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Landscape Planning: invarianti e criticità

Landscape Planning: invarianti e criticità

Roberto Gambino

in Maria Mautone e Maria Ronza (a cura di), Patrimonio culturale e paesaggio: un approccio di filiera per la progettualità territoriale, Roma, Gangemi editore 2009

 

Abstract Landscape analysis and planning are assuming a growing relevance in territorial government processes, in relation to the scaling-up of many environmental problems and their complex interference with the social and economic ones.

According to the European Landscape Convention, landscape has to be conceived not only as the result of the interaction between natural and cultural factors, but also as the expression of the diverse common heritages and the foundation of the population’s identities. It requires a new paradigm for landscape policies, that cover the entire territory and invest a wide range of different administration sectors.

Landscape may be considered with diverse scientific approaches, ranging from geography and geomorphology to ecology, economy, history, antropology, semeiology, aesthetics and so on. But we need also a holistic vision, based on a structural interpretation of the territorial context, pointing out the "invariants” to be rispected, as well as the pressures and critical factors threatening them.

The structural interpretation is a crucial step towards the landscape planning, where the special protection granted to the outstanding values must be reconciled with the need for a careful and sustainable management of the entire territory.

 

La questione del paesaggio: rilevanza e attualità

Il paesaggio ha assunto negli ultimi due o tre decenni una crescente importanza nei processi di gestione e di pianificazione territoriale. La “domanda di paesaggio”, lungi dal ridursi ad una pulsione edonistica schiacciata dai bisogni primari, riflette il tentativo di ridefinire i rapporti dell’uomo con la terra (Berque, 1995). Essa è entrata da tempo nelle rivendicazioni con cui comunità più o meno ampie tentano di difendere o di ricostruire la propria identità. La rivalutazione della estrema diversità del proprio patrimonio paesistico fa parte delle politiche con cui l’Europa È in cerca di se stessa, ma l’identità paesistica È spesso orgogliosamente difesa anche dai paesi emergenti, non senza drammatiche contrapposizioni etniche e culturali. A scala locale, molte piccole comunità “perdenti”, emarginate dallo sviluppo economico e sociale, affidano alle proprie risorse paesistiche e ambientali le residue speranze di sopravvivenza o di rinascita. L’obiettivo della valorizzazione del paesaggio figura quasi ritualmente nelle dichiarazioni e nei programmi strategici con cui le amministrazioni pubbliche ai diversi livelli tentano di disegnare il proprio sviluppo economico e sociale.

D’altra parte, a dispetto di tali programmi e dichiarazioni, la “questione del paesaggio”, in quanto groviglio inestricabile di problemi, di rischi e di minacce che hanno a che fare con il patrimonio paesistico, sembra destinata ad aggravarsi e complessificarsi, stando ai Rapporti ambientali internazionali, che evidenziano congiuntamente:

  • l’incessante salto di scala di molti problemi ambientali, quali quelli connessi al global change, che pongono crescenti difficoltà di controllo, di regolazione e di governo alla scala locale;

  • la crescente interferenza dei problemi ambientali con quelli economici e sociali, quali quelli che concernono la povertà, l’accesso all’acqua ed alle risorse primarie, l’accesso all’informazione e alla cultura.

In questo contesto, il paesaggio gioca un ruolo centrale. Esso lancia un ponte tra natura e cultura, non soltanto perchè storicamente è sempre il risultato storico dell’interazione tra fattori naturali e culturali, ma anche perché (come dice la Convenzione Europea del Paesaggio: CEP, CE 2000) È “una componente essenziale del quadro di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità”. Infatti, non esiste paesaggio, per quanto remoto, che possa dirsi esente da ogni influenza antropica (Shama, 1995).

Questa affermazione trova riscontro anche in situazioni di estrema dominanza dei fenomeni naturali, come le grandi vette o i grandi complessi vulcanici (nei quali, come dimostra esemplarmente il caso del Vesuvio, le dinamiche eruttive hanno spesso coabitato per secoli con le attività antropiche). Ma vale anche in assenza di trasformazioni fisiche indotte dall’uomo: è lo sguardo dell’uomo, la sua interpretazione del dato naturale che dà senso e “crea” il paesaggio, inventandolo (come nell’”invenzione delle Alpi” da parte dei grandi viaggiatori del ‘600 e ‘700: Joutard, 1986) o scoprendolo (come nei “paesaggi della scoperta”).

