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Gli strumenti della messa in scena dello spazio in comune
Progettare oggi territorio e non norme significa abbandonare la consuetudine dell’autoreferenzialità del piano, che individua la propria legittimità a un estremo nell’intuizione poetica solipsistica e all’altro nella scientificità dei dati. Partecipare al progetto identitario del luogo vuol dire entrare in mezzo ad un gioco di specchi, in cui si guarda, interpretandolo, ciò che è già stato guardato, interpretato e trasformato. E’ la forma di territorialità, le regole che ogni società decide di darsi rispetto al territorio che la ospita, che può farci comprendere con quali occhi i caratteri del luogo venivano guardati e interpretati. E’ necessario percorrere due strade parallele: da un lato ricorrere a documenti che conservano traccia e, dell’interazione fra contesto e società, con i racconti, le narrazioni le descrizioni testuali in cui è possibile intravedere la conformazione storica del luogo, però decisive sono per noi le immagini, le rappresentazioni grafiche, che contengono la forma e la sua rappresentazione, alla luce dei valori, della cultura e delle credenze del tempo. Dall’altro è necessario ritrovare un contatto diretto con i luoghi e con possessori attuali dei luoghi. Il progetto di territorio necessita sia di una lettura densa in grado di restituire spessore e profondità e di un committente, anche ipotetico e immaginario, che consenta di mantenere la stima della rotta.
Per questo l’immagine più convincente oggi della figura di luogo è quella che abbandona l’approccio rigidamente funzionalista del paradigma sistemico. Alcuni, ad esempio, ritengono la teoria dei sistemi inefficace per la pratica urbanistica, privilegiando i concetti di conoscenza di sfondo, sistemi concreti di interazioni, razionalità dei giochi, progettualità descrittiva e d’azione.[1]Altri, viceversa, vi intravedono alcuni vizi di origine, come il riduzionismo, il meccanicismo e il controllo generalizzato che indirizzano la percezione e la forma descrittiva del problema stesso.[2]Altri ancora preferiscono riferirsi a metafore più morbide come quella di teatro o di gioco utili per definire efficacemente le relazioni sociali implicate nella designazione, concezione e rappresentazione del paesaggio, riconducibili all’antropologia interpretativa geertziana.[3]L’immagine del teatro è particolarmente suggestiva e contiene al tempo stesso l’idea dello scenario e degli attori che mettono in scena e rendono vivo lo spazio che contiene i propri atti.
La costruzione di luoghi dotati di senso significa per gli urbanisti partecipare da attori al più generale processo di ricostruzione identitaria che sta attraversando il mondo industrializzato. Ricostruire luoghi significa abbandonare l’ottica moderna che ricercava un progetto universalista, univoco e certo, ma significa anche abbandonare la teoria postmoderna che accetta incondizionatamente e spesso esalta la nascita di un individuo frammentato, senza identità, senza un centro, senza un principio d’ordine, che si disperde nell’universalità dell’indistinto, e che finisce per identificarsi nelle periferie disseminate che gli somigliano.
