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La Pianificazione Paesaggistica

LA PIANIFICAZIONE PAESAGGISTICA

CORSO DI FORMAZIONE SU PIANIFICAZIONE, REGIONE PIEMONTE 3/10/07

Roberto Gambino

 

  1. La questione del paesaggio come questione europea

 

1.1. In una delle sue più intriganti parabole, Borges narra di un pittore che si propone di disegnare il mondo, ritrae paesaggi e si accorge, alla fine, “che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. Il paesaggio è l’autoritratto di un uomo come della società, coi suoi lineamenti fisici, le sue vicende e le sue speranze di vita: lega ciò che si vede a ciò che è vissuto. Dietro alle incessanti modificazioni dei paesaggi, alle ferite, alle mutilazioni e alle nuove configurazioni da esse prodotte, si delineano le trasformazioni della territorialità umana, dei modi con cui la nostra società abita la terra. E’ nei processi economici, sociali e culturali che attraversano il territorio la radice dei mutamenti dei paesaggi della contemporaneità, come del resto è sempre avvenuto nel corso della storia, visto che non c’è ecosistema che non risulti almeno in parte modificato dalla cultura umana (Schama, 1997). E’ nel territorio il terreno di scontro degli interessi che premono sui paesaggi e ne sollecitano i mutamenti. E’ su quel terreno che occorre cercare risposte a quel groviglio di ansie e di paure, di speranze e disincanti da cui nasce la crescente “domanda di paesaggio” della società contemporanea. Una domanda in nessun modo riducibile alla “deriva estetizzante di una società sazia, [che] al contrario è il segno che l’uomo tende a riallacciare i suoi legami con la terra, che la modernità aveva dissolto” (Berque, 1995). Una domanda che tende ad incarnarsi in nuovi “diritti di cittadinanza” (come il diritto alla bellezza o alla qualità dell’ambiente di vita) e che non può trovare risposta in operazioni “cosmetiche” o di semplice razionalizzazione degli apparati di tutela messi in campo dalle diverse istituzioni che si interessano di paesaggio. La “questione del paesaggio” è in questo senso una questione squisitamente territoriale: o, più precisamente, di politica territoriale. Il che, naturalmente, non significa affatto che paesaggio e territorio sian tutt’uno; chè anzi, proprio il riconoscimento dell’imprescindibile territorialità del paesaggio ne pretende la distinzione dal territorio che vi si esprime.

 

1.2. Non v’è dubbio che, alla luce dell’art.9 della Costituzione e delle interpretazioni ripetutamente affermate dalla Corte, la questione del paesaggio così concepita è una grande questione nazionale. Ma essa è anche e prima di tutto una grande questione europea. I mille paesaggi europei sono i mille volti dell’Europa: di un’Europa ancora in cerca di se stessa e della propria identità. E che la cerca non contro altre identità, ma nel dialogo, nell’inclusione e nella diversità. (Gambino, 2004). La diversità paesistica che caratterizza così plasticamente il continente europeo è il fondamento e l’espressione della sua diversità ecologica e culturale, vale a dire della principale ricchezza su cui l’Europa può basare il proprio ruolo nell’arena mondiale. Da questo punto di vista il paesaggio non può non essere considerato come una risorsa strategica per lo sviluppo durevole e sostenibile dell’intero continente (come parzialmente riconosce lo stesso “Schema di sviluppo dello spazio europeo”: UE 1999). D’altra parte, le rivendicazioni localiste non possono indurre ad ignorare che la considerazione della dimensione europea nelle politiche del paesaggio è sempre più imperiosamente reclamata dall’evoluzione stessa dei problemi da affrontare. In generale, questa evoluzione comporta una crescente complessificazione e, assai spesso, un vero e proprio “salto di scala”, che esigono apparati di controllo ed azioni di governo a scala sovra-locale: regionale, nazionale ed internazionale. Più specificamente, gran parte dei problemi implicati nelle politiche del paesaggio nel nostro paese dipende in misura crescente da dinamiche e politiche che maturano a livello europeo, in particolare in seno all’Unione Europea: basti pensare all’incidenza, spesso disastrosa, che le politiche agricole comunitarie (PAC) orientate in senso produttivistico hanno esercitato nei confronti dei paesaggi agrari e dello spazio rurale (in termini di omologazione o smantellamento delle antiche trame colturali o di cancellazione dei “paesaggi di piccola scala” di grande valore estetico ed ecologico); o all’impatto paesistico ed ambientale dei “grands réseaux” infrastrutturali, obbedienti a logiche del tutto avulse dalle realtà territoriali locali e indifferenti ai loro contesti paesistici. Da notare, in entrambi gli esempi, che il rapporto di dipendenza delle dinamiche paesistiche locali dalle politiche europee può essere volto in positivo: nuove PAC sono attese proprio per sostenere concretamente la rivalorizzazione degli spazi rurali, così come nuove politiche infrastrutturali possono contribuire in modo non marginale a celebrare la diversità dei paesaggi europei.

 

1.3. Per quanto sorretta da evidenze empiriche come quelle testè citate, la considerazione della questione del paesaggio come questione di politica territoriale non manca di mettere in discussione la riflessione scientifica e culturale, i quadri giuridici e istituzionali e gli approcci metodologici finora dominanti. Già nel 1977, Claude Raffestin sottolineando lo stretto rapporto tra paesaggio e territorialità, tra “vu” e “vecu”, incitava a cercare in una nuova geografia della territorialità umana ciò che si cela dietro alle forme del paesaggio. La sua posizione non era certo isolata ed affondava le radici in una lunga e prestigiosa tradizione del pensiero geografico, a partire almeno da von Humboldt (1860), non certo esente, peraltro, da differenze, contrasti e contrapposizioni non sempre adeguatamente percepite dall’esterno della disciplina. Ma quella posizione era allora certamente minoritaria nel campo degli studi, della pianificazione e delle pratiche gestionali riguardanti il paesaggio. Il paesaggio era allora (com’è tuttora) terreno di convergenza ma anche luogo dei sentieri che si biforcano. Mentre in alcuni paesi europei, in primo luogo l’Italia, perdurava una concezione essenzialmente “estetica” del paesaggio, che esplicitamente comportava il distacco del paesaggio dal paese reale, si era ormai affermata a livello internazionale quella “svolta ecologica” che doveva dominare, nel bene e nel male, nei decenni successivi la cultura del paesaggio, o più precisamente del “landscape” o “landshaft”.