In entrambi i casi la creazione del paesaggio implica una qualche forma di controllo della realtà materiale da parte della cultura umana (Raffestin, 2007). In entrambi i casi lo sguardo dell’uomo lascia il segno. Da questo punto di vista, ci si può chiedere se il concetto di “paesaggio culturale”, che ha richiamato tanta attenzione in questi ultimi anni, regga al confronto col concetto di paesaggio ridefinito dalla Convenzione europea, che attribuisce ad ogni paesaggio un preciso interesse paesistico.

Se il concetto di paesaggio culturale va ricondotto a quello di combined works of nature and of man (Unesco, 1966), può sostanzialmente trovare riscontro in ogni manifestazione paesistica: anche il più celebre “santuario della natura”, il Parco nazionale di Yellowstone, può essere considerato un paesaggio culturale nella misura in cui non solo i suoi caratteri fisici discendono dalle secolari attività, come il “fire management”, delle popolazioni indigene precedenti, ma soprattutto la sua immagine e la sua percezione dipendono crucialmente dai modelli interpretativi che guidano i piani di gestione e l’organizzazione delle modalità di accesso e fruizione. In questo senso ogni paesaggio È un paesaggio culturale, o più precisamente luogo di mediazione culturale.

Lo spostamento concettuale, dai paesaggi culturali al significato culturale di tutti i paesaggi, investe il rapporto tra paesaggio e territorio, ossia la imprescindibile “territorialità” del paesaggio, che lega “visto” e “vissuto”, valori tangibili e intangibili. Nell’esperienza e nel dibattito degli ultimi decenni i paesaggi culturali sono stati prevalentemente pensati in rapporto ai territori in cui si vive e si lavora: paesaggi “viventi” che esprimono peculiari configurazioni agrarie o sistemazioni idrauliche (come i versanti terrazzati per la coltivazione del riso o dei vigneti). Ma spesso si tratta di coltivazioni o produzioni scomparse o in declino, che fanno parlare di territori abbandonati o senescenti, di impianti o di aree industriali dismesse o non più utilizzate, il cui interesse paesistico non nasce dalla coerente rappresentazione delle attuali attività e funzioni, quanto piuttosto dalla memoria o dalla nostalgia di quelle pregresse: un desiderio di paesaggio che nasce dalla nostalgia del territorio (Raffestin, 2007), non senza vagheggiamenti romantici di un passato pre-industriale o pre-moderno.

 

Le politiche del paesaggio

L’apprezzamento dei valori del paesaggio da parte della società contemporanea si È da tempo tradotto in misure normative, volte a tutelarli. Esse riflettono il riconoscimento di un interesse pubblico del paesaggio, che in talune legislazioni, come quella italiana, assume carattere prioritario, ossia non subordinabile ad alcun altro interesse pubblico o privato. Anche se l’assimilazione del paesaggio ai “beni pubblici” È contestata (in particolare a causa del fatto che, a differenza dei beni pubblici “puri”, i beni paesaggistici non possono spesso essere goduti da alcuni senza limitarne il godimento da parte di altri), vi largo consenso nell’attribuirgli il ruolo di risorsa comune, meritevole di adeguata protezione.

Come per tutti o gran parte dei beni culturali, le ragioni della tutela affondano le loro radici in complessi coacervi di percezioni e consapevolezze, concezioni e valutazioni, atteggiamenti culturali ed etici, assai diversi nei diversi paesi e nelle diverse culture. Inoltre, come È stato osservato (Brennan e Buchanan, 1985), le “ragioni delle regole” variano nel tempo, in funzione dei cambiamenti complessivi della società, delle sue paure e delle sue speranze. Ma, anche se si può discutere la possibilità di equiparazione del paesaggio, come degli altri beni culturali, ai beni pubblici (Kling, 1993) o ai beni “misti” (Lichfield, 1988; Samuelson 1958; Ventura 2001), vi È ampio consenso sull’esigenza di intervento pubblico nei processi di trasformazione che possono minacciarne l’integrità, la qualità e la fruibilità. Tuttavia le politiche del paesaggio negli ultimi decenni hanno preso strade diverse.

Tre paradigmi sembrano particolarmente riconoscibili.

Il primo paradigma È quello implicito nella Convenzione Unesco del 1972, che ruota attorno al concetto di outstanding universal value, sistematicamente richiamato nell’art.1 (per le cultural properties) e nell’art.2 (per le natural properties) e fa riferimento a beni o siti di intrinseca eccezionale rilevanza, autenticità, integrità, in quanto tali distinguibili o separabili dal contesto, chiamati a rappresentare e celebrare una eredità che appartiene all’umanità intera, senza vincoli di identità nei confronti delle comunità locali. L’opzione conservativa sovrasta ogni altra opzione e la politica pubblica mira essenzialmente a salvaguardarne i valori indiscutibili » importante notare che i siti che hanno meritato finora il riconoscimento nel Patrimonio Mondiale sono attualmente in tutto il mondo meno di un migliaio e prevalentemente di piccole dimensioni.

