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Paesaggi terapeutici per perdersi nella contemplazione
Gogol malato nel 1842 scrive ad un amico: ‘... non vedo l’ora che giunga primavera, e il momento di ritornare alla mia Roma... Vieni dunque una volta, sia pure al tramonto dei tuoi giorni, a Roma, sulla mia tomba,s’io non sarò più tra i viventi. Dio, che terra! Che terra di meraviglie! Che refrigerio ti dona all’animo!’.
Due anni prima aveva scritto un racconto, intitolato “Novella italiana”, e poi “Annunziata”, e poi “Roma” (un vero scritto “di paesaggio”, denso di passioni per i luoghi e la loro aura).
Nel racconto si narra di un giovane principe romano inquieto che viene mandato a crescere in giro per l’Italia e a Parigi, torna venticinquenne alla riconquista della sua città e rimane folgorato dalla bellezza di una ragazza, Annunziata, vista per strada. La cerca e la fa cercare in modo affannoso, girando a vuoto e sempre più alterato, accompagnato da un domestico a cui sta per chiedere di darsi da fare per recuperarne le tracce, quando alza la testa e dalla piazzetta di S. Pietro in Montorio guarda: ‘Il sole si inchinava verso la terra, il suo raggio si era fatto più vermiglio e più caldo su tutta la massa architettonica; la città più vivida e vicina; i pini divennero più neri; i monti più azzurri e fosforescenti; l’aria, prossima a spegnersi, più bella e solenne. Dio, quale vista! Il principe, affascinato, dimenticò se stesso e la bellezza di Annunziata, e il misterioso destino del suo popolo, e tutto quello che esiste al mondo.’ Fine.
Oltre ogni certezza dell’abitare e ogni brama dell’esplorare e del conquistare luoghi e persone sta il dimenticarsi di sè e delle proprie ansie. Questo ci dicono da sempre gli orientali; per loro sono regole di vita, pratiche quotidiane. Ma per noi, malati di insicurezza e di aggressività, servono rimedi e cure ad hoc: anche qui servono particolari paesaggi terapeutici, a cui ricorrere nei frangenti più disperati, quando le nostre contraddizioni si fanno più assillanti.
E’ in qualche modo sorprendente che la legge italiana parli di paesaggio per la prima volta proprio per assicurare qualche luogo che rechi questo tipo salutare di emozioni: le leggi del 1939 pensano alla tutela del patrimonio per i beni culturali, per la necessità sociale di consolidare le testimonianze, ma pensano al paesaggio come salvaguardia del diritto di contemplazione, lussuosa pratica salutista della propria sensibilità che gli italiani si possono permettere, avendo a disposizione migliaia di skiline di città, di tramonti, di profili montani e boscosi che lasciano ciascuno a bocca aperta.
La tutela della contemplazione però si ferma qui: chi è capace di perdersi nel piacere del paesaggio se la goda, pare dire l’autorità, io garantisco solo la sopravvivenza del punto di vista, della situazione locale che può innescare quel difficile evento psicologico.
Credo che si debba andare un po’ oltre, si debba capire quali siano gli effetti che favoriscono il senso della contemplazione, dimentica di se e degli altri. Quali fattori scatenino il perdersi, almeno rispetto alla proprie storie e contesti, in modo che ciò non abbia effetti negativi, di sgomento e di ansia ma sia piuttosto positivo, terapeutico senso di misura della inanità dei nostri affanni.
In parte è certamente un fattore culturale: a perdersi di fronte ad un paesaggio si impara, come si impara a non trattenere le proprie paure ed ansie davanti ad un amico o ad uno psicoanalista.
Qualche insegnante di tutto rispetto c’ha pensato: Wittgenstein ad esempio
Mostro ai miei allievi frammenti di un paesaggio smisurato, dove è impossibile per loro orientarsi,
oppure, in modo più meditato ed organico, Celati:
Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita.
In ogni caso si richiede a chi guarda di arrendersi alla complessità: Paul Klee, a margine del suo ultimo disegno, scrive:
Bisogna che tutto sia conosciuto? Ah, io non credo.
Leopardi prova, nei mesi attorno all’emozione dell’Infinito, a dare una spiegazione psicologica, in un appunto sullo Zibaldone:
Il sentimento che si prova alla vista di una campagna o di qualunque altra cosa vi ispiri idee e pensieri vaghi e indefiniti, quantunque dilettosissimo, è pur come un diletto che non si può afferrare, e può paragonarsi a quello di correre dietro ad una farfalla bella e dipinta senza poterla cogliere: e perciò lascia sempre nell’anima un gran desiderio: pur questo è il sommo de’ nostri diletti, e tutto quello ch’è determinato e certo è molto più lungi dall’appagarci, di questo che per la sua incertezza non ci può mai appagare.
In modo più retorico, ma consapevole del processo emozionale che richiede una grande disponibilità psicologica Baudelaire e Friedrich, inconsapevoli l’uno dell’altro, scrivono, il primo:
“Davanti al paesaggio gli occhi dell’anima colgono ciò che gli occhi non possono cogliere”. L’altro:
“Chiudi il tuo occhio fisico così da vedere l’immagine principalmente con l’occhio dello spirito”
Dunque la terapia della contemplazione è facilitata dall’esperienza del paesaggio che rende possibile sopportare e anzi farsi forti dell’incertezza, del distacco, della lontananza. E’ una magica sospensione del processo conoscitivo per rendere possibile un altro tipo di esperienza in paesaggi che diventano astratti, di impossibile comunicazione, paesaggi la cui mappa sia ancora quella del mare che Carroll ha fatto per Alice: un foglio bianco.
Tenendo conto che il perdersi è una terapia ma come ogni esperienza forte genera anche l’ultima malia: è la nostalgia del perdersi, è l’occhio umido del vecchio che stava fermo su un molo a Sestri guardando un mare invernale e quando io ragazzo ho chiesto perché piangeva m’han detto ninte, ninte, u l’ha u maa daa maina.