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Il Paesaggio tra Coesione e Competitività

IL PAESAGGIO TRA COESIONE E COMPETITIVITÀ

PROVINCIA DI TRENTO/STEP 20/6/2011

Roberto Gambino

 

 

1.Paesaggi in pericolo

 

1.1. Il paesaggio, volto della società.

In una delle sue più intriganti parabole (citata da C.Magris, 1997), J.L. Borges parla di un pittore che si propone il compito di disegnare il mondo, ritrae i paesaggi più diversi e si accorge, alla fine, “che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. Il paesaggio è il volto di un uomo come della società, dei suoi vincoli fisici, delle sue vicende e delle sue speranze di vita. Le ferite del paesaggio, le sue cicatrici, i suoi difetti e le sue asimmetrie sono quelle stesse della società proiettate sul suolo. Il suo disfacimento riflette il disfacimento della società. Il paesaggio disegna il rapporto tra “vu” e “vecu”, tra ciò che si vede e ciò che è vissuto (Raffestin,1977).I mille paesaggi europei sono i mille volti dell’Europa. Le preoccupazioni per i paesaggi europei esprimono le tensioni sociali, politiche e culturali di un’Europa ancora in cerca di se stessa. Di un’Europa che cerca la propria identità non contro altre identità, ma contro “le proprie tentazioni, i propri demoni, i propri mostri” (A. Finkielkraut, 2003), nel dialogo, nell’inclusione e nella diversità. La difesa dei paesaggi europei non può in alcun modo disgiungersi da questa ricerca, non può in alcun modo ridursi ad un’operazione “cosmetica” o di “giardinaggio”, o ad un’operazione di razionalizzazione burocratica dei variegati sistemi nazionali di difesa dei segni superstiti del passato.

 

1.2. Il paesaggio, tra rischi emergenti ed ordinari.

E’ in questo senso complesso che il paesaggio è in pericolo. Ma le notizie e le immagini delle immani tragedie delle più diverse parti del globo sembrano travolgere ogni possibilità di approccio razionale, scientificamente orientato, alle grandi questioni dell’insediamento umano contemporaneo. Nonostante il clamore mediatico e la “domanda di verità” che accompagnano di regola le emergenze ambientali, è spesso troppo arduo o forse impossibile distinguere le questioni d’emergenza da quelle che si manifestano nel segno della quotidianità e dell’ordinarietà. Difficili, largamente inadeguati, i tentativi di cogliere i nessi che legano le catastrofi “naturali” all’opera più o meno consapevole e intenzionale dell’uomo. Non meno difficili i tentativi di riportare ad un’interpretazione unitaria gli esiti che si manifestano nei diversi settori dell’attività antropica, da quelli che riguardano le trasformazioni fisiche del territorio a quelli che riguardano l’uso ed i consumi delle risorse naturali, o le dinamiche sociali e culturali, o i processi economici e finanziari. E le difficoltà sono tanto maggiori quanto più all’interpretazione si tenta di associare la previsione, di anticipare il futuro. Ci si chiede se stiamo entrando “nell’età dei grandi rischi” (Scalfari 2011). Se non è casuale la concomitanza tra sommovimenti tellurici di inedita violenza, effetti disastrosi del cambio climatico globale (Kushner, 2011), drammatiche scosse d’assestamento geopolitico su scala internazionale, crisi economica globale ed esplosione della “bolla speculativa”. Non è certo questa la sede per rispondere a domande come queste. Ma, anche se si concentra l’attenzione sull’urbanistica e la pianificazione, non si può fare a meno di interrogarsi sui grandi cambiamenti che attraversano i territori della contemporaneità e sulle risposte che la cultura tecnica e scientifica ha elaborato o sta elaborando agli albori del terzo millennio. La “crisi della modernità” (Harvey 1990) consumata nel corso degli ultimi decenni aveva segnato la decadenza delle grandi narrazioni, delle idee di progresso e di giustizia sociale, delle questioni generali come quelle legate al controllo agli usi del suolo e delle risorse primarie. La frammentazione ecosistemica, prodotto perverso dell’urbanizzazione totale del territorio, sembrava trovare riscontro nella frantumazione del tessuto sociale e dei sistemi di relazione, nella estrema diversificazione degli interessi e delle domande sociali. E. di conseguenza, negare spazio alle interpretazioni unificanti, all’idea stessa che possa esistere un “interesse pubblico” cui riferirsi.