 

1.4. Il ruolo egemone assunto, soprattutto a partire dagli anni ’60 e ’70, dalle scienze della terra e dal “paradigma ecologico” negli studi e nella pianificazione del paesaggio, trova ovvie spiegazioni nella solidità dell’impianto teorico offerto dalla Landscape Ecology (da C.Troll, 1939, a Naveh, Forman; Godron e altri), ma anche nell’importanza dei rapporti col “land” nella cultura americana (Steiner 1998), e nell’influenza profonda dei miti della natura nelle origini specifiche delle civiltà americane preesistenti alla colonizzazione (Schama, 1997). D’altra parte, non si può negare che la fede nelle scienze esatte, che aveva consentito a Jan McHarg (riprendendo le lezioni degli Odum, dei Leopold, di Angus Hill e di Philip Lewis) di propugnare polemicamente negli anni ’60 l’”ecological determinism” (1966), ha svolto nei decenni successivi un importante ruolo di contrasto nei confronti non soltanto del confuso impressionismo degli approcci estetizzanti o dell’arroganza progettuale della “landscape architecture”, ma anche del funzionalismo economicista e delle logiche della crescita implicite nell’”amenagement du territoire” non meno che nelle tendenze alla deregolamentazione selvaggia. Essa ha evidenziato la violenza implicita nel “maitriser la nature” (Marcuse), e i tragici errori del movimento moderno tra le due guerre, rimettendo in discussione i fondamenti culturali della manipolazione estetica della natura (il “plaisir superbe de forcer la nature”: Saint Simon). Ma il “paradigma ecologico”, nonostante le sue pretese globalizzanti, è mancato all’appuntamento più importante, quello appunto col territorio. D’altra parte, né l’interpretazione estetica (che in Italia ha trovato solido fondamento nel pensiero di Benedetto Croce), né quella semiologica (il paesaggio come processo di significazione: Barthes, 1985) sembrano in grado di cogliere l’essenza della territorialità del paesaggio. E’ in gioco il ruolo dell’osservazione e della conoscenza nel “progetto di paesaggio”, visto che “non c’è paesaggio senza progetto” (Bertrand, 1998). La conoscenza e la comprensione del paesaggio nascono in effetti da sintesi olistiche ed interpretazioni polisemiche di sguardi differenti ed instaurano col progetto rapporti carichi d’ambiguità e di interrogazioni, destinati a scardinare ogni pretesa d’oggettività e neutralità nei riconoscimenti di valore: il paesaggio non è mai un dato (Gambino 1997).

 

1.5. E’ in questo contesto fluido e problematico che si è mossa la Convenzione Europea del Paesaggio (CE, 2000), con la quale il Consiglio d’Europa ha ritenuto di affrontare la questione europea del paesaggio. La Convenzione (CEP) consacra politicamente gli orientamenti emergenti dalle riflessioni, dal dibattito e dalle sperimentazioni a livello internazionale, affermando alcune opzioni di fondo:

  1. l’affermazione inequivoca che gli obiettivi di qualità paesistico-ambientale da perseguire non riguardano pochi brani di paesaggi di indiscusso valore (nella logica delle “bellezze naturali” o delle “emergenze sceniche” o panoramiche o di beni specifici e circoscritti) ma riguardano l’intero territorio, “gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani […] i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana sia i paesaggi degradati” (art.2);

  2. il pieno riconoscimento del significato complesso del paesaggio in quanto “parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”(art. 1a) e “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità”;

  3. il sistematico riferimento ai “soggetti interessati” o “coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche”, anche per quanto concerne la valutazione delle risorse paesistiche, che deve “tener conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate” (art. 5c, 6C) e le conseguenti procedure di consultazione e partecipazione.

 

2. La centralità della pianificazione

 

2.1.Le indicazioni della CEP hanno rilevanti implicazioni sulle politiche pubbliche per il paesaggio. In primo luogo, esse pongono l’esigenza di una regolazione pubblica dei processi che incidono sul paesaggio, di ben maggiore impegno di quella tradizionalmente affidata alle misure di “vincolo” su singoli oggetti individualmente considerati. Queste misure infatti appaiono del tutto incapaci di esprimere una considerazione olistica, dinamica e sistemica dei processi da controllare, sia sotto il profilo dell’articolazione spaziale (che deve riguardare l’intero territorio e non singoli oggetti), sia sotto il profilo dei contenuti da sviluppare (che devono tener conto congiuntamente delle valenze ecologiche, storico-culturali, estetiche e semiologiche, ecc.), sia, ancora, sotto il profilo previsionale ed evolutivo. Per rispondere a queste esigenze, l’azione regolatrice deve essere guidata non solo da forme adeguate di conoscenza “contestuale”, ma anche – come si è già notato – da opzioni progettuali, atte a prefigurare i risultati attesi, in rapporto agli “obiettivi di qualità” (CEP, art. 6D) che si intendono perseguire. Inoltre, l’azione regolatrice deve portare ragioni delle sue scelte, motivarle e giustificarle in modo da consentirne la “certificazione sociale” nel quadro di processi “partecipati” di formazione delle scelte e di attribuzione dei valori (CEP, art.5c).

 

2.2. E’ interessante notare che analoghe esigenze si sono negli ultimi 15-20 anni imposte all’attenzione anche in altri campi d’azione pubblica, segnatamente:

- nel campo della conservazione della natura, con l’orientamento a “territorializzare” le politiche ambientali (UNDEP, 1992), ad esempio con approcci “bioregionali”, o con i “nuovi paradigmi” per le politiche dei parchi e delle aree protette (IUCN, 2003, 2004);

- nel campo della tutela del patrimonio storico-culturale, con lo spostamento d’attenzione dai singoli beni ai centri storici, al territorio storico (ANCSA 1990, 2006) e ai “sistemi culturali territoriali” (Euromed, 2003).