Il secondo paradigma, affermato nel campo della conservazione della natura dall’Unione Mondiale della Natura (IUCN, 1994) ruota attorno al concetto di “paesaggio protetto”, una delle 6 categorie delle “aree naturali protette”. Secondo la definizione del 1994, i Protected landscapes/seascapes della Cat.V sono quelli “in cui l’interazione tra uomo e natura nel corso del tempo ha prodotto un’area di carattere distintivo con significativi valori ecologici, biologici, culturali e scenici”. Anche in questo caso si fa riferimento ad aree di specifico, intrinseco e significativo interesse, la cui integrità merita una protezione speciale. Ma a differenza dei Siti del Patrimonio Mondiale, i “paesaggi protetti” sono aree riconosciute e gestite per la long term conservation of nature strettamente connessa alla difesa della biodiversità. Va notato che i “paesaggi protetti” coprono ormai una quota importante della superficie complessiva delle terre emerse: in Europa, essi coprono più della metà della superficie protetta complessiva. Ed ancora, va rilevato che la logica “insulare” che ha guidato finora le politiche delle aree protette (pensate come aree in qualche modo set aside e fra loro staccate) lascia ora emergere “nuovi paradigmi” (IUCN, 2003) fondati sul networking e sulla interconnessione.

Il terzo paradigma È quello propugnato dalla European Landscape Convention (Consiglio d’Europa, 2000), che ruota attorno al concetto di “paesaggio”, ridefinito come si È sopra citato. Tale ridefinizione, che ha raccolto gli esiti di lunghi dibattiti e riflessioni, propone un approccio esplicitamente “territorialista”, mettendo in risalto la valenza paesaggistica dell’intero territorio inclusi i paesaggi dell’ordinarietà o persino degradati, il significato complesso e pervasivo dei valori paesistici, e il necessario riferimento alle percezioni, alle attese e alla responsabilità gestionale delle popolazioni direttamente interessate.

In questa visione, il focus non È sulle “isole” di pregio, sulle “eccellenze” e le aree di valore eccezionale, ma sul patrimonio paesistico diffuso, parte integrante del “capitale territoriale”. La sua conservazione attiva È inseparabile dalla valorizzazione del territorio e delle identità locali.

Il primo paradigma risponde all’esigenza di reagire all’”arretramento dell’universalismo di fronte al particolarismo pulviscolare delle comunità” (Touraine, 2008), anche con la riaffermazione del ruolo fondativo dell’eredità comune. Questo vale anche per il secondo, che tuttavia risponde più direttamente alla domanda crescente di natura e di qualità ambientale e ai timori determinati dagli attuali processi di degrado. Quanto al terzo paradigma, se da un lato l’enfasi sui valori identitari, spesso drammaticamente contrapposti (le “identità armate”: Remotti, 1996) non È certo esente da conflitti e contraddizioni, dall’altro esso sembra riflettere l’affermazione di nuovi diritti di cittadinanza, come quelli che riguardano la qualità e la bellezza dell’ambiente di vita. Conoscenza e valutazione del paesaggio

Le nuove concezioni del paesaggio mettono in discussione gli statuti disciplinari, i metodi e gli apparati interpretativi che, a partire almeno da von Humboldt a metà Ottocento, hanno approfondito il tema del paesaggio. La discussione riguarda soprattutto due esigenze:

  • l’esigenza di aderire alla complessità intrinseca della fenomenologia paesistica col pluralismo dei contributi specialistici disciplinari,

  • l’esigenza di produrre visioni e interpretazioni olistiche ed il più possibile integrate, atte ad informare l’azione pubblica di regolazione.

Per quanto riguarda la prima esigenza, occorre dalla constatazione che le diverse discipline e le diverse scuole di pensiero offrono spesso visioni parziali e riduttive, o comunque difficilmente confrontabili. Ma È innegabile il ruolo egemone assunto, soprattutto a partire dagli anni Sessanta o Settanta, dalla Landscape Ecology, nel cui ambito confluiscono anche le tradizioni nordamericane del landscape planning (Steiner et al., 1988). Alla base del successo della Landscape Ecology vi è certamente il fatto che essa ha offerto un quadro teorico organico e sistematico, capace di “spiegare” in ampia misura, con l’analisi scientifica oggettiva, la fenomenologia paesistica. La fede nelle scienze esatte, che aveva consentito a McHarg (1966) di propugnare polemicamente l’ecological determinism contro gli orientamenti economicisti del planning, si È dimostrata vincente nei decenni successivi contro il confuso impressionismo degli approcci estetizzanti, il descrittivismo di certi approcci geografici o l’arbitrarietà progettuale della landscape architecture.

