In vastum stat virtus (politicae)
La metà delle province italiane con la migliore qualità della vita è in ambiti con piccole città e reti di collaborazione: non è un caso. Ma non sappiamo impostare una politica e una regia istituzionale per quella dimensione territoriale, dopo il fallimento delle province.
Come i più raffinati demolitori di grattacieli il referendum costituzionale demolisce con poche cariche interi edifici istituzionali costruiti con pazienza e fatica. Quando si abbasserà il polverone dei dibattiti su chi ha vinto e chi ha perso si vedrà un mucchio di rottami dove sino ad ora stava una struttura funzionante, anche se con i suoi acciacchi e le sue necessità di manutenzione. Già, perché comunque abbiamo imparato, con un corso accelerato di confronti tra ragioni opposte, che l'assetto istituzionale attuale non funziona, ma anche che la riforma proposta non sta in piedi. Neanche il più machiavellico rottamatore sarebbe riuscito nella pars destruens come quella che hanno prodotto sei mesi di scontri elettorali a par condicio.
Quindi ora ci tocca una magnifica fase di ricostruzione.
Come dopo un terremoto si comincia da un inventario dei danni.
Qui vorrei ragionare su un danno grave di cui poco si parla: la scomparsa dell'area vasta come luogo di esercizio della politica.
Da riformatori ci siamo accorti che la base identitaria della cittadinanza sta nelle città (nomen omen), e che d'altra parte Italia è ancora un termine significativo politicamente, bene in salute dopo l'acne federalista. Ci siamo accorti che gli enti intermedi (le province, ma anche le regioni e tutto il resto) non sono rappresentativi di sensi identitari compiuti e che quindi facilmente albergano inefficienti e profittatori, che non hanno un diretto riscontro nell’opinione della gente.
Credendoci novelli Alessandri da riformatori abbiamo menato fendenti pensando che i nodi malfunzionanti della macchina istituzionale si potessero mettere a posto a colpi di spada.
Così aboliamo le province e già che ci siamo le comunità montane, riduciamo la capacità di governo regionale e tutto ciò che ci allontana dal dualismo comune-stato.
D’altra parte non si può pretendere che un guidatore di caterpillar demolitore sia anche un buon costruttore. Così non possiamo stupirci quando non si sa bene che fare se ci accorgiamo che 5000 comuni con meno di 3000 abitanti non reggono neppure i compiti elementari di servizio minimo di cittadinanza, che le grandi città non stanno più dentro i confini amministrativi storici del comune capoluogo.
Le terapie messe in campo sono fallimentari ancor prima di entrare in funzione: le Unioni di comuni minori, obbligatorie entro breve, sono luogo di risse e caotiche alleanze trasversali tra centri distanti fisicamente ma dello stesso partito; le Città metropolitane, a dieci anni dalla istituzione, non funzionano e hanno le periferie in rivolta a fronte di sindaci del capoluogo che rispondono ovviamente solo ai loro elettori e sono sentiti come feudatari dai comuni di cintura.
Ed è solo la punta dell'iceberg: ci riempiamo la bocca di sviluppo sostenibile e facciamo finta di non sapere che non c'è strategia di sviluppo sostenibile che non abbia basi locali, e che non c'è sviluppo locale se non in ambiti d'area vasta, ben superiori alle dimensioni comunali. E qualche forma istituzionale dovrà ben rappresentarli quegli ambiti d’area vasta, se sono così importanti per il futuro dei nostri servizi e delle nostre imprese.
Tra le mille ingenuità del nuovo progetto istituzionale di governo del territorio, la mancanza di un robusto anello tra Stato e Comune è forse la più deleteria.
Temi strategici come i servizi superiori e i distretti produttivi, le reti ambientali, energetiche, di comunicazione, il paesaggio, hanno bisogno di scelte e capacità gestionali non al livello delle regioni, che vanno assestate ma svolgono bene o male il loro compito, ma al livello più basso, dove il comune non arriva a generalizzare, per sua natura, e lo stato o la regione non possono specificare, per loro natura.