In tutti questi campi, come in generale nel campo delle politiche ambientali e territoriali, si avverte in sostanza l’esigenza di azioni più efficaci di regolazione pubblica, a fronte dei nuovi rischi e della complessificazione dei problemi, della comprovata inadeguatezza degli approcci puntuali e settoriali, dell’urgenza di politiche di prevenzione, meno segnate dalle logiche dell’emergenza e della riparazione. Ed è sintomatico che tale esigenza trovi riscontro, a livello legislativo, nella centralità attribuita alla pianificazione territoriale ed alle sue declinazioni specialistiche. Per limitarci al caso italiano, il primo segnale di svolta può essere fatto risalire alla L.431/1985 (legge Galasso) che appunto fonda l’azione di tutela del paesaggio sulla pianificazione paesistica (o sulla “pianificazione urbanistica e territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”) affidata alle Regioni. Pochi anni dopo, la L.183/1989, ristrutturando organicamente l’intera materia della difesa del suolo e della gestione delle acque, pone al centro la “pianificazione di bacino”, affidata alle Autorità di bacino, rompendo una lunga tradizione di intervento sostanzialmente basata sulle “opere pubbliche” settorialmente individuate. A breve distanza di tempo, la L.394/1991 fonda la gestione dei parchi sui “piani dei parchi”, sostitutivi di ogni altro piano nel territorio protetto. Nel corso degli anni ’90 numerosi altri provvedimenti hanno integrato quelli ora citati, ribadendo il ruolo della pianificazione, fino al recente Codice dei beni culturali e del paesaggio (Dlgs 42/2004) che, riprendendo ed estendendo a quasi vent’anni di distanza il dettato della “legge Galasso” del 1985, mette l’accento sulla pianificazione “paesaggistica” come strumento chiave per le nuove politiche del paesaggio.

 

2.3. Non è certo un caso che la centralità attribuita dal Codice alla pianificazione paesaggistica coincida, almeno nelle intenzioni, col recepimento delle innovative indicazioni della CEP. In altri termini, sembra plausibile che, per raccogliere le sfide lanciate dalla Convenzione, il legislatore nazionale non potesse che puntare sulla pianificazione: come recita l’art.135 (prima delle recenti modifiche), al fine di assicurare “che il paesaggio sia adeguatamente tutelato e valorizzato […] le Regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio, approvando piani paesaggistici ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio regionale”. A parte il necessario richiamo alla “legge Galasso”, e l’estensione del suo campo d’applicazione all’intero territorio (estensione di per sé non particolarmente significativa, ove si consideri che le aree tutelate in base a tale legge coprivano già circa la metà del territorio nazionale), il superamento della concezione “elitaria” implicita nella vecchia legislazione e soprattutto nelle pratiche tradizionali di protezione del paesaggio (caratterizzata dalla tutela di un numero limitato di “beni” isolati e raccolti in appositi elenchi) e l’avvio di politiche più efficaci di tutela e valorizzazione non poteva che sollecitare il ricorso alla pianificazione urbanistica e territoriale o quanto meno a forme speciali di pianificazione (territoriale) paesaggistica. Passo obbligato, per dare adeguato riscontro agli impegni fissati dalla CEP, in particolare con l’art. 5d, che richiede di “integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere una influenza diretta o indiretta sul paesaggio”.

 

2.4. Tuttavia, il confronto tra l’evoluzione legislativa italiana in materia di paesaggio e la CEP è più complicato. Intanto, va segnalato che la Convenzione usa in più luoghi (ad es. artt. 1f, 6B-b, 6E) il termine di “pianificazione del paesaggio” con significato certamente diverso da quello attribuitogli nella legislazione nazionale. Accostandolo ai termini di “salvaguardia” e “gestione”, essa non intende palesemente alludere ad uno strumento di gestione (Priore, 2006), quanto piuttosto ad una modalità d’azione, in qualche misura vicina a quella evocabile con l’“amenagement” usato nella traduzione francese. D’altronde, non è casuale che manchi nella CEP una precisa identificazione degli strumenti amministrativi con cui attuare le politiche del paesaggio: sia perché la Convenzione fa riferimento anche ad un’ampia gamma di misure e attività (come quelle di sensibilizzazione, educazione e formazione) non riconducibili agli strumenti della pianificazione territoriale, sia perchè la scelta degli strumenti non può che dipendere dai quadri istituzionali e legislativi dei singoli paesi membri, che presentano al riguardo notevoli difformità.

 

 

2.5. L’impulso che la CEP ha inteso imprimere alle politiche europee del paesaggio va ben oltre ciò che può essere richiesto ai singoli strumenti amministrativi e riguarda un insieme vasto e articolato di azioni pubbliche. In questo quadro, cambiano notevolmente le missioni che possono essere assegnate alla pianificazione territoriale paesaggistica – se con questo termine vogliamo alludere non tanto a singoli atti amministrativi, quanto piuttosto a processi politico-amministrativi che riguardino l'intero territorio con particolare attenzione per il paesaggio (espressione volutamente generica, che può ricomprendere le varie articolazioni previste dal Codice 2004 e/o messe in campo dalle Regioni a partire dalla L.431/1985 o dalle successive legislazioni regionali).

 

2.6. La prima missione ad essere messa in discussione è quella propriamente regolativa. Se infatti è vero che la pianificazione è stata ed è sollecitata a supportare, come si è prima osservato, più efficaci azioni pubbliche di regolazione dei processi di trasformazione, non è meno vero che tale regolazione deve attuarsi in contesti politici e sociali caratterizzati sempre più dal pluralismo dei soggetti decisionali e dei portatori d’interesse, dall’indebolimento di molti dei tradizionali meccanismi di “comando e controllo”, dalle rivendicazioni autonomiste dei poteri locali, dalla difficile ricerca di forme efficaci di sussidiarietà e dalla stessa incertezza e aleatorietà degli scenari previsionali. Queste tendenze di fondo hanno da tempo scosso la fiducia nella pianificazione, messo in crisi i suoi paradigmi e i suoi statuti disciplinari, imposto ripensamenti profondi della cultura amministrativa e professionale che si occupa di pianificazione. Nel campo urbanistico, la critica ai modelli “conformativi” e agli ordinamenti “gerarchici” ha spostato l’attenzione sulle logiche “performative” dei piani, sulle esigenze di flessibilizzazione degli apparati normativi, oltre che sulle forme di partecipazione sociale alla formazione delle scelte e sui meccanismi valutativi di supporto. Ancora più significativa l’evoluzione degli orientamenti nel campo della conservazione della natura e delle politiche ambientali. Qui lo spostamento dalle tradizionali politiche top-down verso quelle bottom-up, col crescente riferimento al ruolo degli attori locali e alle forme di gestione cooperativa delle risorse (IUCN. 1996, 2003,2004) è stato particolarmente evidente, così da configurare un importante “shift in focus” nelle dichiarazioni emergenti a livello internazionale.

