ampio e profondo cambiamento nella ‘struttura del sentire’” di cui parla D.Harvey, 1993) - sembrano trovare riscontro nelle domande e nelle preoccupazioni riguardanti il paesaggio. Sarebbe d’altra parte insensato sottovalutare le stringenti relazioni che legano la domanda di paesaggio ai processi di internazionalizzazione dei mercati e di globalizzazione delle dinamiche economiche, sociali e culturali, coi loro contradditori effetti di omologazione e modernizzazione unificante, da un lato, e di esasperata specializzazione, squilibri, diseguaglianze  e disperata ricerca d’identità, dall’altro. Come nota A.Berque (1993), “la spettacolare crescita della domanda di paesaggio non è soltanto una deriva estetizzante di una società sazia; al contrario è il segno che l’uomo tende a riallacciare i suoi legami con la terra, che la modernità aveva dissolto”. La “grande illusione” che anima la domanda di paesaggio può essere, in altre parole, collegata all’ansia di riconciliazione con la propria storia e con la natura, che nasce come reazione ai processi di sradicamento e di deterritorializzazione, che tendono a cancellare ogni rapporto coi luoghi, e ai processi d’“urbanizzazione totale”, che tendono a cancellare ogni rapporto diretto con la natura. Da questo punto di vista, la “simulazione” implicita nell’attuale offerta di paesaggio (tipicamente nel marketing turistico: Raffestin, 1998) non sarebbe altro che l’estrema espressione di quella “naturalizzazione delle forme storiche” che percorre l’intero progetto della modernità, volta a legittimare e rendere socialmente accettabili i processi di modernizzazione in corso. L’attuale produzione paesistica, coi suoi stereotipi e i suoi meccanismi comunicativi, presenta in questo senso evidenti analogie con quelle operazioni “normalizzatricì di cui l’“invenzione” delle Alpi, con l’oggettivazione scientifica della loro conoscenza (De Rossi, 1998; Joutard, 1986), e, prima ancora e in ben diversi termini, il “landscape gardening” inglese (Gambino, 1989) costituiscono manifestazioni paradigmatiche. Ma, paradossalmente, è sulle attese e le paure determinate dalla “morte” del paesaggio (nell’ampio significato attribuitogli da Dagognet et al., 1982) che essa sembra costruire le proprie risposte.

Ma la questione paesistica, sotto la spinta delle critiche ambientaliste, va più in là: essa mette a nudo alcune contraddizioni fondamentali dei processi di sviluppo affermatisi soprattutto nella seconda metà di questo secolo, la loro intrinseca ed invincibile “insostenibilità”, cioé l’incapacità di protrarsi nel tempo senza mettere irreversibilmente a repentaglio la sopravvivenza del patrimonio di risorse trasmettibile alle future generazioni. La cancellazione del passato, delle memorie e delle eredità naturali e culturali, si associa inevitabilmente - nella prospettiva paesistica - alle minacce sul futuro.

L’interpretazione critica dei processi di sviluppo offerta dal paradigma paesistico non implica, di per sé, alcun vagheggiamento nostalgico di una mitica condizione pre-industriale e pre-moderna, anche se la tentazione di far coincidere la fine dei “bei paesaggi” con l’avvento dell’industrializzazione e la fine del mondo rurale è ricorrente (Greppi, 1991) nel dibattito contemporaneo. Essa induce certamente a prendere le distanze da quelle ideologie della modernità - più o meno connese all’hybris della cultura occidentale (Bateson, 1972) - che hanno impregnato la cultura tecnica, professionale ed ammnistrativa, assecondando l’illimitato e incondizionato sviluppo dei processi di “domesticazione” del mondo naturale, la sua progressiva trasformazione in sistemi interamente dipendenti dall’azione antropica e destinati quindi, quando tale azione si interrompe, ad entrare in crisi o collassare. Ma tale critica è sempre meno propensa a tradursi in una sterile difesa dello status quo, o nel vano inseguimento di una ecologia illusoriamente sottratta all’influenza antropica. Al contrario, il paradigma paesistico costringe a rivedere l’opzione conservativa, intendendola non più come limite allo sviluppo (secondo quella contrapposizione che pure aveva avuto, negli anni Settanta, una salutare funzione di contrasto politico e culturale), ma come sfida all’innovazione, anzi come il luogo elettivo dell’innovazione per la società contemporanea (Gambino, 1997). La conservazione del paesaggio non è pensabile che in chiave evolutiva: come già ammoniva il Bateson (1972), “se l’evoluzione senza conservazione è follia, la conservazione senza evoluzione è morte”.

