Primi output del nuovo settore “Periferie urbane” del MIBACT
Una mostra a Roma invita ad una riflessione interessante sui quartieri residenziali pubblici degli ultimi 50 anni. Ne sortisce una lezione di impegno di una intera generazione di tecnici, oggi quasi trascurata.
Sembra un altro mondo, ma in un’era a noi vicina un’intera leva di tecnici e di politici hanno concentrato le loro energie e le loro progettualità sul “tema della casa”. Proprio quel costruire case, che oggi criminalizziamo chiedendo moratorie al consumo di suolo, leggendone solo gli aspetti catastrofici, fonti di crisi finanziarie e di dissesti ambientali epocali. Quel costruire case è stato sino a 20 anni fa un argomento di discussione e di verifica della possibilità di indirizzare a fini sociali l’edilizia, una delle attività produttive cardinali del nostro sistema economico.
I piani INA casa, i programmi Gescal, la legge sulla casa hanno dato luogo a programmi di investimenti pubblici significativi, tra i pochi al centro del dibattito politico e delle strategie per il welfare del dopoguerra, sino ai primi anni ’90. Poi l’indirizzo delle risorse dello Stato su altri temi, la promozione sfrenata della casa in proprietà, la destrutturazione del sistema cooperativo. Poi il silenzio.
Da vent’anni nessuno si è più preoccupato di verificare se era ancora necessario rispondere ad un bisogno sociale di casa, per dare spazio a quello che ormai dagli anni ’70 era stato sancito come un diritto. Avran creduto: roba da Prima Repubblica…
Partendo da tutt’altre esigenze, il Ministero dei Beni culturali si è accollato recentemente un tema complicato, titolato “Periferie urbane”. Ci si accorge di dover studiare non solo criticamente ma anche in modo propositivo, per trovare buone pratiche di qualificazione, in un ambito gigantesco, oceanico, come la grande espansione urbana del secondo dopoguerra, sino ad ora colpevolmente trascurato dagli architetti e dalle varie culture del contemporaneo.
Per inaugurare questa nuova e benemerita strategia d’interessi culturali, il Ministero ha mirato giustamente ad una lettura trasversale centrata sugli interventi pubblici. Una volta tanto non si parte dalle anime belle che realizzano progettini modello in qualche piazza metropolitana, ma ci si misura col lavoro sporco, quantitativamente rilevante, con la produzione “ordinaria” di case che gli enti hanno gestito negli ultimi 60 anni.
Dunque Franceschini inaugura il 14 aprile all’Archivio di Stato di Roma Alla ricerca di una città normale, una mostra che raccoglie, documenta e invita a riflettere su una sessantina di quartieri residenziali realizzati negli ultimi 50 anni in tutta Italia, con investimenti pubblici.
Si scopre, visitando la mostra, che due generazioni di architetti si sono fatti un punto d’onore nel cimentarsi con il tema della casa, declinandolo come il luogo centrale della vita urbana e accettando di partecipare fattivamente al dibattito sociale e politico in corso.
Si è trattato in tutti i casi di prove ardue, in cui la qualità del progetto si misurava non negli effetti formali da fotografare, ma nella capacità di rispondere contemporaneamente a diversi requisiti: proporre modi di abitare innovativi ma graditi ai nuovi abitanti, massimizzare le funzionalità con costi fissi e ridotti, vincere la sfida dimensionale del dare soddisfazione alle esigenze di molte centinaia di famiglie per volta.
In molti casi l’intero sistema di relazioni complesse e socialmente strutturanti della città è stato preso in carico nei progetti dei nuovi quartieri. Sono gli esiti di tentativi prometeici di produrre spazi e organizzazioni funzionali adeguati all’insieme delle esigenze dei nuovi abitanti, come se si potesse (e volesse) vivere nel quartiere autonomamente dal resto del mondo, sulla scia dell’utopia anglosassone della new town e della unité d’habitation di Le Corbusier.