 

1.3. Il paesaggio e la crisi urbanistica.

Nel corso degli anni ’80, i dibattiti sulla crisi dell’urbanistica, caratterizzati dalla contrapposizione quasi caricaturale tra la cultura del piano e la cultura del progetto, sembravano destinati a smentire definitivamente l’efficacia sociale della pianificazione nell’interpretare l’interesse pubblico. Si osservava che “la domanda sociale a cui tradizionalmente gli urbanisti davano risposta [era] mutata, non più ‘questione generale’, ma problema di minoranze” (Mazza, 1990; Secchi 1990). Problemi d’ordine generale come quelli legati ai rapporti tra stato e mercato nella costruzione del territorio, e quindi al controllo dei valori del suolo, sembravano “rimossi dalle passioni e dagli interessi di buona parte degli urbanisti. L’attenzione di molti è piuttosto concentrata sulla questione della forma e del disegno della città”. Affascinata dai problemi dell’identità complessiva dell’urbs, la pianificazione sarebbe incapace di affrontare quelli della “frammentazione e l’articolazione della civitas e quindi la molteplicità delle forme secondo cui la nostra società tende ad autorappresentarsi”. Il contributo della pianificazione urbana e territoriale alla risoluzione della “questione urbana” su cui si era concentrata nei decenni precedenti la riflessione di studiosi come Castells, non senza potenti riscontri nei movimenti di base della società, sembrava indebolirsi; ed anzi la stessa questione - come questione, appunto, generale - sembrava perdere d’attualità e rilevanza nelle domande e nelle percezioni della società contemporanea.

 

1.4. La nuova questione urbana .

A più di vent’anni di distanza, ci si può chiedere se queste osservazioni siano ancora valide, o se invece la “nuova questione urbana” (Secchi 2011) – sempre più strettamente incrociata con la multiforme “questione ambientale” - costituisca ancora o nuovamente il quadro problematico con cui la pianificazione deve confrontarsi. E se l’uscita dalla crisi che sembra pervadere le nostre città e i nostri territori richieda la costruzione di un quadro interpretativo ampio e comprensivo: un quadro nel quale si possa tentare di situare coerentemente i grandi problemi della società contemporanea, da quelli che concernono le trasformazioni fisiche del pianeta a quelli che riflettono la radicalizzazione delle diseguaglianze economiche e sociali, le carenze ed il degrado delle condizioni abitative, la crescente mobilità delle popolazioni, delle attività e delle idee. In altre parole, dobbiamo chiederci se e come la cultura della pianificazione (in termini di statuti scientifici e competenze disciplinari, di capacità tecniche professionali, di apparati amministrativi, di strumenti giuridici e di quadri istituzionali, ma anche di attitudini e sensibilità culturali) possa oggi tradurre “le preoccupazioni individuali in questioni pubbliche” (Bauman, 2008). Si impone un cambio di prospettiva, per passare da una visione patrimoniale statica e inventariale – quale quella che ha orientato e tuttora in larga misura orienta l’azione di tutela del patrimonio culturale e naturale (Choay 1993) - a una visione dinamica e strutturale, in grado di cogliere le drammatiche criticità e l’attualità del territori. E’ una visione che sconta l’impossibilità di archiviare l’eredità storica nelle memorie e nei reperti del passato e spinge invece a riconoscere l’attualità del territorio storico nella sua incessante contemporaneità con la cultura della società che lo abita e lo produce. Una visione che, incrociando più vaste riflessioni sulle dinamiche della società contemporanea, ha aiutato a comprendere la (ri)scoperta del territorio come risorsa a rischio di perdita e di degrado, ma anche come insostituibile fondamento dell’azione politica e culturale.

