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a. Uomo e suoi manufatti vs natura
Simmel mette le rovine al centro della relazione tra natura e opera dell’uomo, tratteggiando il sottile fascino delle rovine come seduzione basica della vitalità che supera il blocco pietrificato nel manufatto: ci avvince l’immagine della “natura che supera lo spirito”: una sorta di rivincita della energia naturale rinnovante, che trova modalità di manifestazione diverse e antagoniste alla forma chiusa che la civiltà impone con i suoi manufatti.
E’ evidente che questo effetto dialettico è prodotto da uno sguardo pittorico sul paesaggio: si evocano le innumerevoli tele che, dal manierismo all’800, prima compongono e poi drammatizzano inquadrature con un contesto pacioso d’alberi e acque attorno ai resti leggibili ma non integri di edifici di un’altra civiltà.
Formalmente l’effetto si ottiene per contrasto, tra la natura che “detesta la linea dritta”[4] e i frammenti pietosi di antiche geometrie, ancora forti nel segno ma incomprensibili perchè ormai ridotti a sillabe avulse casualmente dal discorso progettato a cui appartenevano.
Simmel sottolinea che il senso complessivo della rovina è nuovo, non è l’evoluzione del senso iniziale dell’edificio. Con ciò implicitamente non si tratta più di “rovina” ma di “paesaggio con rovine”: la formazione di un nuovo senso è assegnata ad un insieme paesaggistico (d’invenzione), alla relazione tra parti incongrue suscitata dallo sguardo imposto dal quadro.
Spesso si nota la furbizia del pittore di paesaggi d’invenzione, che inserisce “ad arte” nel quadro particolari e contrasti, per lo più centrati sulle rovine: il pastore accampato, il capitello in primo piano, la pecora che bruca tra le colonne cadute. Ma agli occhi dei moderni tali artifici appaiono stucchevoli e finiscono per distogliere dal vero centro dell’attenzione: il senso che le rovine acquistano solo nel paesaggio, non più come protagoniste ma come comprimarie in una relazione casuale con la vegetazione incolta e prepotente, un nuovo significato emergente proprio perchè hanno perso il senso originario come cose in sè, non si leggono più come edificio frutto di un progetto organico.
E’ la rivincita della soggettività dello sguardo, che ricompone a posteriori un nuovo significato dell’insieme del paesaggio, percepibile perchè svelato dalla destrutturazione delle parti che prima imponevano significati a priori, assegnati dall’olismo delle cose progettate. Finalmente la rovina consente di superare il senso “bloccato” del costruito, che quando è intatto si estrae dal contesto: nega la sua appartenenza al senso generale del paesaggio. Solo il tempo, “masticando” gli edifici, ne consente la metabolizzazione nel paesaggio che “in pace” può “digerirli”.
In questa potenzialità di ricomposizione a posteriori si ritrova l’interesse e l’emozione che Barthes assegna al “punctum” delle fotografie. Per Barthes si tratta di ”un dettaglio (che) viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell’impronta di qualcosa, la foto non è più una foto qualunque. Questo qualcosa ha fatto tilt, mi ha trasmesso una leggera vibrazione, […] che mi trafigge al di là della mia superiore coscienza. […] Dal mio punto di vista di Spectator, il particolare viene fornito per caso e senza scopo; il quadro non è affatto ‘composto’ secondo una logica creativa. […] se certi particolari non mi pungono, è senza dubbio perché il fotografo li ha messi lì intenzionalmente. […] Il particolare che mi interessa non è, o per lo meno non è rigorosamente, intenzionale, e probabilmente bisogna che non lo sia; esso si trova nel campo della cosa fotografata come un supplemento che è al tempo stesso inevitabile, non voluto” [5]
Come si legge, l’eccitazione indotta dal “punctum” della fotografia (similmente a quello che accade nel paesaggio reale) è prodotta da una presa del potere del soggetto guardante sul senso. Chi guarda si svincola da ciò che viene proposto e trova una sua via emozionale alla significazione, sfruttando come un free-climber appigli che si incontrano per caso, in modo non preordinato da alcuno e imprevedibile ad una indagine razionale.
Nel visitare un sito archeologico, in quell’incolto dovuto alla trasandatezza e povertà di risorse a cui in Italia siamo abituati, sono infinite le opportunità di percezione delle rovine che possono costituire un “punctum” emozionante, un indizio che rinvia ad una esplorazione intrigante: come affrontando un rebus costruisco un senso nuovo in cose che apparentemente mi dicono altro. E’ importante sottoloineare che il “punctum” eccita perchè non si tratta di ricostruire messaggi razionali (“della superiore coscienza” dice Barthes) ma di cogliere emozionalmente nuovi effetti imprevisti. Siamo al cuore del piacere di esplorare: uno dei motori primi del turismo, la pulsione che (con l’identità e il senso del sacro) spinge al paesaggio.[6]
Insomma le rovine affascinano perchè sono pezzi di uova di cioccolato rotte nella stracciatella del paesaggio: sono materia pregiata per nuove esplorazioni del senso, non banale natura, ancora dotate di una forma suggestiva, ma private dell’aspetto perentorio dell’edificio completo, che impedirebbe una libera interattività interpretativa di chi guarda.
Ma la recita a soggetto si può ampliare ad ogni luogo: i grandi fotografi inseguono continuamente questa sorta di macchie solari nel senso del paesaggio, colgono il segno quando mostrano la falla nel sistema comunicativo progettato, quando le relazioni tra le cose si aprono a nuove interpretazioni. Dunque di fatto Fontana o Jodice ritraggono il territorio come deposito di potenziali rovine, di oggetti apparentemente compiuti che all’occhiuto obiettivo si rivelano in frantumi, pronti a ricomporsi in forme date da nuove associazioni, suggerendo così identità nascoste e sorprese imprevedibili.