Indice
b. Affetto per le cose vs tempo
Se una delle condizioni che liberano lo sguardo sulle cose è la loro frantumazione spaziale rispetto al disegno forte del progetto originale, certo lo stesso vale per l’altro asse vitale: il tempo.
La forma del tempo, nel modo con cui la descriviamo nella nostra fase storica, appare come un flusso continuo e abbiamo un rispetto sacrale delle sue scansioni regolari, indifferenziate. E’ un residuo illuminista della “metrisation du monde”, sopravvissuto all’avvento della società plurale e soggettiva per l’indiscutibile valore strumentale: la omogeneità del flusso aiuta le macchine del mondo a funzionare insieme. Ma in realtà percepiamo (sia personalmente che socialmente) il tempo, come lo spazio, con profonde discontinuità: grandi stasi con regolari sequenze cicliche o improvvise accelerazioni con ingorghi di eventi che modificano i nostri ritmi abitudinari. Emerge con evidenza a qualsiasi indagine realistica che le nostre storie, personali e collettive, non sono conservate nella memoria come risultato di una sedimentazione sistematica, ma con nuclei più densi di informazioni o lunghi intervalli privi di senso nel ricordo.
D’altra parte la memoria e l’oblio sono considerati fattori complementari per l’equilibrio psicologico personale e o sociale, come appassionatamente racconta Ricoeur.[7] Soprattutto di fronte alle ferite dolorose il processo di risanamento e di perdono, spesso desiderato, passa per un oblio, rischioso ma necessario. Ricoeur fa emergere il dilemma della nostra generazione, che vede spegnersi gli ultimi testimoni delle tragedie del ‘900, ed è dibattuta tra la continuità della memoria “perchè non si ripetano” e la novità della rinascita, che avviene più facilmente se riduce il peso degli opprimenti carichi del passato.
Le figure paesistiche del tempo sono condensate nei segni delle discontinuità, delle crisi: il paesaggio non segnala lo scorrere ordinario del tempo, ma presenta, con le rovine e con le macerie, gli esiti materiali degli eventi traumatici. E le genti hanno di fronte alle macerie e alle rovine un comportamento diverso: talvolta rendendo sacri i resti come testimonianza in pietra del sangue, in altri casi elaborando il lutto nell’oblio e cancellando le tracce nelle città come la natura fa nelle foreste.
Belpoliti centra una sua riflessione sui crolli, sugli anni a cavallo del millennio, segnati piuttosto dalle macerie che dalle rovine. Per lui il crollo del Muro di Berlino segna una straordinaria apertura nella comunicazione tra due universi culturali, il crollo delle Torri gemelle al contrario segna la chiusura di un potenziale processo di integrazione [8].
Ma di fronte a quelle macerie Berlino e New York stanno reagendo come fa un corpo sano nel cicatrizzare una ferita: riducono il segno, si preparano alla metabolizzazione e quindi all’oblio: del Muro non resta quasi traccia, Ground Zero si prepara ad essere fondamenta di un nuovo grattacielo. Le città lavorano per risanare i traumi viventi, e perciò riducono il più possibile il tempo delle macerie.
Dunque le macerie giocano un ruolo paesistico diverso dalle rovine, sono il resto di un’azione che si vuole concludere, mentre le rovine sono un punto di arrivo, un dopo che ha definitivamente perso il contatto con la storia vivente, e ora stanno nel paesaggio segnando una discontinuità insondabile nel tempo. Di fronte alle rovine non ci posso fare niente, mentre di fronte alle macerie se non altro mi indigno, piango, sono comunque coinvolto e rivolto al passato. Benjamin, poco prima del suicidio, trae un’amara riflessione da questa impotenza in epoca di macerie (che lui chiama rovine) e intuisce una forza insopportabile che allontana dal passato, dalla pietas, dal ricordo: è una forza che viene dal paradiso che costringe l’angelo che vorrebbe soffermarsi ad allontanarsi dai segni della catastrofe. [9]
Se la contemplazione delle macerie blocca e deprime, quella delle rovine può essere liberatoria perchè testimonia un altro tempo, che non ha più a che fare con la mia vita se non attraverso la mia elaborazione, la mia reinvenzione dei luoghi: è diventata risorsa per il futuro perchè si è staccata dal coinvolgimento del passato e si è messa a disposizione della mia riflessione.
Il processo che trasforma le macerie in rovine è lineare e non traumatico, ed è legato al trascorrere delle generazioni: i resti sono lo strumento della memoria, finchè essa è vitale; sono il veicolo dell’emancipazione dal ricordo, quando non ci sono più vivi che ricordino direttamente.
Le cose aiutano a rallentare il tempo dove la memoria è vivente e ogni aspetto legato al passato ne risuscita il contesto e il paesaggio nell’immaginario di chi lo ha vissuto. Viceversa le cose aiutano a sospendere il tempo quando finiscono i riflessi caleidoscopici della memoria vivente e gli oggetti, ormai opachi, non sono più un passato ancora presente ma un simbolo, frammento di un mondo irripetibile.
Come accade per il progetto anche per il tempo la rovina stacca un brano di realtà dalle sue condizioni originali e lo reimmette come risorsa nuova e ricca a disposizione di chi guarda e della sua cultura soggettiva, qui e ora. Ci giungono ripulite del sangue e della fatica, come carni surgelate, lontane dal trauma della macelleria, forse per questo più commestibili per i nostri gusti ipocriti.
In quest’ottica potremmo dire che vediamo come rovine non solo le parti monche e crollate ma interi complessi integri ma privi di paesaggio e di memoria vivente che mantengano le relazioni originali del loro utilizzo e del loro ruolo nel territorio. Sono quindi per noi rovine, risorse per il futuro, non solo il Colosseo ma la Mezquita, l’archeologia industriale e i versanti terrazzati per colture ormai in abbandono.
Questa generalizzazione non deve sembrare in contrasto con le tesi di Woodward, che assegnano un posto principale, nel fascine delle rovine, al loro senso di incompiutezza. [10] Secondo noi la creatività e l’immaginazione non è stimolata dall’aspetto frammentario quanto dalla formazione di un nuovo paesaggio che si viene a configurare tra l’oggetto del passato e il nuovo contesto (o il nuovo sguardo). Le rovine generano un altro senso, diverso da quello originario, appoggiato sia al diverso contesto in cui sono inserite sia al pensiero e alla cultura rinnovati di chi guarda: in sintesi le rovine si attivano dove si formano nuovi paesaggi.