Di più, l’orientamento ecologico ha sottolineato con forza l’esigenza di non staccare i paesaggi dal paese reale, i testi paesistici dal loro contesto ambientale. Ma la visione sistemica offerta dalla Landscape Ecology, nonostante si presenti come un paradigma totalizzante (l’ecologia come quadro globale di riferimento) lascia nell’ombra alcune dimensioni del paesaggio, la cui importanza È emersa con forza soprattutto negli ultimi decenni.

Il dibattito e la ricerca degli anni Ottanta e Novanta hanno richiamato l’attenzione sulla dimensione economico-sociale. Quest’attenzione non È di per sÈ in contrasto col quadro teorico della Landscape Ecology, (“nessun ecosistema potrà essere studiato senza fare riferimento all’uomo”, per McHarg, 1981; d’altra parte non ci sono ecosistemi che non risultino almeno in parte modificati dalla cultura umana, per Schama, 1995).

Il terreno da esplorare È quello che riguarda quell’intreccio complesso di interazioni tra le dinamiche economiche e sociali ed i processi di trasformazione paesistica, che costituiscono lo “zoccolo duro” della questione paesistica. Un intreccio che investe le dinamiche globali (IUCN, 2003, 2004) ma che si presenta in forme ancor più acute nelle dinamiche locali: come difendere i paesaggi terrazzati della risicoltura e della viticoltura senza quelle attività? come salvaguardare la diversità paesistica delle Alpi e degli Appennini senza mantenere e rinnovare le attività agricole e pastorali?

Sembra impossibile una tutela paesistica minimamente efficace se non si riporta al centro il ruolo dell’uomo in quanto “produttore” di paesaggio e non si affronta la separazione storicamente intervenuta tra il “produttore” e l’”abitante”. Le riflessioni (Magnaghi, 1990) sul “territorio degli abitanti” indicano come - a quali condizioni, con quali processi - il paesaggio possa costituire una risorsa effettivamente insostituibile per lo sviluppo locale endogeno ed auto-centrato. Se la tutela e il progetto di paesaggio si pongono a rimorchio dei correnti modelli economici e produttivi e delle loro tendenze evolutive, c’È invece il rischio che si riducano ad un’azione “cosmetica” (il landscaping, figlio “bastardo” dell’architettura del paesaggio), concorrendo in fondo al consolidamento di quegli stessi modelli e di quelle stesse tendenze.

Un’altra dimensione del paesaggio di cui si avverte la crescente importanza riguarda gli aspetti storici e culturali. Anche questi non comportano, in linea di principio, ragioni di contrasto con la teoria e la ricerca ecologica, che hanno da tempo posto in risalto quanto la struttura e il funzionamento degli ecosistemi dipendano dalle vicende pregresse; d’altra parte la stessa prospettiva ecologica, nel pensiero di studiosi come Bateson o Lorenz, si dilata ad abbracciare anche i processi culturali.

Il contributo della storia e della geografia storica si È rivelato per contro fondamentale soprattutto nei paesi europei, i cui paesaggi sono direttamente fondati sulla storia abitativa e su processi complessi di acculturazione (“memorie in cui si registra e sintetizza la storia dei disegni territoriali degli uomini”, come diceva il Sereni, 1961), indipendentemente dal fatto che l’uomo sia tuttora presente.

Lo scavo dei palinsesti territoriali coi metodi dell’archeologia del paesaggio (Sereno, 1983) consente di portare alla luce i tratti profondi, le geometrie latenti, le regole trasformative dei testi paesistici, mentre la prospettiva storica illumina i processi soggiacenti, quel che non si vede e che È spesso più importante di ciò che È immediatamente afferrabile con lo sguardo (Gambi, 1961).

I contributi dell’antropologia culturale, della sociologia ambientale e della geografia umanistica, che implicano “il definitivo superamento, nella cultura europea, della tradizionale contrapposizione tra mito e logos” (Quaini,1992), si ricollegano peraltro al pensiero fondativo del paesaggio geografico. Questo ci accosta ad un’altra dimensione del paesaggio, quella semiotica ed estetica, che, del tutto assente dall’analisi ecologica, È forse quella su cui si È registrato negli ultimi anni un più vivace risveglio d’interesse. Se si riconosce il ruolo culturale del paesaggio - di ogni paesaggio, indipendentemente dalla qualità dei suoi contenuti culturali - È perchÈ lo si considera come un processo di significazione (Barthes, 1985) e, quindi, come un fenomeno di comunicazione sociale (Eco, 1975).

