Ulisse, preda della tempesta dantesca che lo ha proiettato nel (nostro?) tempo, galleggia incosciente nel mare che si va placando. Due braccia lo issano su una barca e quando si riprende vede uomini, con divise che recano la scritta FRONTEX, indaffarati a salvare naufraghi. Una struggente spossatezza lo prende, si sente protetto da gente come lui, che il mare lo abita e al mare dà e prende la vita ogni giorno, a cui può dire: il mare (nostro!) ci unisce.
Ulisse scende dalla barca insieme a tanta gente, avvolta in strane coperte e rifocillata, e trova ad accoglierlo uno strano comitato, che lo tempesta di domande per sapere da dove viene e perché. Ulisse, sagace come sempre, capisce che non può dire la verità della sua vicenda, che apparirebbe troppo romanzesca e non verrebbe creduta, e racconta la storia di tutti.
Racconta che sta in un posto a cui tiene tantissimo, dove ha gli affetti e i luoghi più cari, ma che quel posto è isolato, percorso da guerre e ridotto alla rovina da carestie. Racconta che ha ascoltato i racconti dei suoi vecchi che avevano ascoltato i racconti dei loro vecchi e che da sempre nel Mediterraneo si erano incrociati destini di gente in cerca di nuove patrie. Prova a dire che secondo lui la civiltà stessa è frutto di questi movimenti, che i miti fondativi delle nostre (!) città sono tutti di migranti che, fermandosi, si affermano.
E guardando le facce infastidite che ha davanti, capisce di non essere capito. Non per la lingua che usa, che per qualche prodigio è quell’inglese internazionale che va bene su tutto, ma per ciò che dice. Gli sembra che quella gente che lo interroga ci tenga a marcare le distanze, non le amicizie che il mare porta implicite. Non capisce cosa sia successo, che un soccorso in mare come quelli che lui conosceva bene si sia tramutato in un rapporto sospettoso, quasi ostile.
Pensa che nei suoi viaggi le male accoglienze erano emerse sin da subito… ricorda Polifemo e i Feaci… come erano diversi da tutti gli altri, che invece erano civili e avevano adottato le regole e condiviso i piaceri dell’incontro. Qui il codice di comportamento che conosce sin da ragazzo non funziona, e non si capisce se sei amico o nemico.
Allora racconta che lui è addirittura abituato ad accogliere e ad essere accolto, che l’ospitalità nel suo mondo è sacra perché tutti sanno che i nuovi arrivati fecondano e arricchiscono le terre dove sbarcano. Le fecondano di diversità, di energia e, non ultimo, di riconoscenza.
Racconta che i guai a lui non sono venuti da fuori, ma semmai da dentro, che le serpi crescono in seno, che i Proci sono i vicini della porta accanto.
A guardare quelle facce attonite si infervora e cerca di spiegare che lui è re di casa sua, che ha fatto con le sue mani, il letto nunziale in un ulivo radicato a terra, le terrazze da semina su muri di pietre smosse una per una. Appunto, dice, ma per chi l’avrei costruito tutto questo? Solo un pazzo può pensare di fare tutta questa fatica per sé, che basta un pezzo di pane e una coperta a vivere bene su una spiaggia.
Alza la voce, quasi senza accorgersene. Il suo regno l’ha costruito perché fosse abitato da altri, non solo da lui: dai suoi figli, dalle donne venute dal mare che i suoi figli sposeranno, da gente che riempirà quelle stanze di lavoro e di canti che lui non sa ancora. Gli viene da dire che ha fatto tutto questo perché lui non sa abitare in altro modo che quello: costruire luoghi dove stare bene. Stare bene tutti, tutti quelli che vengono. Abitare è essere abitati.
Quelli che lo volevano interrogare si alzano in piedi, di fronte a lui che chiede: ma voi non fate così? Le vostre città non sono fatte per accogliere gente venuta da fuori? I vostri campi che producono più del necessario, le vostre officine piene di materiale che nessuno utilizza, le vostre case grandi con dentro delle vecchie sole, non stanno aspettando gente nuova? E le canzoni, i racconti, il sangue giovane non li cerchiamo sempre stranieri, non siamo affascinati solo da chi viene da fuori?
Io, nel mio piccolo, ho fatto quello che potevo per ospitare perché sapevo di portarmi in casa tesori inaspettati a fronte della fatica di una pagnotta di più e di un’imbiancata alle stanze vuote.
Lo intuivo da giovane, ma ne sono certo oggi, che sono vecchio e comincio a non avere più capacità di immaginare un futuro. Se mi sembra che i miei metodi consolidati per stare bene non funzionano più non posso che rivolgermi ad altri, che non abbiano adottato i miei metodi. Se non ho più le forze per reggere il mondo come l’ho costruito, attendo con gioia chi mi aiuti a trasmetterlo ad altri il meglio possibile.
Girando il mondo ed essendo spesso ospitato, ho visto di persona quanto è facile illuminare volti tristi, magari raccontando cose per noi ovvie e consolidate, ma ignote a chi ci ascolta.
E’ per questo che mi sembra ovvio cercare aiuto in quelli che cercano aiuto.
Perché non so voi, ma a me comincia a mancare il tempo, non so se riesco a consegnare questo mondo ai miei figli come lo vorrei, come lo avevo pensato da giovane.
Ulisse tace. Capisce di avere detto troppo. Quelle facce sono di gente a disagio, che non vuole stare a sentire discorsi troppo diretti al nocciolo.
Sono strani questi, pensa Ulisse. Un po’ sentono il senso ragionevole delle nostre storie e un po’ non lo vogliono sentire. Un po’ si sentono fratelli e un po’ coltelli. Forse hanno paura di perdere cose, ma non capisco di quali cose si tratti, di cosa ci sia così fragile da non migliorare se viene condiviso. E poi non capisco come mantenere le cose belle se non tutti insieme: è uno sforzo immane, che chiama a raccolta tutti.
Lo prendono mentre sta protestando e lo chiudono in uno stanzino.
Allora sono di un’altra civiltà, come Polifemo, pensa Ulisse, e io sono ancora una volta Nessuno, che fa paura.
Alza gli occhi e legge “Lasciate questo luogo come vorreste trovarlo”. Ma allora hanno capito tutto, pensa sbalordito. Ma allora perché mi trattano così? Perché non capiscono che tutti serviamo ad abitare meglio?
E si siede sconsolato su un cesso sconnesso del CIE.