 

  1. Identità, valori e diritti.

 

2.1. Il paesaggio, fondamento dell’identità.

Nelle nuove retoriche che impregnano il discorso pubblico sul territorio contemporaneo, ha assunto grande rilievo il tema dell’identità, non a caso introdotto dalla Convenzione Europea del Paesaggio nella definizione stessa del paesaggio, concepito non solo come esito dinamico dell’interazione tra fattori antropici e naturali, ma anche come “fondamento dell’identità” (art.5). Definizione che ha avuto largo riscontro nelle pratiche discorsive e progettuali degli ultimi decenni, in cui il paesaggio è stato spesso la bandiera della difesa e del rafforzamento delle culture e delle economie locali, anche in funzione di resistenza alle spinte omologanti della globalizzazione. In quanto sistema di valori identitari, il paesaggio interpreta non solo le peculiarità, i caratteri e le differenze del territorio, ma anche le sue potenzialità evolutive. Di qui l’importanza crescente attribuita al paesaggio ai fini della difesa della biodiversità ed ancor più della “diversità bio-culturale”, su cui l’Unesco e l ‘Unione mondiale della natura hanno ancora recentemente richiamato l’attenzione. Di qui anche il tentativo di contribuire, con le politiche del paesaggio, alla riscoperta e alla valorizzazione delle culture, delle agricolture e delle economie locali (basti pensare al successo di “slow food” e delle produzioni “a km zero”), ponendolo al centro del marketing urbano e territoriale. Tuttavia, a dispetto dell’enfasi sul paesaggio e sulla sua funzione identitaria, il concetto stesso di identità è stato oggetto di critiche crescenti. Da un lato infatti le rivendicazioni identitarie non hanno mancato di mostrare tendenze regressive, chiusure “autistiche” e derive nostalgiche nelle gabbie delle tradizioni. A tutte le scale, da quelle locali a quelle planetarie, si è avanzata minacciosa l’ombra delle identità “armate” o “bellicose” (Amartya Sen., 2006.). Dall’altro lato, il “salto di scala” di un numero crescente di problemi ambientali, economici e sociali (sempre meno trattabili a scala locale, sempre più richiedenti azioni e apparati di controllo a livello regionale, nazionale e soprattutto internazionale), ripropone i grandi temi dell’integrazione trans-scalare delle azioni pubbliche di regolazione, dei grandi racconti e delle “big pictures”su cui si fondano le strategie d’insieme Emblematico, in questo senso, il tema del “global change” e dello sconfinato insieme di attività e di politiche che dovrebbero contrastarne o mitigarne gli effetti più drammaticamente negativi.

 

2.2. Verso una nuova territorialità del paesaggio.

I cambiamenti di scala dei problemi da fronteggiare mettono in scacco le distorsioni identitarie poiché riguardano non soltanto i cambiamenti reali del mondo contemporaneo, ma anche i modi con cui li osserviamo, le concezioni, i miti e le utopie che guidano le nostre analisi e le nostre scelte. Non possiamo evitare di misurarci coi processi emergenti, ma “per farlo dobbiamo poterli riconoscere. E per riconoscerli capire quanto sta accadendo” (Hillman, 2011). A questo fine l’approccio “territorialista” – quale quello proposto dalla “Società dei territorialisti”: Magnaghi 2010 - ha svolto e può svolgere un ruolo significativo. “Questo approccio ha posto al centro dell’attenzione disciplinare il territorio come bene comune, nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva, e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile […]. Il ritorno al territorio come culla e risultato dell’agire umano esprime e simboleggia la necessità di reintegrare nell’analisi sociale e quindi anche economica, gli effetti delle azioni umane sulla mente umana e sull’ambiente naturale, sempre storicamente e geograficamente determinati”. Il territorio, dunque, non come inerte supporto delle attività antropiche, ma come sistema costitutivo delle relazioni che esse intrattengono con le dinamiche naturali. E' in questo contesto complesso e problematico che va concentrata la ricerca di  una nuova territorialità, gravida di memorie e di consapevolezza ambientale, sullo sfondo di un'evoluzione del pensiero scientifico contemporaneo che sembra mutare il senso della presenza umana nel mondo.

 