Il ripensamento dell’opzione conservativa profilatosi in questi ultimi anni è stato certamente stimolato dalla tragica rilevanza dei processi d’abbandono, che hanno colpito tanti paesaggi rurali europei, mettendo in evidenza l’inefficacia delle misure puramente difensive od ostative nei confronti dei conseguenti effetti di degrado, destabilizzazione, dissesto e depauperamento. E’ questo che rende manifestamente inaccettabile l’idea di “separare le cose dal loro divenire” (Tiezzi, 1998). Più in generale, sembra evidente che il rilievo assunto dalla questione paesistica è direttamente legato al drammatico aggravamento delle condizioni ambientali, alla intensificazione ed alla diffusione pervasiva dei rischi e delle minacce ambientali. Sebbene la percezione sociale di tali rischi sia ancora largamente inadeguata e soprattutto incapace di produrre svolte radicali nell’azione politica, non v’è dubbio che il dibattito politico e culturale degli ultimi decenni ha registrato una crescente consapevolezza dei nessi che legano i problemi ambientali a quelli economici e sociali. Molti nodi sono venuti al pettine: e se da un lato la fragilità e la precarietà degli sviluppi in atto denunciano la loro incoerenza nei confronti delle attitudini e delle condizioni dei contesti ambientali in cui si manifestano, dall’altro sempre più spesso si avverte l’impossibilità di assicurare la stabilizzazione ecosistemica e la difesa efficace delle specificità ambientali in carenza di forme opportune di sviluppo economico, sociale e culturale, come da qualche anno avverte l’Unione Mondiale per la Natura (Iucn, 1996). I tentativi, ancora timidi ed embrionali, di individuare nuovi percorsi di “sviluppo sostenibile” hanno generalmente posto in evidenza intrecci complessi di interazioni tra i problemi economici e sociali dei sistemi locali e le esigenze di tutela ecologica ed ambientale. Sono questi intrecci a costituire attualmente il nucleo cruciale della questione paesistica.