 

2.7. Ciò che accomuna le diverse tendenze nel caratterizzare le “nuove” missioni della pianificazione non è soltanto il nuovo modo di concepire “le regole” che essa è chiamata ad esprimere, ma anche e forse più l’importanza crescente attribuita alla sua dimensione “strategica”. In altri termini, alla sua capacità di esprimere, sulla base di visioni di lungo termine e di largo orizzonte, obiettivi ed indirizzi strategici condivisi da una pluralità di soggetti interagenti, mettendo in risalto le poste in gioco e gli interessi coinvolti, le priorità e le opzioni di fondo. In questa direzione, la pianificazione strategica rinuncia deliberatamente ad una funzione direttamente “normativa” per esercitare piuttosto una funzione di stewardship, di guida, seduzione e persuasione nel corso di processi decisionali complessi e aperti, i cui esiti non possono essere fissati del tutto a priori. In quanto strumento di “governance” più che di governo, la pianificazione strategica non implica affatto, di per sé, un indebolimento dell’efficacia dell’azione pubblica, poiché al contrario consente di allargare l’area di influenza e la platea dei soggetti coinvolti, favorendo la concertazione inter-istituzionale, la cooperazione tra i diversi portatori di interessi e la regolazione negoziale dei conflitti d’interesse non risolvibili per via autoritativa. Ciò sembra del tutto in sintonia con le raccomandazioni della CEP (art. 5c) volte ad “avviare procedure di partecipazione del pubblico, delle autorità locali e regionali e degli altri soggetti coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche”.

 

2.8. Se si accetta l’idea che la pianificazione paesaggistica non possa limitarsi a definire le misure di protezione passiva, ma debba esprimere un disegno strategico di politiche del paesaggio, capace di confrontarsi con i processi di degrado e le esigenze di gestione che concretamente si manifestano, occorre rivedere anche la tradizionale missione conoscitiva della pianificazione. Quanto più la pianificazione si esprime in orizzonti strategici caratterizzati dall’apertura, dall’inclusione e dall’interazione, tanto più essa deve essere in grado di produrre “conoscenza regolatrice”, di motivare e giustificare le scelte che propone e di valutarne gli effetti, di individuare i valori non negoziabili e i campi di negoziabilità, di sollecitare l’attenzione di tutti gli interessati per le poste in gioco: non si difende ciò che non si conosce (non è un caso che la CEP indichi come prima misura la “sensibilizzazione”: art. 6A). Il rafforzamento della funzione conoscitiva della pianificazione ha però importanti implicazioni:

  1. In primo luogo essa implica la capacità di offrire una lettura sintetica, inter– e trans-disciplinare del territorio e delle sue espressioni paesistiche, che non può risultare dal semplice accostamento delle letture settoriali. A tal fine è di grande interesse la sperimentazione in corso delle “interpretazioni strutturali” del territorio, esplicitamente richieste, seppure in modi diversi, da alcune legislazioni regionali (Toscana, Campania, Emilia-Romagna ed altre); esse, in sostanza, mirano ad evidenziare quegli elementi e quelle relazioni costitutive di lunga durata che possono essere considerate stabili o “invarianti” nei confronti di qualunque ipotesi di trasformazione.

  2. In secondo luogo, la conoscenza delle realtà in atto non può in alcun modo separarsi da quella delle loro possibili evoluzioni (non si possono separare le cose dal loro divenire) più o meno nfluenzate dalle scelte d’intervento. Ciò comporta l’introduzione nei processi di pianificazione di procedure di valutazione preventiva, esplicita e trasparente, quali quelle già in vigore (come le Valutazioni d’impatto, le Valutazioni d’incidenza, le Valutazioni ambientali strategiche), opportunamente arricchite per quanto concerne gli aspetti squisitamente paesaggistici.

  3. In terzo luogo, alla luce della CEP, la conoscenza e la valutazione dei paesaggi implicano la piena considerazione delle percezioni e delle attribuzioni di valore da parte “dei soggetti e delle popolazioni interessate” (art. 6C). Considerazione che sembra doversi e potersi allargare non solo alle comunità e agli attori locali –direttamente e stabilmente impegnati nella “produzione” del paesaggio (o nella sua “edificazione”, come diceva il Cattaneo riferendosi alla campagna milanese riorganizzata sotto l’impulso delle riforme teresiane), ma anche dei visitatori e dei “care taker” che in vario modo concorrono a modellare il paesaggio e le sue rappresentazioni (come ad es. avvenne nella “invenzione delle Alpi” tra Seicento ed Ottocento da parte dei visitatori europei).

 

  1. Problemi aperti

 

3.1. Le considerazioni di cui sopra lasciano intuire che la definizione del ruolo della pianificazione territoriale ai fini dell’attuazione della CEP è tutt’altro che semplice o scontata: si può anzi immaginare che costituisca uno dei temi di maggior rilievo che la Rete europea per l’attuazione della CEP (RECEP), in via di attivazione presso il Consiglio d’Europa, dovrà affrontare. Nel contesto italiano, il tema è indubbiamente complicato dalle incertezze interpretative e dalle aporie del Codice del 2004, anche alla luce delle modificazioni in seguito introdotte. L’entrata in vigore della CEP costringe infatti a discutere alcuni problemi di coerenza con gli indirizzi della Convenzione, che il Codice ha a in qualche misura lasciato aperti.

 

3.2. Il primo problema aperto riguarda il “focus” della pianificazione del paesaggio, il suo centro d’attenzione. Nella impostazione del Codice, essa ha due orientamenti compresenti, quella che fa riferimento ai “beni paesaggistici” (art.134), già tutelati per legge o individuati dai piani, e quella che fa riferimento agli “ambiti di paesaggio” (art. 135) in cui si ripartisce il territorio regionale in base alle caratteristiche naturali e storiche, a ciascuno dei quali sono attribuiti specifici obiettivi di qualità paesaggistica. Questo duplice orientamento riflette due diverse filosofie di politica del paesaggio:

  • nella prima, che ha trovato piena espressione nella Convenzione Europea, il paesaggio è un sistema che si articola in forme diverse, più o meno coerenti e pregevoli, in tutto il territorio; esso è di tutti e di ciascuno, la sua protezione risponde a diritti diffusi che riguardano il quadro di vita di ogni popolazione e non può prescindere dai legami d’appartenenza e identificazione che con essa si stabiliscono; la sua valorizzazione tende a coincidere con la valorizzazione del territorio, la sua “produzione” tende a saldarsi col suo “uso”, restituendo pienezza e qualità all’”abitare” il territorio; in questa filosofia, la politica del paesaggio richiede strategie d’azione per gestire i processi di trasformazione, il più possibile integrate, concertate tra i diversi soggetti aventi responsabilità di governo e condivise dai diversi portatori d’interesse;

  • nella seconda filosofia, (rappresentata al limite dalle Guidelines con cui l’Unesco inserisce determinati paesaggi culturali nel patrimonio mondiale dell’umanità, Iccrom 1998; ma rintracciabile anche nelle logiche con cui, in molti paesi, sono stati istituiti “paesaggi protetti” oggetto di particolare tutela, corrispondenti ad una delle categorie internazionalmente riconosciute: Iucn 1994), il paesaggio è una “emergenza”, un bene “eccellente”, di particolare o eccezionale valore, in quanto tale staccabile dal contesto territoriale; esso non “appartiene” alle popolazioni locali, la sua protezione risponde ad interessi universali o comunque sovralocali e può prescindere dalle relazioni che con esse si stabiliscono; la sua valorizzazione è, almeno in linea di principio, indipendente da logiche territoriali, il suo uso e la sua stessa specifica gestione tendono a staccarsi dai processi di produzione e dalle attività degli abitanti; in questa filosofia, la politica del paesaggio tende ad affidarsi soprattutto a regole di gestione, stabilite dalle autorità competenti e prevalenti su ogni pur legittima attesa di sviluppo.

 

3.3. Al di là del favore di cui le politiche delle “eccellenze” sembrano godere nell’attuale contesto politico, non si può negare che questa bipolarizzazione percorra il nuovo Codice, nella misura in cui esso da un lato riprende e precisa, nella linea della L.1497, l’attenzione per i beni di intrinseco valore paesaggistico, dall’altro allarga la considerazione dei beni paesaggistici a tutto il territorio e introduce il concetto degli “ambiti di paesaggio” in cui essi dovrebbero integrarsi e, per così dire, “territorializzarsi”. E’ anche importante notare che questa bipolarizzazione ha assai poco a che vedere con la contrapposizione “tra i vincoli e i piani” risalente ai dibattiti degli anni ’80, una contrapposizione schematica e quasi caricaturale, che ignora la complementarietà tra i due ordini di strumenti: i piani senza vincoli rischiano di ridursi a libri dei sogni, i vincoli senza piani rischiano di essere “ciechi e muti”. Ma la dilatazione del campo d’attenzione proposta dal Codice sembra lontana dal potersi tradurre in pratiche coerenti con la prima delle due filosofie sopra evocate. Non è un caso che nel Codice si faccia esclusivo riferimento ai “beni culturali” e ai “beni paesaggistici” quali oggetti distinti di tutela e mai ai sistemi di relazioni che li legano strutturando il territorio. La cosa non stupisce: l’idea che l’opzione conservativa debba allargarsi all’intero territorio sembra, in realtà, fragile e perdente di fronte alle minacce e ai rischi incombenti, come tipicamente le aggressioni dilaganti dell’abusivismo (incoraggiato dai ricorrenti condoni) o la svendita dei beni pubblici (accelerata dai contestati provvedimenti legislativi degli ultimi anni). L’urgenza dell’azione di difesa e la scarsità di risorse sembrano indurre più di ieri a concentrare gli sforzi sulle cose di maggior valore – come i monumenti, le aree naturali di maggior pregio, o i paesaggi di pregio eccezionale – o a cercare di “salvare il salvabile”. Di qui la corsa disperata e comprensibile delle nostre Soprintendenze a cercare rifugio negli elenchi delle cose intoccabili, dei tesori non negoziabili. Ma non si salva il paesaggio se non si salva il paese. Staccare i monumenti o le “bellezze naturali” dal variegato mosaico di paesaggi umanizzati (pur frequentemente deturpati o sconvolti dalle trasformazioni recenti) che costituisce il volto vero del nostro come di altri paesi europei, significa ignorare le ragioni profonde che stanno alla base dell’attuale domanda di qualità, il ruolo dei valori identitari e il radicamento territoriale delle culture locali, il rapporto costitutivo che lega la gente ai luoghi. Evitare questa spaccatura, d’altra parte, non vuol dire che si debba fare di ogni erba un fascio, negare il valore dei paesaggi eccezionali o il significato peculiare dei tanti impareggiabili paesaggi culturali che arricchiscono lo spazio europeo, stemperare l’azione di tutela nei paesaggi dell’ordinarietà, dell’anomia e del degrado che coprono ormai larga parte del territorio. Al contrario, allargare l’attenzione all’intero territorio è la strada obbligata per cogliere le differenze, diversificare l’azione di tutela, rispondere diversamente, nelle diverse situazioni, alla domanda di qualità.

 

3.4.Queste considerazioni introducono un secondo problema, riguardante il riconoscimento dei valori del paesaggio, toccato dal Codice in particolare negli artt. 135 e 143, recentemente modificati. E’ chiaro che la pianificazione, non solo per quanto concerne le misure specificamente poste a tutela dei singoli beni paesaggistici, ma ancor più per quanto concerne le “previsioni” per ogni ambito di paesaggio ordinate (come chiede l’art.135 del Codice) a mantenere i caratteri identitari, ad individuare linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibile, a recuperare le aree degradate, ad individuare interventi per lo sviluppo sostenibile, si fonda sul riconoscimento della “tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici”. Riconoscimento operato con la possibile oggettività e con gli strumenti scientifici che le diverse discipline interessate mettono a disposizione. Tutto ciò corrisponde alle indicazioni della Convenzione Europea. Desta invece perplessità l’attribuzione al piano paesaggistico del compito di definire una gerarchia di “livelli di valore”, individuando le modalità per la loro specifica attribuzione ai diversi ambiti o, peggio, alle diverse componenti territoriali. Le perplessità non riguardano ovviamente la possibilità-opportunità di esprimere giudizi di valore su singoli beni o singole parti del territorio (secondo una prassi largamente consolidata a livello internazionale nel campo della conservazione della natura), ma la pretesa di fondare solo o essenzialmente su tali giudizi le misure di disciplina. Attribuire “livelli di valore” scalarmente ordinati a beni caratterizzati in modo specifico secondo caratteristiche peculiari, sembra operazione culturalmente discutibile. Non solo perché implica l’attribuzione di valutazioni soggettive, largamente discrezionali per molti aspetti, come tipicamente quelli estetici, a beni di cui invece l’analisi scientifica oggettiva consente di definire i connotati caratterizzanti e le ragioni della tutela. Ma anche perché sul piano applicativo comporta una inopportuna iper-semplificazione delle indicazioni normative, che cancella arbitrariamente le profonde diversificazioni che, anche all’interno della più piccola porzione di territorio, danno vita ai diversi paesaggi.