Ci manca capacità di visione per il futuro dell’area vasta, quella dimensione locale divenuta importante nella post modernità, quando gli effetti urbani si sono espansi sul territorio senza più fare città, quando i trasporti facili hanno minimizzato le differenze tra vita e produzioni in centro e in periferia. E’ un livello strategico così riconosciuto che ormai in molti paesi è l’unico modo dei comuni per accedere a investimenti fondamentali, europei o statali.
La soluzione per il governo di questi aspetti è difficile da trovare: nei paesi transalpini si prova con agenzie tecniche, pagate dal centro ma al servizio delle periferie, per affrontare temi trasversali di settore, come il governo dell'ambiente e del paesaggio, i distretti sanitari (o industriali o turistici). Sono operatori tecnici che ormai da due generazioni aiutano i comuni e gli imprenditori locali a coordinarsi su base territoriale per sviluppare programmi e piani comuni di settore.
Ma come sempre la soluzione tecnica è implicitamente una scelta politica. Alla prima generazione nelle prestazioni delle agenzie ha prevalso la base statistica e l’impostazione standardizzata delle soluzioni, sottolineando l’interesse nazionale ed europeo a unificare i comportamenti locali secondo modelli predefiniti. Recentemente si sono modificati gli orientamenti e le agenzie sono più indirizzate a favorire i processi di cooptazione, a promuovere la partecipazione, ma ci si affida sempre a gerarchie decisionali consolidate, dove i centri di comando sono prestabiliti e le loro scelte prevalgono sulle altre. Le città maggiori sono l’anello forte di questa catena di comando e prevalgono sul territorio circostante.
Ora in Italia viviamo un periodo di allergia profonda alle soluzioni standard che vengono dall’alto, e le città capitali sono vissute come “alto” dagli altri centri.
Non è solo ideologia: qualche dato di realtà dà ragione alla rivolta contro il comando centrale e delle città maggiori. Ad esempio in questi giorni è uscita l’attesa classifica della qualità della vita nelle province italiane (ItaliaOggi-Università La Sapienza).
Le prime 10 province sono nell’ordine Mantova, Trento, Belluno, Pordenone, Siena, Parma, Udine, Bolzano, Vicenza, Lecco (tra 1000 e 800 punti, dove Bologna ne prende 550, Milano 480, Torino 350, Roma 230). Come sempre sino ad ora i primi posti sono occupati da territori diversissimi, governati da partiti diversi, ma uniti dall’essere fatti di medie, piccole e piccolissime città, lontani dalle aree metropolitane (e al nord, salvo Siena). Sono territori con lunga tradizione di autonomia, spesso policentrica, equilibrio storicamente consolidato tra i centri e le periferie, solida cooperazione tra pubblico e privato. Lì si è sviluppata una capacità laica di sperimentazione delle possibilità offerte dalle leggi e dalle strategie centrali europee e statali per ottenere risultati utili a tutti nel territorio ritenuto proprio. Da quelle parti spesso si riesce a sentire come proprio non il Comune, ma un ambito più vasto, perché si è abituati a fare politica muovendosi in un sistema di relazioni paritarie tra grandi e piccoli centri, nella convinzione che tutti si serve a qualcosa, entro un disegno condiviso.
E’ questa dimensione del “territorio proprio” che va studiata, per capirne le qualità virtuose per i modi con cui sono gestite le risorse e i servizi. Forse a quel livello e da quelle parti possiamo trovare le consuetudini di una competenza politica nuova (e antica) di rispetto tra le parti, di complementarità, di strategie di lunga lena che ricercano equilibri più che competizioni.
Proponiamo un laboratorio politecnico, nel senso che ne dava Vittorini, che guardi alle buone pratiche politiche delle province meglio assestate e ne faccia un modello di accompagnamento delle istituzioni. Prima che gli accompagnatori diventino badanti.