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Paesaggi per ri-abitare la montagna

Articolo scritto da Paolo Castelnovi a giugno 2015 per il Giornale delle fondazioni

Dopo 30 anni di oblio, in cui di montagna si è parlato solo per denunciare processi devastanti di abbandono o di violenza territoriale, oggi sembra risvegliarsi un'attenzione attiva, non nostalgica e proiettata al futuro.
Il 22 e 23 maggio due importanti associazioni che guardano al territorio (la Società dei territorialisti italiani e Dislivelli) si riuniscono a Bardonecchia e a Torino per esplorare il tema del Ritorno alla Montagna. Una settimana prima a Demonte, vicino a Cuneo, un gruppo di studenti specializzati in restauro e conservazione, riunitosi in associazione Campo base 1000, ha presentato il progetto di riabilitazione di un nucleo abbandonato, come modello per Ri-abitare la montagna, abbozzando un metodo di intervento adatto in particolare alla "montagna di mezzo", quella più dimenticata.

Dopo 30 anni di oblio, in cui di montagna si è parlato solo per denunciare processi devastanti di abbandono o di violenza territoriale, oggi sembra risvegliarsi un'attenzione attiva, non nostalgica e proiettata al futuro.
Sono start-up isolate e fragili, ma dense di progettualità e di innovazione, solo in parte segnate dal desiderio eroico di vincere con le proprie forze contro processi storici immani. Infatti si sta superando la generazione delle giovani famiglie che con etica protestante abbandonano la città per resistere isolate in quota. I nuovi progetti sono più meditate costruzioni sociali, in cui si studia la sostenibilità economica al pari di quella ambientale.
La sfida romantica dell'impresa prometeica, di abitare luoghi rifiutati contro tutto e contro tutti, sta progressivamente cedendo il passo a progetti d'uso organico del territorio, condivisi almeno da un gruppo di mountain users e progressivamente sempre più diffusi.
In prospettiva la montagna viene pensata come un lembo del tessuto sociale complessivo, non più solo come altro mondo pulito, antagonista ai vizi della pianura. Ma in ogni caso nei nuovi progetti rimane l'imprinting della sobrietà tradizionale e della essenzialità necessaria nella fase di resistenza ideologica precedente.

E' proprio nel paesaggio che permane la struttura profonda dell'abitare in montagna, resiliente agli abbandoni, ai manifesti ideologici, al passare delle generazioni che sempre meno sono legate alle tradizioni contadine.
Il fattore strutturante dell'abitare in montagna è una relazione sapiente tra uomo e natura. E' una conoscenza che si consolida nell'esperienza diretta, faticosa, quotidiana, che per secoli si è praticata nel lavoro, ma che prosegue nello stile alpino degli scalatori, caro a Messner. E' un sapere che permea il modo di essere, che traversa le culture di tutto il mondo, mobilita per la solidarietà con i Nepalesi atterriti dal terremoto e fa amici tra i nativi di Machu Picchu.

Ci si basa su alcuni principi del tutto fuori moda, che costituiscono una sorta di stile di vita:
- l'umiltà del porsi nella relazione fondamentale con la natura, costantemente consapevoli del suo predominio fondamentale, che il modo di abitare deve il più possibile assecondare e non contrastare;
- la tenacia dell'impresa, che richiede sia per il lavoro che per l'ascensione un costante e duraturo processo di azioni, mai affrettato ma mai rinunciatario;
- la strategia del collettivo, un investimento distribuito sulla comunità, necessario per fronteggiare l'arduo compito di gestione di una natura ostica e capace di attivare un efficace sistema di solidarietà nei frequenti casi d'urgenza.