In realtà, il paradigma paesistico coglie il punto di convergenza di due fondamentali orientamenti emergenti a livello internazionale. L’estensione, da un lato, del principio di conservazione, da singoli oggetti di speciale rilevanza (i monumenti, le cose d’interesse storico od artistico, i beni culturali), a realtà ampie e complesse come i centri storici o la “città storica” latamente intesa, all’intero territorio, nella globalità dei suoi valori storici e culturali (Carta di Gubbio: Ancsa, 1990). L’attenzione per il paesaggio si accentua in misura diretta di questa dilatazione del campo, che travolge progressivamente ogni frontiera spaziale ed ogni discriminante cronologica, allargando lo sguardo sui territori extraurbani, agricoli e naturali, e legando sempre più la sensibilità per il passato alle preoccupazioni per il futuro. L’estensione del principio di conservazione incrocia, d’altro canto, un orientamento non meno importante, che ha preso le mosse nell’ambito dei movimenti ambientalisti e della cultura della protezione della natura e che ha spostato via via l’attenzione dai problemi di protezione di singole specie o di singoli siti a quelli della tutela degli interi ecosistemi e del territorio globale. Il messaggio della “territorializzazione” delle politiche ambientali, che ha fortemente connotato la Conferenza di Rio (UN, 1992) e le successive principali occasioni di confronto internazionale, va in questa direzione. La sfida che si profila è quella di innescare strategie conservative che si calino nelle diverse realtà territoriali, misurandosi coi loro problemi economici e sociali, coinvolgendo le comunità locali ed incidendo sui modelli e processi d’utilizzazione delle risorse locali. Con schematizzazione certo eccessiva, si potrebbe osservare che mentre da un lato le politiche di conservazione del patrimonio sono sollecitate ad uscire dalle “isole costruite” interamente antropizzate per investire l’intero territorio, simmetricamente le politiche di conservazione della natura sono sollecitate ad uscire dalle “isole naturali” per investire anch’esse l’intero territorio. Sarebbe certo ingenuo pensare che questo duplice orientamento abbia cancellato quella aspra bipolarizzazione tra natura e cultura, tra physis e logos, che costituisce tuttora uno dei retaggi più ingombranti dell’età moderna e che trova nei contrapposti stereotipi del parco naturale e del centro storico la sua più vistosa espressione (la natura ghettizzata nei parchi, la cultura nei centri storici). E tuttavia su entrambi i fronti si osservano ripensamenti ed esperienze innovative che vanno in quella direzione: basti pensare ai nuovi orientamenti che si profilano nelle politiche dei parchi, anche in paesi, come quelli del Nord Europa o del Nord America, che, grazie all’abbondanza di spazi naturali vasti ed incontaminati, hanno maturato tradizioni di tutela che prescindono dalla stabile presenza umana (e che anzi in certi casi presuppongono l’espunzione di ogni influenza antropica); o, inversamente, all’importanza che anche in Italia le nuove politiche urbane e regionali tendono a riservare al paesaggio e all’ambiente naturale. Sotto l’ampio ombrello della “sostenibilità”, in particolare del programma d’azione riassunto nell’Agenda XXI (sottoscritta a Rio nel 1992), si colloca ormai una serie di esperienze diverse, dal “greening” urbano, alle rivisitate “greenbelts” e alle “greenways”, alle bonifiche e al recupero di vasti complessi minerari o industriali, alla rimodellazione paesistica del territorio extraurbano. E, nella misura in cui questo fecondo incrocio obbliga a riflettere sull’interazione dinamica e continua tra processi “culturali” e processi “naturali”, il paesaggio è chiamato in causa. Istanze di tutela del patrimonio culturale e di salvaguardia ecologica complessiva trovano così nella questione paesistica un terreno basilare di convergenza e di confronto. Un confronto, beninteso, non privo di conflittualità: ad esempio, la tutela della diversità biologica può, in determinate situazioni, confliggere con la tutela della diversità culturale che si manifesta nel paesaggio (non a caso nel recente documento approvato dai Ministri dell’UE, 1998, l’obbiettivo di tutela e valorizzazione della diversità paesistica è affiancato a quello della diversità biologica e non già ricompreso in esso).

A fronte di quest’ampia confluenza di interessi, non stupisce che la rilevanza “politica” del paesaggio abbia trovato, dapprima in alcune legislazioni nazionali, e poi anche a livello internazionale, formale riconoscimento. La Risoluzione sul paesaggio approvata nel 1998 dal Consiglio d’Europa (CE, 1998) non lascia dubbi sulla consacrazione giuridica del ruolo politico-culturale attribuito al paesaggio, quale “fondamento dell’identità culturale e locale delle popolazioni, componente essenziale della qualità della vita e espressione della ricchezza e della diversità del patrimonio culturale, ecologico, sociale ed economico”. È un’affermazione tanto più risolutiva in quanto si applica non già a particolari paesaggi, di speciale rilevanza “culturale” (la risoluzione non riguarda infatti soltanto i “paesaggi culturali”, se con questa espressione si intendono quei paesaggi in cui l’azione antropica sia stata particolarmente energica e trasformatrice), ma a tutta la variegata gamma delle configurazioni paesistiche che connotano il territorio europeo. Ed ancor più rileva ? la Risoluzione europea, ove si consideri il principio esplicitamente fissato secondo cui il paesaggio deve essere tenuto in conto sistematicamente in tutte le politiche urbanistiche, territoriali, agricole, sociali, economiche e culturali e nelle altre politiche settoriali capaci d’incidere su di esso. Siamo, com’è evidente, ben lontani da quelle concezioni sostanzialmente elitarie od edonistiche (la difesa di “pochi oggetti per pochi fruitori”, com’ebbe a dire l’Emiliani) che in Italia avevano trovato ospitalità anche nella L.1497 del 1939, per tanti altri aspetti importante e anticipatrice. Ma siamo anche lontani da quelle concezioni, riduttivamente appiattite sugli aspetti “naturalistici”, che avevano trovato espressione nelle (peraltro gloriose) tradizioni del “landscape planning” nordamericano. La consacrazione politica del paesaggio segna quindi inevitabilmente il tramonto di molte concezioni tradizionali e costringe la riflessione scientifica e l’elaborazione tecnica a misurarsi con la complessità della questione  paesistica.


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