Sono stati tentativi e sperimenti complessi, talvolta intriganti ma per lo più votati al fallimento, talvolta rovinoso per le famiglie dei nuovi abitanti, che hanno penato per decenni ad adeguarsi agli edifici (o ad adeguarli alle loro esigenze, come capita in certi casi documentati nella mostra).
Infatti nella mostra al centro dell’attenzione ci sono le vicende degli abitanti, le reazioni agli spazi che li ospitano, leggibili compiutamente dopo 20 o 30 anni dalle costruzioni. E’ da qui che derivano riflessioni istruttive per considerare il da farsi oggi, di fronte ad un disimpegno complessivo delle nuove generazioni di tecnici e a nuove modalità di abitare apparentemente del tutto diverse da quelle di allora: plurimodali, articolate, sfuggenti ai paradigmi a cui siamo abituati.
In ogni caso la mostra rende omaggio non solo ai grandi che con onestà si sono misurati sul campo della produzione ordinaria di case, con alterne fortune e con straordinarie prove d’eccellenza, ma anche a centinaia di architetti ignoti, impegnati per tutta la loro carriera, fuori dalle riviste e dai salotti, in quel mestiere tosto e grandioso che è il fare (e rifare) città.
Questo è forse il risultato più evidente: la scoperta di una miniera di materiale da studiare e valutare, di esperienze poco esplorate ma certamente utili per affrontare correttamente il tema smisurato delle periferie.
Qui però preme soprattutto evidenziare un aspetto che rimane sottotraccia nella mostra, ma che comunque è leggibile come leitmotiv di molti dei quartieri più interessanti e che può aprire ad un filone di proposte qualificanti per il neonato interesse per le Periferie urbane nel MIBACT.
Si può definire con un assioma: Le leggi del paesaggio valgono comunque, anche applicate alla città, intendendo per leggi gli aspetti più ricorrenti (e spesso meno studiati) che si riscontrano nel senso del paesaggio, prodotto dell’interazione culturale tra un territorio e la popolazione che lo abita. Ci interessano, per sostenere il gioco dell’assioma, tre leggi del senso del paesaggio:
- si concentra su alcuni aspetti rappresentativi dei luoghi, scelti anche in modo diverso da quanto architettato,
- è denso di serendipity, un effetto che favorisce l’accadere di fatti positivi imprevisti,
- evolve nel tempo con processi isterici, di adattamento o di rifiuto.
In concreto, qualche traccia: dalle storie dei quartieri esposte nella mostra emergono comportamenti degli abitanti che spesso fanno giustizia sommaria dei progetti di spazi pubblici e di urban design, abbandonando gallerie commerciali, piazze e cavee (ogni quartiere ne ha almeno una) dove si presume la gente si incontri. E viceversa si eleggono a segno identitario un resto di cascina preesistente, un giardinetto marginale coltivato da qualche gruppetto di volontari, il bordo di un parcheggio dove si aspettano i mezzi pubblici e dove si forma un mercatino abusivo.
Sono processi che si consolidano dopo decenni di scomodo adattamento, dopo che il tempo e gli aggiustamenti più o meno spontanei hanno ristabilito quei rapporti identitari tra abitante e abitazione che sono necessari per vivere bene.
Emerge per altro quanto difficile sia superare la resilienza dei modelli di riferimento dei nuovi cittadini, che nonostante le mille offerte differenti desiderano ideologicamente da tre generazioni la casa autonoma, e rinunciano volentieri a qualsiasi identità sociale e spazio comunitario preferendo in ogni caso l’autonomia, la bassa densità, la villetta con garage e microgiardino. Salvo poi abbandonarla per rifugiarsi nel profondo dei quartieri storici, dove le case antiche tutto accolgono e tutto risolvono, placando l’isteria dei modelli archetipici e ormai lontani dal nostro tempo.
Da qui partiamo tutti, per capire le lezioni che la periferia, severa maestra, ci impartisce.