Di per sÈ , il riconoscimento della funzione estetica del paesaggio non È certo una novità. Il paesaggio occupa infatti un posto di rilievo nella storia dell’arte (Clarck, 1976) e persino le sue descrizioni più primitive, come i graffiti preistorici, sono state interpretate come espressioni artistiche ed insostituibili testimonianze “culturali” (Jellicoe, 1987). In particolare in Italia la tradizionale attenzione per gli aspetti estetici del paesaggio ha trovato riscontro nel Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004. Ed anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, soprattutto a partire dagli anni Settanta, l’interesse per i valori estetici del paesaggio (o più precisamente per quelli “scenici” o visivi) ha stimolato una vasta produzione di piani e di ricerche.

Ma l’interpretazione semiologica del paesaggio pretende molto di più. Se infatti si riconosce il duplice fondamento - naturale e culturale - dell’esperienza paesistica, occorre anche riconoscere che il sistema segnico costituito dalla sostanza sensibile del paesaggio non può in alcun modo tradursi in un insieme “dato” di significati: la semiosi paesistica È un processo sempre aperto (Dematteis, 1998). La dinamica delle cose -l’ecosfera -È inseparabile dalla dinamica dei significati -la semiosfera - e quindi dai processi sociali in cui questa si produce (Dematteis, 1998). Ma, se questo È vero, allora il paesaggio non può essere quello, cognitivamente perfetto (Socco, 1998), che forma oggetto delle scienze della terra. Esso È spazio di semiosi aperta, non racchiudibile nelle semiosi scientifiche delle varie discipline. » in questa dinamica apertura che si collocano e debbono essere indagate le sue funzioni simboliche e metaforiche, i suoi depositi mitici e memoriali, le sue funzioni narrative e le sue funzioni propriamente estetiche.

CosÏ, se il paesaggio È teatro (Turri, 1997), non È tuttavia un teatro “dato”, con le sue scene fisse e i suoi fondali immobili, dove soltanto gli attori e gli spettatori possono cambiare; l’autorappresentazione, che consente agli attori locali di “prendere le distanze” dalle vicende rappresentate diventando spettatori di se stessi, ricostruisce continuamente il teatro stesso o almeno il significato che esso assume per chi partecipa in vario modo all’azione teatrale.

 

Il paesaggio come chiave interpretativa

Le considerazioni di cui sopra dimostrano che il paesaggio non può essere adeguatamente compreso all’interno di un solo ambito disciplinare, pena il rischio del riduttivismo: “vedere gli alberi e perdere di vista il bosco” (Tricart e Kilian,1985). Ma una adeguata considerazione delle diverse dimensioni del paesaggio, quale quella sollecitata dalla CEP, non può trovare riscontro nel semplice allargamento del ventaglio di discipline coinvolte dalla questione paesistica. Non si tratta tanto di considerare qualche aspetto in più, ma di ripensare l’intera questione paesistica in termini più complessi. » in questa direzione che assume interesse l’interpretazione del paesaggio, passaggio cruciale tra la ricognizione e il progetto di paesaggio. Si tratta di un’interpretazione tendenzialmente olistica, che non può nascere dal semplice accostamento delle molteplici letture disciplinari, ma richiede che esse interagiscano confrontandosi e fecondandosi a vicenda.

Un quadro interpretativo unitario, in cui confluiscano le diverse letture specialistiche, volto ad evidenziare i fattori e i caratteri di base, relativamente stabili, permanenti o di lunga durata, destinati a guidare le politiche di tutela, di gestione e di pianificazione, assumendo valore condizionante nei confronti dei processi di trasformazione. Tali fattori - che in varie esperienze e legislazioni sono evocate col termine di invarianti strutturali - esprimono in sostanza le “regole costitutive” da cui nessuna scelta di piano può prescindere e rappresentano la parte meno negoziabile delle scelte di piano.

Per miglior comprensione essi possono essere inquadrati nella seguente articolazione:

A fattori strutturanti

B fattori caratterizzanti;

C fattori qualificanti;

D fattori di criticità o di degrado.

I fattori cosÏ definiti possono essere incrociati coi diversi profili di analisi specialistica del territorio in esame: profili che naturalmente possono essere diversi nelle diverse situazioni, in funzione della varia rilevanza che ogni problematica settoriale può assumere in ciascuna situazione.