    1. Coesione e competitività.

In questa ricerca il riferimento alla dimensione locale è fondamentale. Una dimensione che evidenzia le identità e i caratteri su cui riposa la diversificazione del territorio, senza vincoli di scala. Che crea i paesaggi, con visione dinamica e trans-scalare, con collegamento incessante alle percezioni, alle attese ed ai progetti degli abitanti. ma i luoghi non sono frammenti autonomi e indipendenti, non sono mondi separati, sono “schegge del mondo” (Magris, 1997). La loro capacità di conservare i propri caratteri identitari dipende, non meno che dalle “chiusure operative” dei sistemi locali, dall’”apertura” verso il cambiamento e quindi dalla loro capacità di affacciarsi efficacemente sulle reti di relazioni che agiscono nel contesto territoriale, alle diverse scale. In entrambe le direzioni il paesaggio svolge un ruolo fondamentale. Da un lato esso lega fatti, luoghi e attività tangibili e intangibili, variamente dislocati nello spazio territoriale, in contesti tendenzialmente coesi, in cui le comunità locali possono riconoscersi ed interagire più o meno efficacemente. Il dispositivo paesistico è riflesso e strumento di coesione ecologica, economica, sociale e culturale, atto a rafforzare le capacità di resistenza e resilienza dei sistemi locali nei confronti delle pressioni e delle perturbazioni provenienti dall’esterno. Ma nel contempo il paesaggio è anche riflesso e strumento di competitività, nella misura in cui conferisce ai sistemi locali un’immagine caratterizzata e riconoscibile, che gli consente di partecipare con speranza di successo ai confronti che si profilano a tutti i livelli, mobilitando insiemi strutturati di risorse diversificate, dando voce al “territorio degli abitanti” o investendo nel marketing urbano e territoriale.

 

2.4.. Nuovi sistemi di valori potenzialmente in conflitto

La tutela del paesaggio, come quella della natura, ha a che fare con l’affermazione di sistemi di valori; ma i sistemi di valori non sono gli stessi. Contano, nel secondo caso, valori riconosciuti e presidiati dalle “scienze dure” (come la geologia o la biologia), in termini tali da quasi annullare ogni possibilità di scelta circa le misure di tutela da adottarsi. Tra il riconoscimento oggettivo e scientificamente inoppugnabile del valore e la scelta dei modi con cui proteggerlo, si profila una relazione stringente, al limite deterministica. Nel primo caso, la tutela del paesaggio, entrano in gioco valori di assai più incerta determinazione, che lasciano ampi spazi all’interpretazione e alla valutazione soggettiva, nonostante il poderoso ausilio delle scienze sociali, in primo luogo la storia. La labilità e la soggettività che ne derivano, in ordine alle misure di tutela e di gestione, sono state esplicitamente riconosciute dalla stessa Convenzione Europea del Paesaggio, che impegna le parti a tener conto, nella valutazione dei paesaggi, “dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate”(art.5). Questa distinzione non è peraltro rigida. Anche nel campo della conservazione della natura si è fatta strada una concezione più socialmente sensibile dei valori in gioco; mentre la stessa oggettività scientifica delle valutazioni è sempre più spesso revocata in dubbio (basterà ricordare l’aspra contesa che attraversò il mondo scientifico quando si trattò di scegliere la miglior strategia d’intervento, a fronte dello spaventoso incendio che devastò il Parco di Yellowstone qualche anno fa) E inversamente il determinismo ecologico (a partire dalla svolta degli anni ’60: McHarg 1966) ha profondamente impregnato la cultura del paesaggio, dietro le bandiere della Landscape Ecology.. Piuttosto che suggerire una biforcazione tra sistemi diversi di valori, l’esperienza sembra indicare l’intrinseca problematicità della identificazione dei valori, sia nel campo della conservazione della natura che in quella del paesaggio.

 

