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Le ragioni del nemico

 

Articolo scritto da Paolo Castelnovi a settembre 2015 per il Giornale delle fondazioni

Il 10 agosto 1793 su indicazione della Convenzione, i giacobini distruggono sistematicamente le tombe dei re francesi, e motivano le demolizioni dei monumenti che li effigiano, in tutta la Francia, come "simboli di una storia da abolire", che non deve continuare: si vuole separare il passato, per non poter più tornare indietro. Come sempre la corsa in pendio diventa rovinosa e finisce in valanga: come al Re tocca alla Chiesa, e tra il 1791 e il 1794 vengono distrutte decine di chiese simbolo della storia del cristianesimo, da Cluny a Liegi. La ghigliottina a Parigi decapita 2000 nobili e altri 20000 cittadini, in provincia 5 volte di più che nella capitale. Si decapitano tutte le statue religiose che si incontrano, privando i posteri di capolavori irripetibili del gotico e del romanico.

Questo avviene non sull’onda dell’incontenibile pressione della plebaglia, ma su ordine del governo rivoluzionario, quello stesso che in quegli stessi anni fonda le costituzioni, il sistema dei diritti, le istituzioni della modernità, quelli alla base delle costituzioni, diritti, istituzioni che oggi vogliamo difendere.

Quando la dinamica degli eventi accelera, spesso la sequenza delle decisioni per la loro gestione deraglia dai normali binari del buon senso e genera eccessi incontrollati, ma non per questo il decisore smette di essere razionale ed efficiente. Anzi, è allora che la razionalità diventa storicamente un nemico, con il quale è difficile scendere a patti, da battere ad ogni costo.
Noi, che della Rivoluzione francese siamo eredi, dovremmo saperlo che vanno capite a fondo le ragioni del nemico, anche quando il nemico pare uscire da ogni logica conosciuta.
Non superiamo le difficoltà che ci pone un nemico che taglia la testa degli archeologi, che distrugge colonne antichissime, che provoca esodi di milioni, se pensiamo che sia un barbaro pazzo, una bestia infuriata. Al contrario dobbiamo capirne il disegno, anche se mostruoso per freddezza e cinismo. Dobbiamo renderci conto della straordinaria sapienza comunicativa di chi lancia sul web, con una cadenza ossessiva, terribili immagini di morte e distruzione che ci segnano più di mille comunicati.
Soprattutto dobbiamo capire perché questa strategia delirante mobilita e attrae migliaia di ragazzi nel mondo. Perché a loro pare preferibile lo Stato che viene organizzato chiamandolo islamico, così apparentemente antitetico a quell’altro Stato chiamato della Ragione, che sinora ci è parso una conquista dell’umanità, e di cui abbiamo dimenticato la nascita nel fuoco del Terrore rivoluzionario.
Perché alla tolleranza si preferisce l’integralismo, perché convince la tradizione arcaica esaltata come antimodernità, perché si accetta che la donna sia separata e reclusa o il sapere reputato satanico?
Non ci possono bastare spiegazioni da etnologo: non siamo di fronte ai resti di culture di nicchia, a comportamenti bizzarri basati su mitologie fantasiose. Ci confrontiamo con un sistema culturale storicamente egemone, che ha fatto della prevalenza sul mondo il proprio obiettivo sacro, che ha unito Credo e Stato in modo efficientissimo, riproponendosi a secoli di distanza con una vitalità impressionante. L’Islam, che non è il nemico di cui stiamo parlando, ha nutrito una cultura capace di strumentazioni ideologiche e organizzative di straordinaria potenza. Queste, come tutti gli strumenti, possono essere messe a disposizione di una strategia nefasta. Dunque è sulle perversioni dei principi primari che dobbiamo fare il punto. Come accade alle nostre culture, frutto della Rivoluzione francese e del Cristianesimo, i cui credo da due secoli danno spazio, senza darci troppo scandalo, a effetti perversi come il capitalismo, la schiavitù, lo sfruttamento insostenibile di risorse e persone, la corruzione dei potenti e l’individualismo degli aspiranti potenti, l’egoismo del consumismo e l’indifferenza alla povertà degli altri.
Quanti, esterni alla nostra cultura, dal contatto con le nostre società, hanno avuto solo la violenza e il ribrezzo di quelle malattie dell’anima e della comunità, da cui sono inconcepibili il volto della Gioconda o le fughe di Bach? Certo mille hanno subìto le nostre perversioni contro uno che, al contrario, ha goduto dell’arte, della libertà e della tecnologia occidentale, inserendola nel proprio bagaglio culturale, senza contraccolpi negativi.