 

3.5. Un terzo problema concerne la divisione tra i “beni culturali”, cui è dedicata la parte seconda e più cospicua del Codice, e i “beni paesaggistici”, cui è dedicata la parte terza. E’ una divisione ben comprensibile alla luce delle tradizioni nazionali in materia di conservazione, ma difficile da sostenere sul piano strettamente scientifico e culturale (come si è già rilevato, le nuove concezioni del patrimonio tendono piuttosto ad abbattere le vecchie divisioni e a conferire al patrimonio paesistico un’accezione assai ampia e comprensiva) e difficile da praticare sul piano applicativo. Basti pensare ai centri storici, praticamente assenti dal Codice del 2004 se non ridotti alla figura di “monumenti complessi”, chiaramente superata dal dibattito degli ultimi decenni: essi infatti non figurano nel pur minuzioso elenco dei tipi di beni culturali (l’art. 10 sembra anzi quasi negarne l’esistenza, nel momento in cui cita invece esplicitamente “le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico”, come se in questi si esaurisse il ruolo complesso ed integrante dei centri storici) e sono esplicitamente esclusi dalle categorie di beni paesaggistici “tutelati per legge” (art. 142, c.2, lett.a). Va però segnalato che le modifiche recenti del Codice (art. 136) hanno inserito i centri storici e le zone di interesse archeologico tra le aree di notevole interesse pubblico da tutelare. Naturalmente nulla esclude che i piani urbanistici o quelli paesaggistici dedichino particolari tutele a determinati centri storici, ma è curioso che il Codice non colga la rilevanza generale degli insediamenti storici – e in sostanza della città, in tutte le sue articolazioni storiche anche recenti – come struttura di base del “capitale territoriale”.

 

3.6. Un quarto e cruciale problema concerne la separazione tra tutela e valorizzazione, peraltro già introdotta con la riforma del Tit.V della Costituzione (art.117), che distingue “la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” di competenza esclusiva dello Stato, dalla “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Nonostante non manchino i richiami alla necessità di integrare tutela e valorizzazione con l’azione concorde di Stato e Regioni (e a prescindere dalle incertezze interpretative: v. sentenza Corte Costituzionale n.407/2002), sembra evidente che proprio a questo riguardo il Codice manchi all’appuntamento più importante, quello dei nuovi rapporti tra conservazione e sviluppo sostenibile. Come si è già ripetutamente osservato, questi rapporti sono tanto più stretti e condizionanti quanto più la conservazione tende ad allargarsi a tutto il territorio, interessando le aree e i sistemi della marginalità e dell’abbandono, che coprono ormai una larga parte del territorio nazionale: qui non solo le misure di vincolo e protezione passiva, se sganciate dalle politiche di investimento e di sostegno economico e sociale, non possono concorrere alla rivalorizzazione territoriale, ma in molti casi non possono neppure essere concretamente applicate (quali vincoli, ad esempio, potrebbero mai fermare lo sfacelo dei versanti terrazzati o la ruderizzazione incalzante dei villaggi montani?). Ma la separazione tra tutela e valorizzazione rischia, ancor più in generale, di nascondere un problema di fondo del nostro paese, quello della prevenzione dei rischi: un problema che torna alla luce dei riflettori mediatici solo in occasione di alluvioni o frane catastrofiche o di grandi sismi distruttivi, soprattutto se con vittime umane. D’altronde, i contenuti stessi della pianificazione paesaggistica, quali definiti dal Codice all’art. 143 (spostati e riformulati, con le recenti modifiche, nell’art. 135) sembrano richiedere azioni incompatibili con la rigida separazione delle competenze tra tutela e valorizzazione.

 

3.7. Le difficoltà che la pianificazione incontra nel perseguire l’effettivo allargamento delle politiche del paesaggio all’intero territorio, la considerazione integrata del patrimonio culturale territoriale, la saldatura tra misure di protezione ed azioni positive di sviluppo durevole, sono aggravate dalle incertezze e dalle confusioni concernenti l’articolazione orizzontale e verticale delle responsabilità istituzionali, i rapporti pubblico-privato e il ruolo degli attori locali e degli altri soggetti interessati. A questo proposito, il Codice del 2004 sembra lasciare aperti non pochi problemi, che le modifiche successive hanno per certi aspetti inasprito. In primo luogo sembrano fondati i timori di un oggettivo indebolimento del ruolo delle Regioni nei confronti dello Stato (come emergerebbe dal confronto tra il precedente ed il nuovo art. 135 circa la titolarità della pianificazione paesaggistica; o dalla riduzione, nel primo comma dell’art. 142, della possibilità del piano paesaggistico di ridefinire i vincoli per le aree tutelate per legge sulla base di criteri oggettivi e non puramente parametrici). In secondo luogo il Codice sembra ignorare l’orientamento, chiaramente sancito in alcune legislazioni regionali e riflesso in numerose esperienze di piano, ad articolare sul territorio il processo di pianificazione paesaggistica, con un forte coinvolgimento delle Province e dei Comuni: orientamento del tutto coerente non solo col principio di sussidiarierìtà, ma anche più specificamente con le indicazioni della CEP. Qui non è in gioco il localismo, ma l’efficacia dell’azione di governo, che è responsabilità primaria degli Enti locali e che chiama in causa i principì di cooperazione e integrazione. In terzo luogo, non si può non rilevare la sostanziale mancanza nel Codice di ogni riferimento alle percezioni e alle attese delle popolazioni e degli altri soggetti interessati, ed alla partecipazione della società civile nelle fasi cruciali del riconoscimento dei valori paesaggistici, della definizione degli obiettivi di qualità e di definizione e realizzazione delle politiche del paesaggio. Rischia così di smarrirsi proprio quella dimensione sociale del paesaggio che costituisce il fondamento principale della svolta politico-culturale impressa dalla Convenzione Europea.

