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Strategie per il benessere nel paesaggio: abitare, esplorare, contemplare

Indice

Paesaggi terapeutici per dare luogo alla ricerca di altro

 

 

Il riconoscersi in luoghi durevoli e fatti “nostri” con un lavoro consapevole e una fatica manutentiva soddisfa il desiderio di protezione, postulato base dell’abitare. Ma nel mito d’Ulisse si descrive un equilibrio e una salute “olistica” raggiunta solo nell’insieme della vita dell’eroe, per il quale l’abitare pacificato costituisce il riposo del guerriero, conquistato a partire da una capacità originaria di appropriarsi del paesaggio, ma poi raggiunto con un lungo processo di ritorno, da luoghi altri rispetto all’abitare.  Il paesaggio del ritorno ad Itaca non basta in sè a spiegare la potenza del mito. Per una completezza del protagonista manca comunque la prima puntata: manca l’Iliade, l’epica del partire per l’impresa di guerra.  Per noi manca il paesaggio che soddisfi la mobilità, che dia campo all’irrequietezza del nostro essere cittadini del mondo.

In ogni caso, per Ulisse come per noi, la rassicurazione è solo un verso della medaglia dell’abitare il mondo, che reca sull’altra faccia l’esplorazione: una parola che nell’etimo ha impresso il senso del fluire, dello scorrere senza meta, fuori.

Bachelard, dopo molti intensi capitoli centrati sulla Casa, dedica un intero capitolo della sua Poetica dello spazio alla “dialettica del fuori e del dentro”, evidenziando la complessità simbolica del tema dei confini, della porta e in fin dei conti, del rapporto con l’Altro da sé.

Il bisogno di confrontarsi con l’Altro da sé è individuato dagli psicologi come la forza puissante della crescita del bambino, il motore del suo prender posto nel mondo. Piaget riconosce tale pulsione elementare come relazione fondamentale nella struttura stessa del rapporto psicologico con lo spazio.

D’altra parte la curiosita è lo strumento più organico della "strategia di Peter Pan", quella condizione psicologica che Carotenuto mette tra gli ingredienti base del benessere psichico di ogni età.

Sulla spinta della stessa pulsione miliardi di persone nell’epoca post-rurale sentono il bisogno personale e sociale di conoscere altro oltre al proprio paesaggio, di aggredire culturalmente luoghi e codici diversi da quelli conosciuti, e alcune centinaia di milioni tra i più fortunati dedicano le loro risorse di tempo e di denaro al “turismo culturale”, che è poi una forma adulta dell’esplorazione infantile e adolescenziale, del Peter Pan che coltiviamo dentro di noi.

Si risponde così ad un bisogno profondo, non elementare ma evoluto e complesso, a cui si dedicano ingenti investimenti e la parte più pregiata del proprio tempo, quello scelto in quanto “libero”.  I sociologi dedicano poca attenzione a questo aspetto della qualità della vita moderna, spesso sottovalutato nelle politiche del welfare perché non comporta questioni di vita o di morte, né rimedi a disagi acuti e concentrati. Ma in realtà è un fenomeno così rilevante che quando il governo tedesco, in tempi di magra dell’economia nazionale, invita il proprio elettorato a ridurre le vacanze all’estero, suscita molte più proteste di quando alza le tasse.

Certo non tutte le vacanze sono desiderate per soddisfare il bisogno di esplorazione: una quota considerevole dei viaggi deve essere interpretata come rimedio al mal d’abitare, prodotto della fuga dal paesaggio deprivato delle periferie senza cielo e senza natura, dalla sensazione di appartenere ad un nebbioso Truman show. In ogni caso la terapia a fronte di questi bisogni non sta solo nel viaggio, nella brama di un benessere fisico e del contatto con gli elementi naturali, ma anche nella ricerca di alternative al banalizzato, nel trovarsi alle prese con l’insolito, nel provarsi con l’imprevisto, nel tentare di padroneggiare spazi e relazioni non prestabilite.