Siamo così abituati ad una visione eurocentrica della civiltà che non ci rendiamo conto di quanto i resti degli imperi e delle religioni occidentali possono essere letti come testimonianze di imposizioni e maltrattamenti nemici e non «Patrimonio dell’Umanità», come intitola le sue scelte antologiche l’Unesco, dalla sua sede parigina.
Occorre saper vedere con gli occhi del nemico se vogliamo capirne le ragioni. E non è solo scaltrezza da Ulisse, ma è occasione irripetibile per guardarci allo specchio senza trucco e senza scuse.
Non sconfiggeremo lo Stato islamico senza sconfiggere la corruzione dei princìpi primari posti alla base della nostra civiltà. Lo sviluppo a partire dal sostegno alla diversità e quindi la tolleranza, l’accoglienza, il premio ai migliori nel lavoro e nel servizio agli altri, i diritti universali e non i privilegi ereditari, il controllo democratico. I nostri princìpi, che a scuola ci hanno insegnato impressionandoci per potenza e completezza, oggi ci sembrano vecchi, forse perché siamo vicino alla fine e ci sembrano strumenti arrugginiti, faticosi da usare.
Non ce n’è uno che sia in buona salute in Europa, che sia presentato come programma prioritario e non come atto dovuto, da attuare forse, obtorto collo, perché «ce lo chiede … la nostra storia». Occorre una robusta manutenzione straordinaria, come in ogni casa ogni 50 anni.
Se agiamo profondamente e nettamente per restaurare questi principi culturali e politici nelle forme e modalità nuove che la nostra epoca richiede, togliamo materia di confronto al nemico, evidenziamo solo i vantaggi della libertà e della democrazia e rendiamo trascurabile il retro della medaglia, che è invece l’unica faccia che negli ultimi decenni abbiamo fatto vedere: il sopruso delle rendite accumulate, la corruzione e il lassismo nei confronti dei privilegi, che tengono dietro alle perversioni della tolleranza.
E’ una manutenzione straordinaria di cultura prima che di politica, in cui l’etica non è un dover essere generico ma uno strumento tecnico per lottare, forse per sopravvivere.
E’ una cultura politicamente impegnata in battaglia, che ci deve portare a comportamenti decisivi, senza se e senza ma: punire severamente i nostri corrotti e i corruttori e a ridurre drasticamente i nostri privilegi e le disuguaglianze nei diritti primari.
Ci saranno effetti collaterali, diritti acquisiti ritoccati, abitudini comode interrotte, ma dobbiamo renderci conto che sono azioni di guerra, urgenti e necessariamente forti.
Tanto quanto lo sono quelle che derivano dalle altre strategie fondamentali, come l’accoglienza aperta dei profughi, l’assoluta tolleranza interculturale nelle istituzioni, la capacità di integrare e di non essere integralisti nell’economia.
Il restauro pratico dei principi e l’integrazione accogliente sono due facce necessarie di un unico disegno per riassumere la posizione di leader nel tracciare la rotta dei valori di civiltà per cui vale la pena lottare. In fondo basta rifarsi al criterio rivoluzionario su cui ci fondiamo, che tiene unite insieme libertà, eguaglianza e fraternità.
Non è solo uno strumento fondamentale per vincere la guerra contro un nemico esterno insidioso, ma è un modo per riprendere in mano il timone della nostra civiltà, che sta andando a sbattere sugli scogli delle sirene del narcisismo, e che non dice più nulla di buono al resto del mondo. E’ chiaro che se la nostra civiltà non serve più a vivere bene tutti si butta, con tutto l’armamentario del suo patrimonio di testimonianze che non costituiscono più un modello interessante ma solo vestigia per feticisti.
Non solo questa strategia ci salva l’orgoglio millenario, ma è anche l’unica via di uscita socioeconomica per un continente ormai in rosso sui fondamentali: la demografia, la ricerca, gli assetti sociali che sono stati modello per il mondo moderno a partire dalla Rivoluzione francese, hanno esaurito la loro spinta positiva e questo comporta un declino sempre più accelerato nel welfare a cui siamo abituati.
Insomma non ci aspetta una bella vecchiaia. E’ ora di rendercene conto e di riaprire le porte alle innovazioni che vengono spinte con forza da fuori e dal passato, come abbiamo fatto già un paio di volte nell’ultimo millennio.
Niente paura: non abbiamo da perdere altro che le nostre catene. Dorate.

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