Quali ad es.:

1. aspetti fisici (geologici, geomorfologici, climatici, idrogeologici, pedologiciÖ);

2. aspetti biologici (flora e vegetazione, fauna, ecologia, attività agroforestaliÖ);

3. aspetti storico-culturali (storia e geografia del territorio, matrici storiche, patrimonio culturale..);

4. aspetti insediativi e infrastrutturali (urbanistica e organizzazione del territorio, sistemi e morfologie insediative, infrastruttureÖ);

5. aspetti paesistico-percettivi (apparati percettivi e sistemi segnici, sistemi di relazioni visiveÖ). L’interpretazione strutturale del territorio È un passo importante verso l’identificazione dei paesaggi, opportunamente prevista dalla Convenzione Europea del Paesaggio. A questo riguardo, notevole rilievo possono assumere le Unità di paesaggio (UP) oggetto negli ultimi decenni di una vasta gam ma di programmi di ricerca assai diversificati. La loro utilità consiste nel proporre una articolazione del territorio che colga forme significative di caratterizzazione, coesione o solidarietà paesistica (idrogeomorfologiche, ambientali, storico-culturali, insediative, paesistico-percettive, visive, ecc.).

Il concetto di unità di paesaggio (UP) può essere utilmente accostato a quello di “unità ambientale” (EU).

Il concetto di Environment Unit (EU), elaborato negli ultimi decenni, nel quadro della Landscape Ecology, come strumento di una rappresentazione olistica del paesaggio, che tende ad individuare porzioni significative di territorio, organizzate “unitariamente” in un determinato e preciso livello spazio-temporale (Zonneveld, 1989).

Queste articolazioni possono poi essere confrontate con quelle che colgono gli aspetti economici e sociali dell’organizzazione del territorio (come i “sistemi locali territoriali”, SLOT: Dematteis, Governa, 2005), nonchÈ con l’articolazione istituzionale-amministrativa del territorio (Regioni, Province, Comuni, od altre), nella quale si sviluppano i processi di regolazione pubblica delle dinamiche territoriali ed ambientali. E’ importante notare che tutte queste articolazioni, a parte l’ultima, appaiono, di per sÈ , fondate su differenti categorie analitico-interpretative, consolidate nell’ambito dei diversi statuti disciplinari; e, perciÚ, mutuamente irriducibili. Il loro confronto non può quindi tendere ad una improponibile “collimazione”; ma deve piuttosto tendere a porre in evidenza le diverse solidarietà che si manifestano nel territorio (e che possono talora tradursi in vere e proprie “indivisibilità” quali quelle da tempo frequentate dall’analisi economica) e che configurano i diversi “tessuti relazionali”. » questa una condizione essenziale per dare senso concreto a quella “territorializzazione” delle politiche di tutela paesistica-ambientale che caratterizza sia i “nuovi paradigmi” per la conservazione della natura, che la concezione di fondo espressa dalla CEP.

Non È infatti un caso che l’innovazione forse più importante introdotta dal Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 sulla scia della CEP riguardi proprio l’articolazione della pianificazione paesaggistica per Ambiti di paesaggio, a ciascuno dei quali vanno associati obiettivi specifici di “qualità paesaggistica”. Questa articolazione consente di spostare decisamente l’attenzione dai “beni paesaggistici” - sui quali si È tradizionalmente incentrata l’azione di tutela - ai diversi contesti paesistici che prendono forma nel territorio complessivo.

L’interpretazione strutturale del territorio offre un potente contributo alla valutazione dei paesaggi, altro passaggio cruciale verso il progetto di paesaggio. Più precisamente, essa, con l’identificazione delle UP, consente di procedere alla “caratterizzazione” paesistica dei siti, che comporta la evidenziazione:

  • dei valori da tutelare e delle poste in gioco;

  • dei rischi, delle minacce e delle pressioni incombenti;

  • delle relazioni col contesto territoriale;

  • dei soggetti e degli interessi coinvolti.

Ma È opportuno notare che, nella prospettiva delineata dalla CEP, lo scopo non È tanto (o soltanto) quello di orientare la disciplina delle forme di tutela, quanto più ampiamente quello di orientare l’attivazione degli “strumenti di intervento volti alla salvaguardia, alla gestione e/o alla pianificazione dei paesaggi”, in funzione “degli obiettivi di qualità paesaggistica” stabiliti, “tenendo conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate” (art.6).