Nell’esplorazione, molto più che nelle pratiche dell’abitare quotidiano, porgiamo attenzione ad aspetti normalmente trascurati, traduciamo in pensiero fattori di senso che normalmente percepiamo senza riflessione, sedimentiamo nella memoria gran parte delle immagini che poi diventano i nostri atlanti personali. Addirittura alcuni, come Quaini e Raffestin, ciascuno a suo modo, sostengono che il Paesaggio consista proprio in questo processo di attenzione, in cui il desiderio di conoscenza, una volta consumato in esperienze depositate, viene metabolizzato nelle rappresentazioni della memoria e progressivamente nelle immagini condivise socialmente.

 

Quali i paesaggi per l’esploratore? I grandi esploratori, nella loro pratica descrittiva, di disvelamento di pezzi di mondo sconosciuti, hanno iniziato l’erosione del campo sterminato oggetto della curiosità geografica, della meraviglia, che forse appare oggi ridursi a zero nel nostro mondo di comunicazione onnivora.

Ma il desiderio di esplorazione continuamente si riapre sugli stessi siti appena ordinati e resi noti da altri. Il mondo è la sede, ma l’azione è tutta personale, ed è appoggiata alla curiosità: si possono eleggere a luoghi di stupore e di interesse territori appena oltre la porta di casa. Non sono utili solo i paesaggi cercati dal capitano Cook o dal dottor Livingstone, ma anche quelli di Hukler Finn e di George Perec.  Certo tutti gli esploratori, personaggi o persone che siano, hanno necessità di una qualche sostanza sfuggente del paesaggio, di nicchie, di ombre che suscitino interesse e curiosità in loro, solo in loro. L’esplorazione è esperienza solitaria, si gode l’esclusivo tête à tête con la parte meno polita e trasparente del mondo, scoprendo il coperto, rivalutando il trascurato, riportando alla luce il dimenticato.

Farinelli sostiene, per altro, che è la natura stessa del paesaggio ad essere resiliente, il residuo che permane infinitamente, in ciò che non è riprodotto nella carta che l’ultimo esploratore ha redatto, e che è quindi sempre disponibile alla scoperta e all’esplorazione.

D’altra parte l’esplorazione è più proficua, per il benessere personale, quando si rivolge ad aspetti sconosciuti del “proprio” territorio: quando si verificano, come dice Saramago nel Viaggio in Portogallo (citato da Quaini nell’ Ombra del paesaggio):

 

... emozione e adattamento, riconoscimento e scoperta, conferma e sorpresa. Il viaggiatore ha viaggiato all’interno del proprio paese. Il che significa che ha viaggiato all’interno di se stesso, per la cultura che lo ha educato e lo sta educando.....’

 

Insomma l’esplorazione è un atto della conquista del mondo, che ci fa sentire bene se ne ri-conosciamo i tratti come quelli di un “nostro” paesaggio, qualcosa che si aggiunge e si incastra come una tessera di puzzle nella costruzione memoriale che rappresenta la nostra identità.

Per l’esploratore puro, che si misura con un mondo davvero altro dal suo, l’incastro delle percezioni sconosciute con la propria storia è prevalentemente metodologico: riesce in particolare all’illuminista che, forte della ragione educata all’indagine, descrive il mondo sconosciuto nominandolo, come un nuovo Adamo. Le tavole del Chimborazo di Humboldt sono l’esempio più splendido dell’esercizio di ricomposizione del mondo secondo la forza ordinatrice del pensiero occidentale, tonico e ricostituente per il modello di sviluppo dominante per i due secoli successivi (come sottolinea spesso Farinelli).

Una seria riflessione sulla cultura del paesaggio da far riaffiorare, da riscoprire perché è già implicita nella nostra base culturale, di europei scassa-ambiente, potrebbe addirittura essere terapeutica non solo per il benessere personale ma per quello di un’intera civiltà, alle prese con una sindrome di amore-odio con madre-natura, in cui fingiamo di non sapere da dove veniamo. E’ quanto sostiene Simon Shama nell’introduzione al suo magistrale saggio: ‘“Paesaggio e memoria” vorrebbe appunto essere un modo di vedere, di riscoprire ciò che già possediamo ma che in un certo senso elude il nostro sguardo e la nostra comprensione. Anziché un’ennesima spiegazione di ciò che abbiamo perduto, è un’indagine su ciò che possiamo ancora trovare.’.