Attrezzarsi alla progettazione dei luoghi significa prendere la cassetta degli attrezzi e guardare dentro, vedere cosa è ancora necessario, cosa è da buttare, ma molto di più significa scavare nel fondo e ritrovare vecchi strumenti, considerati arrugginiti e desueti ma che col trascorrere del tempo tornano utili, e si scoprono ancora utilizzabili. Progettare richiede di guardare con un’ottica nuova, che abbandoni i grandi modelli interpretativi e più sommessamente si rivolga alla comprensione delle pratiche sociali che rappresentano lo spazio in comune (quelle attuali, quelle trascorse, quelle innovative). Il cambiamento d’ottica usa anche strumenti di interpretazione generale, senza cadere nel mero idiografismo, ripartendo però dall’interpretazione dell’unicità, dalla specificità, dall’individuazione della morfogenesi locale, dalle tante e contraddittorie microstorie e non dai grandi racconti che sovrappongono ai contesti regole certe, univoche e generali. E’ dall’ottica del locale che il generale acquista senso, nella contemporaneità “solo ripartendo dalla foglia osservata al microscopio è possibile salvare il principio più astratto e regolare della rete”.[4]
Nel fondo della cassetta si può forse trovare uno strumento che gli urbanisti hanno da tempo usato in maniera semplificata, e che può tornare ad essere oggi estremamente necessario: la rappresentazione. La rappresentazione iconografica è uno strumento ambiguo e ricco, che racconta di tante cose, tenendo assieme luoghi, immagini, attori e intenzionalità. E’ stata la modalità principe di rappresentare il mondo e di rappresentarsi nel modo, attraverso l’interpretazione dei potenti e le mani degli artisti. Le carte dei cartografi e le immagini dei pittori hanno descritto il mondo, ma al tempo stesso, interpretandolo, l’hanno progettato. La rappresentazione è uno degli strumenti utili alla costruzione attuale del luogo, perché consente, nella sua sinteticità e nella sua complessità assieme, di “vederlo”, di immaginarlo e di mettere in pratica azioni per costruirlo, ma è anche un documento denso, il cui studio attento lascia intravedere l’identità storica dei luoghi. Ripensare al ruolo della rappresentazione è cercare di gettare un ponte fra il mondo della geografia, l’antica scienza della descrizione aulica del territorio e l’urbanistica, erede della cartografia, che oggi vede il territorio solo attraverso l’immagine della norma.
[1] Palermo P., Interpretazioni dell’analisi urbanistica ,op. cit, p. 163.
[2] Wolfgang Sachs afferma a questo proposito: “Accanto a quello di “integrazione”, il concetto di “sistema” rappresenta un elemento chiave per la rappresentazione di un sistema globale di interconnessioni. Ma attenzione, il linguaggio sistemico non è privo di colpe, poiché indirizza la percezione in maniera tecnicista. Considerare le comunità viventi come “sistema”, siano esse lo stagno ai bordi della foresta o il pianeta Terra, significa cercare di determinare un minimo di componenti base e di rappresentarne le dipendenze reciproche in base a rapporti numerici. Nel caso dello stagno, il sistema potrebbe consistere in una connessione fra energia, massa e temperatura, mentre nel sistema mondiale si potrebbe trattare di popolazione, ambiente e risorse. Non è possibile spiegare o prevedere il comportamento del sistema in maniera differente. Questo riduzionismo è inevitabile: il linguaggio sistemico non può rinunciare a cogliere le totalità del punto di vista del loro controllo, tant’è che fin dalle sue origini è stato il linguaggio di ingegneri e manager. Il concetto di sistema è stato scoperto negli anni Trenta per descrivere organismi con obiettività meccanicistica. Il “tutto” viene interpretato come “equilibrio” e i rapporti fra il tutto e le sue parti, alla maniera dell’ingegneria meccanica, come meccanismi autoregolatesi che servono a mantenere questo equilibrio. Conoscendo i meccanismi di feedback si potrà simulare il comportamento del sistema. Il discorso di “ecosistema” o di “sistema globale” non può scuotersi di dosso l’eredità delle scienze ingegneristiche, essendo anch’esso dedito agli interessi gestionali” Sachs W., Archeologia dello sviluppo, Macro Edizioni, San Martino di Sarsina (FO), pp. 36-37.
[3] Quaini M., Rappresentazioni e pratiche delo spazio: due concetti molto discussi fra storici e geografi, in Galliano G. (a cura di) Rappresentazioni e pratiche dello spazio in una prospettiva storico-geografica, Brigati, Genova 1997, p. 8. Il testo di Geertz a cui Quaini fa riferimento è Geertz C., Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna 1988.
[4] Quaini M., Rappresentazioni e pratiche delo spazio: due concetti molto discussi fra storici e geografi, op. cit.