Oggi leggiamo ancora distintamente questi principi nei luoghi dell'abitare montano, quale che sia l'evoluzione recente che hanno subìto.
Infatti, per quanto riguarda l'umiltà, il paesaggio disegnato dall'uomo che abita la montagna risulta in ogni caso come un ritaglio inserito nel paesaggio disegnato dalla natura: tanto che il senso comune dei luoghi è offeso quando il segno dell'uomo prevale o si pone come prepotente rispetto alla natura.
D'altra parte la cura dei luoghi impegnativa e costante (dal contenimento del bosco, fino alla regimazione delle acque, dal consolidamento dei versanti, fino alla ripassatura dei tetti) salta agli occhi ora che manca, ora che il ritmo delle manutenzioni, tradizionalmente lento e tenace come il passo montanaro, è cessato. Al nostro sguardo il paesaggio montano tradizionale è reso vivace solo dall'azione contadina, e appare morto se questa manca, tanto che la riconquista del bosco sui terreni coltivati o tra le case assume per noi toni drammatici e negativi anche se mostra una superba vitalità dell'ecosistema naturale: è il segno del fallimento dell'impresa di abitare.
Infine nel paesaggio montano risalta il segno insediamento come bene comune e tutto racconta di norme condivise e di corvée abituali svolte per gli abitanti e per i visitatori: l'accrocco degli edifici è privo di recinzioni; i pochi edifici specialistici sono legati a pratiche comuni: il forno, la fontana, la chiesa; i sentieri e le acque regimate sono tracce continuamente ritracciate con il lavoro di tutti; il lavoro del bosco e del pascolo è ancora oggi organizzato su basi comunitarie (tanto che in Val di Fiemme i boschi sono della Magnifica Comunità).
Se si tengono presenti questi principi fondamentali, regole non scritte ma incise nell'etica di chi abita la montagna, si riescono a spiegare dinamiche sociali altrimenti poco comprensibili. Come per la diffusione del modello "decrescita felice", che alligna più facilmente nelle "aree interne", non urbane e senza agricoltura intensiva, in Italia prevalentemente montane. Oppure come per la mobilitazione che anima la parte civile della protesta NO-Tav, consolidatasi nel tratto vallivo e totalmente assente nelle altre tratte. In montagna è facilmente prevedibile una reazione di chiusura di fronte a modalità di intervento esogene, non tanto geograficamente, quanto in termini culturali e antropologici. Infatti la discussione sul progetto ferroviario si è sviluppata su temi e con modi del tutto incompatibili con i valori di riferimento degli abitanti la Val di Susa. All'emergere dei problemi ambientali e paesistici, si è puntato su soluzioni di forza o di mediazione come la minimizzazione del danno o la sua monetizzazione: linguaggi a cui si è abituati in pianura, ma totalmente estranei ai principi di sobrietà, umiltà, tenacia e senso del bene comune.

Al contrario i programmi per ri-abitare la montagna che si discutono in questi giorni sono animati da un piglio del tutto coerente con lo spirito del paesaggio montano:
- sostenibilità ambientale ed economica, forse solo nel medio periodo, ma duratura e resiliente, fondata su una pluralità di fonti di reddito (integrando equilibratamente agricoltura, turismo soft e attività sportive) e su una radicale ottimizzazione dei consumi, e soprattutto sul coinvolgimento di forze giovani per costruire e lavorare, oltre che per abitare e per utilizzare i luoghi saltuariamente;
- forte collaborazione interdisciplinare nel programma e nell'intervento, che comprende le competenze agronomiche e ambientali, quelle storiche e antropologiche e quelle tecnologiche del buon costruire; un insieme organico, che cerca soluzioni integrate per le localizzazioni, le strategie manutentive, lo sfruttamento delle specificità locali per inventare nuovi usi e nuove produzioni;
- rigorosa sobrietà delle architetture, adattando dove possibile e ricostruendo dove necessario, con tecnologie innovative ma adatte e specifiche per il luogo, dove la continuità con la preesistenza è parte fondamentale del progetto e per ottenerla contano non tanto canoni da restauro quanto una reinterpretazione delle relazioni identitarie tra le parti del paesaggio naturale e di quello manufatto, della grana dimensionale e dei materiali dei nuovi interventi.

Così i nuovi progetti fanno emergere dai territori più abbandonati le strutture profonde del paesaggio, fonte di innovazione e di rinnovamento, come le vestigia romane per gli artisti rinascimentali. La montagna continua ad insegnare.

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