Il riconoscimento da parte dei vari soggetti di fattori o componenti che svolgono ruoli diversi nel modellare i paesaggi e nel definirne le qualità e i rischi, rappresenta un contributo insostituibile al confronto “argomentato” delle rispettive scelte di tutela e di governo. La possibilità di un confronto argomentato delle interpretazioni e delle valutazioni È alla base di ogni strategia autenticamente cooperativa.

Nella prospettiva delineata dalla CEP, tali interpretazioni rappresentano inoltre uno strumento importante per collegare la conoscenza scientifica a quella diffusa od ordinaria e per recuperare le “sapienze ambientali” locali, quali quelle riflesse nelle “buone pratiche” tradizionali. Nonostante gli sforzi degli esperti per ancorare le loro valutazioni ad analisi storiche o scientifiche relativamente stabili e il più possibile sottratte all’arbitrarietà ed all’impressionismo dell’osservatore, non c’è dubbio che la determinazione dei valori È sempre lontana dal potersi esprimere in termini univoci ed assoluti, è sempre immersa in processi socioculturali più o meno complessi e dagli esiti incerti.

La costruzione di nuove interpretazioni (e dunque di nuove immagini) paesistiche, soprattutto in presenza di paesaggi gravemente alterati o degradati che richiedono interventi creativi di riqualificazione, non può infatti configurarsi come materia esclusiva per esperti, poichÈ richiede invece processi aperti di apprendimento collettivo e di progettualità sociale.

 

Il progetto di paesaggio

L’interpretazione strutturale e l’identificazione dei paesaggi sono un ponte che collega la fase ricognitiva alle opzioni di fondo che guidano, anche in assenza di esplicite “deliberazioni”, le politiche di protezione e d’intervento. Il riconoscimento dei fattori “invarianti” e delle solidarietà che definiscono le UP, il modo stesso di “guardare” il paesaggio, presuppongono sempre una più o meno tacita intenzione di tutela o valorizzazione.

La progettualità del paesaggio si manifesta anche per quei paesaggi che, in ragione della loro rilevanza e della loro integrità, sembrano doversi sottrarre ad ogni dinamica trasformativa, per essere conservati rigorosamente allo stato attuale. Questa osservazione conduce ad interrogarsi sul significato che può essere oggi attribuito alla conservazione. Sul piano della prassi prima ancora che dei principi, il contenuto delle azioni conservative È progressivamente cambiato negli ultimi decenni, sia nel campo della conservazione della natura che nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Gambino, 1997).

Sia nell’uno che nell’altro campo, È apparso sempre più chiaro che una efficace conservazione dei valori non può essere assicurata con mere misure di inibizione, di limitazione o di divieto (anche se tali misure sono spesso assolutamente indispensabili), ma richiede azioni positive di gestione e innovazione, volte, a seconda dei casi, a rimuovere i fattori di rischio o di degrado, ad attivare processi di risanamento o riqualificazione, a superare le criticità in atto. I “nuovi paradigmi” per la conservazione della biodiversità (IUCN, 2003 e 2004) declinano le azioni conservative in forme assai diversificate. Analogamente la Convenzione del 2000 prefigura politiche del paesaggio mirate non solo alla protezione ma anche alla gestione e alla pianificazione Più in generale, le riflessioni e le esperienze degli ultimi decenni per il patrimonio culturale hanno ribadito l’affermazione della Carta di Gubbio (ANCSA, 1990) secondo la quale non può esservi autentica conservazione senza la produzione di nuovi valori, ed anzi la conservazione ‘, per la società contemporanea, “il luogo privilegiato dell’innovazione”.

In questo contesto dinamico, la pianificazione paesaggistica È costretta a ridefinire le sue missioni. Crescono l’importanza e la complessità della missione conoscitiva e valutativa, volta a consentire a tutti i soggetti interessati di prendere coscienza dei valori e delle poste in gioco, dei rischi e delle minacce incombenti, delle opportunità e delle potenzialità, delle risorse mobilitabili, dei soggetti e degli interessi toccati. Cambia la missione regolativa, volta a definire vincoli, limitazioni, misure specifiche di disciplina e di governo dei processi di trasformazione territoriale, in funzione degli obiettivi assunti. Tale missione deve sempre più svolgersi in un orizzonte istituzionale e normativo in radicale mutamento, caratterizzato dalla complessificazione dei processi decisionali, dal crescere delle istanze cooperative e delle esigenze di flessibilità delle azioni di governo.

Cresce la rilevanza politica della missione di orientamento strategico, volta a proporre visioni, idee-guida e linee strategiche, da discutere e condividere con una pluralità di soggetti, istituzioni e stakeholders, a vario titolo interessati e dotati di relativa autonomia decisionale, al fine di promuovere politiche coordinate o convergenti. Ciò mette inevitabilmente in discussione le logiche e i contenuti della pianificazione.