 

4. Il PPR del Piemonte:

 

4.1.In un contesto legislativo, politico e culturale fluido ed evolutivo, quale quello tratteggiato nei paragrafi precedenti, l’esperienza avviata dalla Regione Piemonte nel 2005 presenta alcuni aspetti peculiari su cui vale la pena portare l’attenzione. Essa tenta infatti di raccogliere in modi originali la scommessa centrale che emerge dai problemi evocati: come costruire un piano paesaggistico autonomo e distinto (e in quanto tale capace di assumere pienamente l’efficacia normativa e la pregnanza culturale previste dal nuovo Codice) senza perdere i legami con la pianificazione territoriale, generale e di settore, volta a governare in tutto il territorio regionale, i processi di trasformazione da cui l’integrità e la qualità del paesaggio inesorabilmente dipendono. La risposta che i documenti programmatici finora approvati tentano di dare, e che dovrà ovviamente trovare esplicito e determinante riscontro nella nuova legislazione regionale in materia, parte dalla distinzione tra i singoli atti di pianificazione – tra cui il PPR - ed il processo complessivo di pianificazione territoriale, all’interno del quale i singoli atti e strumenti debbono convergere e coordinarsi in modo da conferire all’azione pubblica di governo la necessaria unitarietà e coerenza. Questa impostazione, a prescindere dai profili giuridici, ha rilevanti implicazioni tecniche e politiche. Sul piano politico, essa implica in particolare il coinvolgimento diretto e attivo, nella formazione del PPR, dei soggetti istituzionali (in primo luogo Province e Comuni) titolari di precise competenze di gestione territoriale, pur riserbando alla Regione – come prevede il Codice - la responsabilità di ogni determinazione riguardante lo stesso PPR. Sul piano tecnico-scientifico, è fin troppo facile constatare la complessità del coordinamento con cui legare i diversi strumenti di piano e, conseguentemente, le diverse attività di elaborazione conoscitiva e progettuale necessarie per produrli. A tal fine, i programmi di lavoro individuano alcuni momenti cruciali di convergenza delle operazioni avviate rispettivamente per il PPR e per il PTR.

 

4.2. L’interpretazione strutturale del territorio costituisce il primo e fondamentale momento di convergenza. Esso deve infatti consentire di fondare la formazione del PPR e più in generale delle scelte territoriali su una base ricognitiva che faccia emergere i fattori, elementi e relazioni di lunga durata, che hanno assunto o possono assumere un ruolo strutturante nei confronti dei processi di trasformazione del territorio regionale, assicurando la permanenza dei suoi caratteri identitari e la conservazione dei suoi sistemi di valori. Tale interpretazione implica un confronto selettivo tra le diverse letture del territorio (nei suoi aspetti fisici – biotici e abiotici – naturali ed antropici, storici, culturali e semiologici) in vista di una sintesi olistica e interdisciplinare, in grado di fissare, per così dire, i “punti fermi” di ogni percorso progettuale, ovvero, per fare riferimento a concetti che hanno già trovato riscontro in altre esperienze e legislazioni regionali, le “invarianti”, le regole statutarie, gli “statuti dei luoghi”. Sulla base di queste letture plurime si costruisce il Quadro di riferimento territoriale, che riassume l’insieme dei condizionamenti da cui né il PTR né il PPR possono prescindere. Nell’elaborazione del PPR, assume inoltre rilievo la distinzione tra fattori propriamente strutturanti e fattori caratterizzanti, qualificanti o, al contrario, di degrado o criticità; distinzione che si ripropone alle diverse scale di lettura (regionale, provinciale e locale). Se quindi in una visione regionale o trans-regionale spiccano alcuni grandi connotati (come la corona alpina, il sistema idrografico principale, la fascia pedemontana, la gerarchia dei centri), ben più articolata è la lettura che si impone alla scala locale. Ciò sollecita la partecipazione attiva delle diverse istituzioni alla costruzione progressiva della carta di interpretazione strutturale. Tale partecipazione è tanto più opportuna in quanto l’interpretazione, pur fondandosi su una ricognizione la più possibile oggettiva della realtà in atto e delle sue tendenze evolutive di lungo periodo, non può prescindere dalle opzioni di fondo che orientano il processo di pianificazione, soprattutto sotto il profilo della sostenibilità paesistico-ambientale: l’ambiente e il paesaggio non sono mai “un dato”. In questo senso l’interpretazione strutturale si configura come un ponte tra i riconoscimenti dei valori e delle criticità in atto e le scelte di progetto.

 

4.3. Un secondo fondamentale momento di convergenza tra la pianificazione paesaggistica e quella territoriale è costituito dal tentativo di costruire un quadro strategico unitario, col quale orientare le scelte su entrambi i versanti. Il tentativo di integrare la dimensione strategica nella pianificazione territoriale (anziché svilupparla in forme del tutto separate, come nell’esperienza di altre regioni) si articola a più livelli. In termini di politiche complessive di sviluppo regionale, esso trova riscontro in un apposito Documento strategico. Ma la “territorializzazione” delle politiche proposte si articola maggiormente sia all’interno del PTR (con riferimento alla partizione del territorio regionale in 34 “ambiti di integrazione territoriale”, largamente basati sulle progettualità e le iniziative locali), sia all’interno del PPR. Per quanto riguarda quest’ultimo, si avverte la necessità di disporre di un quadro di riferimento programmatico basato su visioni estremamente lungimiranti, che tenga conto di linee d’azione che competono ad una pluralità di soggetti istituzionali e di attori locali relativamente autonomi, che escono almeno in parte dalla sfera d’influenza regionale e che dipendono da congiunture e dinamiche evolutive scarsamente prevedibili. E’ opportuno sottolineare che, nella specifica situazione regionale, ampi margini di incertezza si profilano sia per quanto concerne gli effetti locali dei cambiamenti climatici globali e le necessarie misure di “adattamento”(basti pensare al rischio idrogeologico o alla “scomparsa” della neve nell’intero arco alpino), sia per quanto attiene alla realizzazione di grandi infrastrutture di rilevanza europea. Nonostante l’incertezza e la labilità delle previsioni, la costruzione progressiva di un quadro strategico flessibile e condiviso – e in quanto tale non direttamente vincolante - costituisce un impegno imprescindibile, al fine di contribuire efficacemente (anche ai sensi dell’art, 5 della Convenzione Europea del Paesaggio) alla “governance” dei processi di trasformazione di varia natura che incidono sull’ambiente e il paesaggio. D’altra parte va notato che la flessibilità delle indicazioni strategiche incorporate nel PPR trova un limite nella saldezza dell’interpretazione strutturale di cui all’inquadramento strutturale sopra evocato: da questo punto di vista l’interpretazione strutturale e l’inquadramento strategico sono destinati a svolgere ruoli complementari nel governo del territorio.