Dunque l’atteggiamento esplorativo trova nei paesaggi il terreno più fertile per la sua curiosità, e nei territori apparentemente domestici materia per paesaggi da riscoprire, seguendo una traccia difficile, elitaria, ma di grande rilevanza per l’equilibrio personale e per la ricchezza culturale del proprio tempo.

 

Per chi crede di aver per mestiere il facitore di luoghi (che come sappiamo si fanno da se stessi, ma noi architetti fingiamo di esserne gli autori) è una sfida progettare spazi per l’esplorazione, situazioni in cui più facilmente avvenga di soddisfare quel desiderio di paesaggio “altro” che ci spinge a nasare in giro.

Le difficoltà provengono da una parte dalla materia stessa che desta la curiosità, dalla complessità di impossibile progettazione della città e del territorio che stimola l’esplorazione. D’altra parte pesa la difficile educazione dello sguardo, la sempre meno spontanea “competenza ad esplorare”, storico strumento virtuoso dell’Occidente, che si sta ottundendo nel nostro tempo.

Dunque bisogna far città e luoghi per ri-suscitare il desiderio di esplorare. Bisogna risalire la china di alcune generazioni di progettisti indirizzati a produrre città sicure, funzionali, anche se non invitanti, noiose, prive di segni se non nei luoghi deputati: terra bruciata per gli esploratori.

Per facilitare paesaggi d’esplorazione si deve dedicare il progetto ad un alleggerimento del suo stesso peso, della definitività del suo segno, bisogna lasciare spazio al deposito casuale, al residuo non progettato, all’evoluzione lenta, all’accumulazione di nuovi sensi e significati nel sistema “poroso” del paesaggio marginale. E d’altra parte bisogna che tutti ci rieduchiamo all’avventura, a comportamenti non standardizzati, a figli con tempo e spazio davvero libero e a nipoti sempre più capaci di capire e di godere direttamente del mondo, senza intermediazioni.

Alcuni spunti sono già presenti nel dibattito sulla città e sugli spazi aperti e in recenti esperienze abbastanza diffuse, che potrebbero favorire un nuovo rispetto per i paesaggi d’esplorazione, urbani e non:

-  tener da conto, nella loro paradossale “integrità” le fasce marginali della città e delle infrastrutture, i luoghi dismessi, i bordi non progettati, i luoghi dove i tempi della natura prendono adagio adagio il sopravvento, a cui Gilles Clément dedica il suo Manifesto del Terzo paesaggio,
-  restituire la città e il suo intorno ai bambini, ma non tanto per farne un nido securizzato e sotto controllo (questo sarebbe consegnare la città alle ansie dei genitori), quanto per farne il luogo della scoperta e il campo di esplorazione sin dai primi anni, come si prospetta da tempo nelle esperienze in molte località europee, sulla scorta di inquadramenti strategici come quello di Francesco Tonucci,

-  favorire i comportamenti e gli spazi dell’incontro imprevisto, della serendipity, a partire dalla città, come delineato da Arnaldo Bagnasco, ma anche posto al centro di un vero e proprio manifesto per una Serendicity da Antida Gazzola,
-  difendere la diversità paesistica, dell’offerta territoriale e della complessità degli sguardi, non solo come risultato della ricchezza dell’ecosistema e della testimonianza storica, ma come pluralità di risorse culturali operanti, di cantiere aperto delle interpretazioni e degli utilizzi, in cui le attività e i comportamenti vivaci e multiculturali degli operatori e dei fruitori costituiscono parte stessa del paesaggio pregiato (come la piazza del mercato di Marrakech, patrimonio Unesco per le proprie attività, o come era, sino a qualche decennio fa gran parte delle nostre città mediterranee per i visitatori nordeuropei).

    Si tratta di linee strategiche tutte da elaborare, da versare al paesaggio, che comunque vengono da spunti di psicologi, sociologi, ecologi. Sono ottiche che presentano una forma avanzata di domanda, rispetto alla quale l’offerta degli architetti, dei progettisti appare autoreferente e molto inadeguata, vittima di ideologie del costruito, del definitivo, e di superbie di casta che impediscono di ascoltare gli appelli alla modestia del progetto, al mantenimento di spazi per l’indefinito. Ci viene continuamente suggerito che la vera pietra di fondazione dell’esplorazione “domestica” non viene mai posata in un progetto ma deve essere trovata, rinvenuta per caso, dietro gli spazi progettati.