2.5. Principi e diritti

Il riconoscimento dei valori naturali e culturali, in particolare di quei valori che il mercato ignora o contrasta, è alla base delle lunghe lotte per il “diritto alla città” (Lefebvre 1970) e per la costruzione dello “stato sociale”, rese oggi più aspre dall’emergenza dei fenomeni d’immigrazione e dalle nuove iniquità sociali. Ma il riconoscimento di quei valori porta anche all’affermazione di nuovi diritti e di nuovi doveri, come quelli che in Italia si richiamano all’art. 9 della nostra Costituzione. Accordi e trattati internazionali hanno sancito una progressiva dilatazione dei “diritti ambientali”, fra cui quelli che – come tipicamente i “diritti all’esistenza” di beni ambientali irrinunciabili, in primis l’acqua - riflettono interessi collettivi trans-generazionali. Nel contempo si è ampliata la gamma dei “diritti di cittadinanza”, che riguardano ormai pacificamente anche valori “intangibili” come quelli estetici o letterari. Può sembrare ironico nel nostro paese, che ha lasciato gran parte delle proprie coste, dei propri paesaggi agrari, delle proprie montagne e dei propri centri storici alla mercè della speculazione immobiliare (e che anzi sembra tuttora assecondarne le spinte in nome dello sviluppo economico) pretendere il rispetto dei “diritti alla bellezza”: un lusso che secondo molti non possiamo permetterci. Ma non si può ignorare che sotto quella bandiera si stanno aggregando consistenti ed agguerriti movimenti d’opinione e coalizioni di interessi..Se si accetta l’idea che le politiche della natura e del paesaggio non possano prescindere dai nuovi diritti di cittadinanza, non si può evitare di chiedersi come assicurarne la concreta attuazione, tenendo conto della pluralità, della variabilità e dell’intrinseca conflittualità degli interessi e dei valori in gioco. Una conflittualità che certo non si limita allo scontro tra generici interessi pubblici ed interessi privati, ma contrappone sempre più spesso, come riportano le cronache, diversi interessi pubblici antagonisti. Perché e a quali condizioni il riconoscimento di un paesaggio urbano storico di grande rilievo o di un’impareggiabile paesaggio agrario deve impedire la realizzazione di un grattacielo per uffici pubblici o di una piattaforma logistica o di un grande complesso ospedaliero? Per sfuggire alle insidie del relativismo e reagire all’”indietreggiamento dei valori universali” (Touraine 2008.) si invoca l’accettazione di gerarchie di valori. Ma la battaglia sui valori assoluti sembra difficilmente riconducibile alle logiche del confronto democratico aperto ed inclusivo. Se ciascuna delle parti in conflitto si trincera dietro al proprio sistema di valori, l’esito del confronto non può che essere quello di una sopraffazione più o meno violenta e, si può aggiungere alla luce dell’esperienza, tendenzialmente a danno degli interessi pubblici più deboli, come quelli paesistici e ambientali. Di qui l’opportunità, nello spirito della Costituzione, di “ragionar per principì”, sostituendo alla logica dell’imposizione la logica della persuasione (Zagrebelsky 2009). E’ su questo terreno che può fondarsi la ricerca delle più opportune forme di regolazione pubblica dei processi che modellano il paesaggio.

 

2.6. Regolazione versus percezione?

Il relativismo dei valori e delle poste in gioco pone in grande evidenza il ruolo della percezione, riferimento imprescindibile (secondo la Convenzione) per la definizione delle politiche e per gli stessi riconoscimenti di valore. Apparentemente la percezione e la regolazione rappresentano due prospettive antitetiche. Da un lato, le percezioni paiono dominate dalla mutevolezza e instabilità delle condizioni dell’osservazione sensoriale (al variare della posizione dell’osservatore, al trascorrere delle stagioni, delle ore del giorno e del tempo atmosferico), dalla soggettività dei filtri culturali che ne condizionano la fruizione, delle sensibilità e delle conoscenze pregresse che mediano il processo percettivo. E’ in gioco la semiosi stessa del paesaggio, la sua apertura nei confronti dei processi di significazione, mai riducibili ad un sistema “dato” ed immutabile di segni oggettivamente riconoscibili e condivisibili. (Castelnovi 2000).

Dal lato della regolazione, la prospettiva sembra mutare radicalmente. Cambiano le ragioni, gli interessi e le poste in gioco, le modalità dell’intervento umano sui processi di trasformazione. Alla base, si situa il riconoscimento del paesaggio come bene comune, ormai esteso dai paesaggi eccezionali al paesaggio come bene di valore intrinseco e ubiquitario. L’ampia definizione della Convenzione Europea tende a sussumere l’insieme degli interessi collettivi largamente condivisi: da quelli ecologici a quelli economici e sociali direttamente connessi al benessere e “ben vivere” delle popolazioni locali e alle prospettive di sviluppo, a quelli antropologici e culturali in cui si esprimono i valori identitari locali, nazionali e mondiali.

Il riconoscimento di tali interessi implica un’affermazione di valori che si contrappone almeno in parte alle tendenze in atto, alle dinamiche di mercato, al trionfo degli interessi particolari suscettibili di pregiudicarne l’integrità o la fruibilità. Questa affermazione richiede quindi un’azione di sostegno e di difesa da parte dell’amministrazione pubblica, atta a configurare una “regolazione” dei processi trasformativi volta ad impedirne gli effetti indesiderabili e a incentivare quelli sinergici e positivi .Nel contempo la regolazione pubblica dei processi rischiosi è tanto più “democraticamente” legittimata quanto più i riconoscimenti di valore si traducano in diritti e doveri proclamati a livello nazionale o internazionale.; è il caso di molti diritti ambientali, come tipicamente i “diritti all’esistenza” di determinate risorse inalienabili (come l’acqua) che rispondono ad interessi collettivi trans-generazionali. L’approccio “a partire dai diritti” sta guadagnando terreno nel dibattito sulla conservazione del paesaggio, in stretto rapporto con quello riguardante la natura, sostenuto particolarmente dall’ IUCN. Non ci si può nascondere che queste designazioni a livello nazionale e sovranazionale possono entrare in collisione con visioni locali più attente agli interessi (di pochi) piuttosto che ai diritti (di tutti).