 

4.4. In prospettiva regionale, la territorializzazione delle politiche per l’ambiente e il paesaggio indicate dal PPR trova un valido riferimento negli “ambiti di paesaggio”, vale a dire in una partizione del territorio regionale ispirata a criteri prevalentemente ambientali, paesistici e culturali. E’ infatti il confronto coi caratteri storici e naturali delle realtà locali, coi loro sistemi di valori, coi loro problemi e le loro criticità in atto o potenziali, nonché (come prescrive la Convenzione Europea del Paesaggio) con le percezioni e le attese delle popolazioni locali, che le indicazioni strategiche regionali possono trovare opportuno riscontro in scelte di governo, indirizzi di piano e determinazioni normative. Di qui l’interesse per l’individuazione degli ambiti che, pur movendo dalle esigenze di tutela e valorizzazione paesistica affidate al PPR, non può non tenere conto delle dinamiche urbanistiche, economiche e sociali o di altra natura che investono le realtà locali. E’ in questa prospettiva che il territorio regionale è stato ripartito in 76 ambiti; ed è in questa prospettiva che prende rilievo il confronto di tali ambiti coi 34 “ambiti di integrazione territoriale” del PTR. Ciò detto, va evidenziato in particolare il ruolo normativo attribuito agli “ambiti di paesaggio” dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (artt. 135 e succ.): ruolo complementare a quello che trova riscontro nella tutela dei beni paesaggistici. Il che ha motivato l’interpretazione (riflessa già in altri piani paesaggistici come quello sardo o quello campano) di un “doppio strato normativo”, costituito appunto dalle norme per ambiti e da quelle per i singoli beni: interpretazione che porta a riconoscere proprio nella disciplina per ambiti il superamento innovativo della disciplina tradizionale, riferita a singoli oggetti di tutela (i beni) e indifferente ai contesti di cui fan parte integrante e inseparabile. Va però aggiunto che l’articolazione della disciplina per ambiti, proprio perché pregna di significato progettuale, non può che configurarsi come un processo, destinato a coinvolgere istituzioni locali, attori e portatori di interessi. Se, come afferma la Convenzione Europea, il paesaggio è “fondamento delle identità locali”, l’articolazione dei paesaggi non può ridursi ad un’operazione tecnica neutrale, ma implica un processo sociale di riconoscimento e riappropriazione culturale. In questa direzione, si profila l’opportunità di cogliere, anche all’interno degli ambiti di paesaggio, differenze e trame di connessione di rilevante valore identitario; in particolare, di riconoscere al loro interno, le “unità di paesaggio” (di dimensione più prossima a quella delle comunità locali) caratterizzate da specifici sistemi di relazioni ecologiche, storiche e culturali .

 

4.5. Come si è ripetutamente notato, gli apparati di tutela del paesaggio hanno conosciuto, anche nel nostro paese (dapprima con la L 431/1985, poi con la Convenzione Europea e con il Codice del 2004), un rilevante spostamento d’attenzione dalla protezione, prevalentemente passiva, dei singoli beni alla conservazione, tendenzialmente attiva, dei sistemi di relazioni contestuali in cui i beni stessi sono organicamente inseriti. Ma questo spostamento non implica un indebolimento dell’interesse pubblico per il valore intrinseco dei beni, che al contrario trova ampio riscontro nello stesso Codice. Ciò vale in particolare per i “beni paesaggistici”, in primo luogo per quelli già “tutelati per legge” con riferimento alle categorie già definite dalla L.431/1985 e poi riprese dal nuovo Codice (art.142). Per tali beni il piano paesaggistico deve infatti procedere alla loro puntuale individuazione e disciplina, impresa di non poco conto se si considera la vasta estensione del territorio regionale da essi interessato (montagne, laghi e fasce fluviali, boschi, ecc.).Ma l’opzione paesistica si amplia ulteriormente, non solo perché compete al piano l’individuazione e la disciplina di altri beni non ancora protetti (in particolare i cosiddetti “beni identitari” ed in genere i “beni culturali” di rilevanza anche paesistica) ma anche perché la tutela dei beni comporta spesso l’adozione di appropriate misure di disciplina d’uso o d’intervento per altre componenti non riconosciute, di per sé, come beni: è il caso, ad esempio, delle aree degradate da attività estrattive, o impegnate da attività agricole intensive, o minacciate da sviluppi urbanistici devastanti. A sua volta, questo inevitabile allargamento del campo d’attenzione costringe a mettere in discussione i modi, le forme e gli strumenti con cui conferire alle scelte di tutela e valorizzazione la necessaria efficacia. E’ del tutto evidente che, se la tutela rigorosa di alcuni pochi beni paesaggistici di particolare pregio (nell’ottica, per intendersi, della L 1497/1939) poteva essere perseguita – non senza innegabili successi – a suon di vincoli e limitazioni direttamente operanti, ben diversa è la situazione che si presenta quando l’opzione conservativa si allarga, come richiede la Convenzione, all’intero territorio. Alle prescrizioni e alle misure di salvaguardia immediatamente operanti, occorre allora affiancare, in larga misura, indirizzi e direttive dirette ad una pluralità di soggetti istituzionali, cui compete la responsabilità di tradurle in disposizioni propriamente operative, alla luce dei necessari approfondimenti. Restando, le prescrizioni dirette, riservate ai casi in cui la salvaguardia degli irrinunciabili valori regionali non può essere adeguatamente assicurata a livello locale o in termini settoriali .L’azione di tutela si ramifica quindi in una molteplicità di misure di gestione e di controllo, che coinvolgono, in forme più o meno incisive, l’amministrazione pubblica a tutti i livelli e in tutti i settori, sollecitandone la cooperazione e ponendo crescenti esigenze di partecipazione sociale ai processi di formazione e validazione delle scelte. Da questo punto di vista, sembra innegabile che soltanto in un orizzonte autenticamente dialogico e cooperativo sia possibile conferire al PPR l’auspicata efficacia.

 

Riferimenti

 

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