Un primo punto problematico riguarda il processo di pianificazione, in rapporto ai soggetti che vi intervengono e al campo d’attenzione.» evidente che questo deve opportunamente allargarsi, sia in termini spaziali, sia in termini di contenuti disciplinari. Il campo d’attenzione si sposta infatti dai singoli oggetti o dalle singole risorse naturali e culturali ai sistemi di relazioni, ai contesti e alle reti in cui esse si situano: È precisamente il “metterle in rete” e “metterle in scena” che costruisce o modifica il paesaggio. Ciò vale per gli aspetti ecologici (basti pensare all’importanza crescente delle reti ecologiche di interconnessione) ma anche per quelli storico-culturali e per quelli scenici e percettivi. A questo allargamento del campo d’attenzione corrisponde necessariamente l’allargamento della platea di soggetti coinvolti, almeno potenzialmente, nel processo di pianificazione. Cade la possibilità di individuare un unico referente istituzionale e si impone un approccio pluralistico, in cui soggetti diversi, che operano a scale diverse, in settori diversi e con diverse competenze, responsabilità e capacità decisionali, sono chiamati a confrontarsi e collaborare. Questa tendenza implica esigenze di flessibilità e reversibilità delle scelte non certo facili da conciliare con le esigenze di efficacia regolativa, che scaturiscono dalla inviolabilità dei valori ambientali, paesistici e culturali e dal ruolo primaziale che, nel nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, si attribuisce alla pianificazione paesaggistica.

Un secondo nodo problematico riguarda la sua integrazione nell’insieme delle attività di governo del territorio. Il riconoscimento della “territorialità” del paesaggio rende ragione dell’esigenza (espressa dalla CEP, art.5), di “integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonchÈ nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio”. Ciò implica un confronto continuo con un insieme assai vasto di piani e programmi, allo scopo di coordinarne o armonizzarne le scelte, sulla base di una valutazione comparativa degli interessi in gioco. La valutazione deve consentire di perseguire la “risoluzione negoziale” dei conflitti, che può, in linea di principio, dar luogo ad esiti di comune soddisfazione, in presenza di giochi a somma positiva. Ma l’esperienza insegna che molto spesso gli interessi pubblici alla conservazione del patrimonio paesistico e culturale sono difficili da conciliare con quelli, pubblici o privati, volti a favorire lo sviluppo economico e produttivo; in questi casi occorre riconoscere il primato dei primi rispetto ai secondi, come già esplicitamente prevede la nostra Costituzione. In questa direzione, l’interpretazione strutturale del territorio (con l’individuazione delle “invarianti”) può offrire un supporto prezioso.

Un terzo nodo problematico concerne la governance dei processi di trasformazione territoriale suscettibili di incidere sul paesaggio. La pianificazione paesaggistica può svolgere un ruolo rilevante. Essa può anzitutto favorire, mediante la produzione e l’accumulo di conoscenza “esperta” e la sua interazione con quella “diffusa”, a tutti i livelli, la crescita della sensibilità e del senso di responsabilità nei confronti del patrimonio paesistico e delle sue modificazioni attese o temute. Mediante la costruzione di una organica interpretazione del territorio e delle sue espressioni paesistiche e di un quadro strategico di riferimento, può concorrere alla diffusione di “nuove idee” e nuove visioni dei paesaggi interessati e stimolare azioni positive e convergenti di valorizzazione e di tutela. Mediante le misure di disciplina e gli indirizzi d’intervento, può concorrere a modificare i comportamenti lesivi del paesaggio, favorire le best practices, innovare le pratiche gestionali e i modelli di sviluppo.

Ma, affinchÈ tutto ciò si realizzi, occorre anzitutto che i sistemi di governance multilaterale trovino spazi e procedure adeguate di pubblica consultazione e di effettivo coinvolgimento e partecipazione nei processi di pianificazione, a partire dalle percezioni e dalle attese delle comunità locali e dalle loro attribuzioni di valore, fino alle scelte di gestione e di intervento proposte dal piano. In un processo democratico di decisione, il confronto degli interessi e delle attese È confronto aperto e trasparente di valori, compresi quelli identitari, di cui il paesaggio È fondamento. Ma perchÈ il confronto non si riduca allo scontro tra valori assoluti e identità esclusive e inconciliabili (“la tirannia dei valori”: Zagrebelsky, 2008) occorre che essi trovino il loro limite nei diritti e la loro ispirazione ultima nei grandi principi universali.

 

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