 

3. Conservazione e innovazione.

 

3.1.. Conservazione e innovazione, un rapporto inscindibile

Negli ultimi decenni il principio di conservazione ha conosciuto una sconcertante dilatazione del campo d’applicazione e del suo stesso significato, non senza ambiguità e contraddizioni. Sia nei confronti della natura che del patrimonio culturale, la conservazione si è progressivamente staccata da concetti come quelli di “preservazione”, salvaguardia, tutela passiva, implicanti il riconoscimento di una condizione di immodificabilità non perfettibile, per lasciare spazio a forme più o meno complesse di trasformabilità, gestione dinamica, attenta amministrazione (Passmore 1986), cura e innovazione. Sebbene la nuova concezione recuperi importanti lezioni del passato, come il conservazionismo di Marsh (1864) o di Leopold (1933), essa si nutre di riflessioni attuali. Da un lato, la constatazione che, più che in passato, non può darsi autentica e durevole conservazione che non comporti trasformazione innovativa (“non si possono separare le cose dal loro divenire”: Tiezzi 1999; “il cambiamento fa parte inscindibile della biosfera”: Botkin 1990). Ogni intervento sul patrimonio culturale implica tensione innovativa, quanto meno nel ridar senso alle cose; e, d’altro canto, non si fronteggiano efficacemente i rischi e le minacce derivanti dai cambiamenti globali senza “adattamenti” innovativi (Adams, 1996). Ma dall’altro lato e simmetricamente, la presa d’atto che ogni autentica innovazione nel mondo contemporaneo implica il confronto con una ingombrante eredità naturale e culturale, con sistemi complessi di “provenienze” (Petz, 2004) e di memorie (Schama, 1997), che non c’è oblio senza memorie, e che la gestione innovativa degli attuali ecosistemi non può prescindere dalla loro storia precedente (Botkin, 1990). In sintesi, la conservazione si configura sempre più come “luogo privilegiato dell’innovazione”, (ANCSA, “Carta di Gubbio”, 1990),. La conservazione innovativa, lungi dal potersi interpretare come un indebolimento delle opzioni di tutela, implica un impegno rafforzato per la cura dell’eredità territoriale e per la sua trasmissione alle future generazioni (Gambino, 1997).

 

3.2. La dilatazione dell’opzione conservativa

Ma il cambiamento di senso del principio di conservazione è tanto più rilevante in quanto è stato accompagnato da una vera e propria esplosione del suo campo d’applicazione, sia nei confronti della natura che del paesaggio e del patrimonio culturale. Per la conservazione della natura, il cambiamento forse più emblematico riguarda le “aree naturali protette” ed i loro rapporti coi territori circostanti. La ricerca di forme di protezione e di valorizzazione estese a tali territori (secondo lo slogan del Congresso IUCN di Durban, 2003: “Benefits beyond Boundaries”: benefici al di là di ogni frontiera), di politiche conservative “a scala di paesaggio”, di pianificazione ecosistemica per eco-regioni, di “messa in rete” di ampi sistemi di aree protette variamente caratterizzate, trova un’ispirazione comune nel nuovo modo di intendere il principio di conservazione. Analoga dilatazione si è prodotta in rapporto al patrimonio culturale, con lo spostamento d’attenzione, (che trova emblematica testimonianza nell’evoluzione del pensiero dell’ANCSA: Gabrielli, 1997) dai “monumenti” ai centri e agli insediamenti storici, al territorio storico nella sua interezza. Anzi questo spostamento di senso, dal monumento al patrimonio, è strettamente connesso – nei discorsi che da anni studiosi come Francoise Choay (2008) vanno sviluppando - alla “mondializzazione della salvaguardia del patrimonio storico”, ossia al riconoscimento internazionale che “non possiamo più permetterci il lusso di lasciarlo andare in rovina”. Ancora più esplicito, è appena il caso di ricordare, lo spostamento riguardante il paesaggio, espresso nella Convenzione Europea del Paesaggio, che sancisce l’obbligo di riconoscere valenza paesistica a tutto il territorio, applicando misure diversificate di salvaguardia, gestione e pianificazione. Sotto tutti questi profili – ed in contrasto, beninteso, con gran parte degli apparati e delle pratiche tradizionali di controllo e tutela- si afferma l’irriducibilità del principio di conservazione a singoli “pezzi”del patrimonio naturale-culturale staccati dal contesto; o in altre parole, l’impossibilità di dividere il patrimonio territoriale in parti da conservare e parti da lasciare alla mercè delle spinte trasformatrici .

