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Il paesaggio culturale, il paesaggio cognitivamente perfetto della Geo-grafia, il paesaggio narrativo a valenza estetica, la sfida dell’ineffabile, per una semiotica del paesaggio narrativo-estetico, il paesaggio mitico, la polisemia come valore.
Il paesaggio culturale
Nel trattare di “polisemia del paesaggio” prenderò spunto dalla nozione di paesaggio culturale, che, come noto, è stata resa di particolare attualità dalle recenti politiche dell’Unione Europea mirate proprio alla tutela e alla valorizzazione dei “paesaggi culturali”. Tra polisemia e cultura del paesaggio esiste infatti una stretta relazione, poiché l’ampiezza e l’eterogeneità dell’orizzonte polisemico del paesaggio dipendono appunto dalla cultura che di esso abbiamo.
Per il vero, nei documenti dell’Unione Europea che ho avuto modo di consultare (Conseil de l’Europe 1997), non esiste una definizione precisa di ‘paesaggio culturale’, anche se la si può indirettamente evincere dalla lettura dei documenti stessi. Dall’opposizione che in essi si fa tra ‘paesaggio naturale’ e ‘paesaggio culturale’ si può infatti dedurre che questo sarebbe il paesaggio formato dai segni impressi dall’uomo; paesaggio, dunque, inteso come espressione materiale della cultura della società che lo ha abitato e che lo abita; paesaggio che cesserebbe là dove quei segni, non essendo leggibili, lasciano il posto solo più ai segni della natura intatta, cioè appunto, al ‘paesaggio naturale’. In questa accezione il paesaggio culturale è riconducibile al concetto antropologico di “cultura materiale di una civiltà” (Cantoni 1963) o a quello storico di “documento-monumento” (Le Goff 1978) o di “memoria artificiale” (Leroi-Gourhan 1964-65).
È appena il caso di osservare che, se pure c’è stato un momento della storia in cui la cultura si è più energicamente dissociata dalla natura, nel mondo d’oggi, dove non vi è più luogo che non porti una qualche traccia delle azioni umane (non foss’altro per l’inquinamento globale che riguarda ormai ogni più remoto angolo dell’ecosfera), il confine tra natura e cultura è irrintracciabile. Forse in nessun’altra epoca la natura dove ancora abbiamo agito più debolmente è stata così carica di significato e di valore, divenendo, a tutti gli effetti, un imponente ‘fenomeno culturale’. È tuttavia evidente come qui la parola ‘culturale’ appaia in un significato diverso da quello precedente, non più come ‘cultura materiale’ in senso antropologico, ma come cultura in senso semiotico, secondo cui tutto il paesaggio, indipendentemente dal fatto che sia stato o che sia abitato è ‘segno’, è fenomeno di significazione e dunque cultura: il paesaggio si fa cultura nel momento stesso in cui lo si carica di significati. Se di paesaggio possiamo parlare è perché abbiamo trasformato la percezione di una porzione di mondo in un complesso di significati; e che cos’è la nostra cultura se non il complesso dei significati che attribuiamo al mondo?
Evidentemente le due definizioni non sono alternative, poiché quella semiotica comprende al suo interno quella antropologico-culturale: essa è più estensiva in quanto considera tutti i significati che la nostra cultura attribuisce ai possibili significanti del paesaggio e non solo i significati di quei segni che sono stati impressi dall’uomo sulla faccia della Terra.
Dovendo trattare di ‘polisemia’ del paesaggio, la definizione semiotica consente dunque di affrontare il tema nella sua massima estensione: quali sono i significati che la nostra cultura carica su quelle porzioni significanti di mondo che chiamiamo paesaggi?