 

3.3. Il rapporto natura-cultura.

In questa prospettiva, il rapporto tra natura e cultura svolge un ruolo cruciale, tutt’altro che scontato. Respinte le schematizzazioni meno sostenibili (come la divisione dicotomica del territorio in spazi naturali  e spazi antropizzati: divisione che tuttavia ricorre ancora non solo nelle politiche dei parchi e delle aree protette "insularizzate", ma anche in molte politiche territoriali volte a contrastare con misure di esclusione i consumi dissennati di territorio)  occorre riconoscere che la discussione è aperta, sul piano teorico non meno che  politico ed operativo. Occorre da un lato de-naturalizzare le scelte di trasformazione antropica, troppo spesso occultate da generici richiami  agli eventi naturali (le false emergenze naturali  che coprono autentiche  "calamità pianificate"  e  logiche devastanti di gestione "emergenziale" del territorio, ma anche quelle interpretazioni strutturali di piani urbanistici e territoriali che confondono il "dato" col progetto). Dall'altro occorre, dopo la svolta ecologista della metà del secolo scorso e le sue ricadute deterministiche (McHarg 1966), ricostruire i rapporti tra naturalità, ruralità e urbanità, riconoscendone la compresenza pervasiva in ogni angolo del pianeta. Si configura un radicale superamento di quella contrapposizione tra natura e cultura che ha svolto un ruolo centrale nella civiltà occidentale in età moderna, a partire dalle grandi utopie rinascimentali. Se ancora alla fine dell’800 Ebenezer Howard (1898) poteva proporre con la teoria dei tre magneti e l’idea della “Città giardino” una sintesi creativa, i grandi cambiamenti del secolo scorso (come l’industrializzazione dell’agricoltura o l’urbanizzazione “totale” dello spazio abitabile e la reciproca contaminazione dei rispettivi spazi dedicati) hanno messo fuori gioco i tradizionali modelli interpretativi e sollecitato l’elaborazione di nuovi rapporti.

 

3.4. Le responsabilità antropiche nelle dinamiche naturali.

Si afferma faticosamente una crescente consapevolezza delle responsabilità antropiche nella determinazione o nell’aggravamento dei rischi, delle calamità e del degrado ambientale, mentre i “nuovi paradigmi” che si profilano a livello internazionale (IUCN 2003) legano ormai ogni prospettiva di conservazione della natura alla promozione e regolazione dello sviluppo culturale, economico e sociale sostenibile. Da un lato l’enfasi sull’impegno internazionale per la difesa della bio-diversità concede uno spazio crescente all’importanza della diversità bio-culturale, ostaggio dei processi di urbanizzazione totale ma mai indipendente dalle dinamiche naturali (Unesco 2009). E’ questa la diversità che costituisce la ricchezza (il “capitale”) su cui basare lo sviluppo sostenibile del territorio. E d’altro canto non si può certo ignorare il significato culturale connesso all’utilizzazione antropica delle risorse naturali, alla fruizione, alla percezione e all’apprezzamento individuale e collettivo dei paesaggi e delle “bellezze naturali”. Già la scoperta humboldtiana del “nuovo mondo” (von Humboldt, 1860), come l’”invenzione” sette-ottocentesca delle Alpi, orientano gli sguardi e umanizzano irreversibilmente il mondo naturale, anche in assenza di rilevanti trasformazioni fisiche. Soprattutto nei territori europei in cui più densa e pervasiva è stata la sedimentazione culturale, la naturalità con cui abbiamo a che fare è quella storicamente determinata dalle vicende pregresse dell’appropriazione antropica dello spazio: non solo da quella che ci ha lasciato un patrimonio ammirevole di paesaggi culturali, ma anche dalle spinte omologatrici che hanno investito la campagna, ipersemplificato e banalizzato i paesaggi agrari ereditati da secoli di storia, piegato le dinamiche naturali alle logiche, spesso indecifrabili, dell’espansione urbana e della dispersione insediativa, smantellato i reticoli ecologici (fossi, canali, siepi ed alberate, ecc.), presidio prezioso della diversità paesistica e della stabilità ecosistemica. (Gambino 2000). Negli scenari che si vengono delineando a livello globale, la naturalità così “storicizzata” non è in alcun modo confinabile in “aree naturali” sottratte (illusoriamente) all’influenza antropica, ma incrocia ovunque l’opera dell’uomo, sia che essa si allei assecondandole con le dinamiche naturali, sia che le contrasti in forme più o meno calamitose.

 

3.5. Valori locali e valori universali.

Negli scenari internazionali anche il riferimento prioritario ai sistemi di valori sovra-locali è oggi in discussione. Da un lato infatti l’indietreggiamento dei valori universali, minacciati od aggrediti dagli attuali modelli di sviluppo, spinge a misure esemplari di tutela, quali quelle accordate ai siti inseriti nel World Heritage. Ma dall’altro lato, la rivalutazione dei sistemi locali e delle ragioni dello sviluppo locale, soprattutto in situazioni di marginalizzazione o di declino, trova riscontro nella riaffermazione dei valori identitari locali, visti spesso dalle comunità perdenti come le “radici del proprio futuro”. E’nei sistemi culturali locali che si radicano i valori universali, come dimostrano le ricerche e i dibattiti che hanno accompagnato varie esperienze di riconoscimento di Siti Unesco, compresa quella recente, relativa alle Dolomiti: inserite come “sito naturale” ma per ragioni che richiamano esplicitamente la rilevanza dei patrimoni culturali locali. Tra i valori locali e i valori universali sembra così delinearsi un rapporto di complementarietà, o più precisamente di forte interazione, che non cancella la possibilità di conflitti e di contraddizioni. (Gambino 2010). Pensata come un argine contro la perdita o la regressione dei valori universali, la difesa del migliaio di siti del World Heritage sparsi in tutti i continenti sembra spesso portare piuttosto il vessillo di “peculiari” valori locali, capaci di competere vantaggiosamente sull’arena globale. Non a caso le battaglie politico-culturali per le “nominations” dei Siti da inserire nelle liste Unesco sono sempre più spesso ingaggiate in nome del rilancio e del consolidamento di culture e di paesaggi locali (come tipicamente nel caso dei paesaggi viticoli francesi od italiani).

 

4. La riarticolazione della centralità urbana.

 

4.1. Luoghi e reti, metafore complementari.

La tensione tra valori naturali e culturali, tra valori locali e universali, evoca inevitabilmente il rapporto tra i luoghi e le reti, da tempo pensati come metafore complementari, per l’interpretazione e il progetto dei territori della contemporaneità (Gambino1994?). Esse possono aiutare a riconoscere la “territorialità del paesaggio” nell’ampio significato attribuitogli dalla Convenzione Europea. E’ nel paesaggio, quale risulta dall’incessante interazione delle dinamiche antropiche e naturali, che l’insediamento storico prende il suo pieno significato, di storicità ed attualità. E’ nel paesaggio che i centri storici dialogano non solo con la campagna “edificata” (per usare le parole di Cattaneo, 1845), nel corso dei secoli e dei millenni dalle reti agrarie, dai sistemi delle acque e dai sistemi della viabilità e delle infrastrutture, ma anche con la presenza mobile della natura, che, riluttante ad ogni confinazione, pervade e diversifica gli spazi che circondano le aree in vario modo costruite. Nonostante i processi di urbanizzazione diffusa, la proliferazione delle maglie infrastrutturali e la stessa “modernizzazione” della pratiche colturali – soprattutto nell’ultimo mezzo secolo - abbiano profondamente ed estesamente intaccato i paesaggi ereditati dal passato, frantumandone i reticoli connettivi e i caratteri identitari, è ancora in quei paesaggi e nella loro coerente evoluzione che si può tentare di recuperare la qualità, la bellezza e la riconoscibilità dei territori contemporanei. La ricostruzione di migliori equilibri ecologici e di più accettabili condizioni di sicurezza nel quadro di vita delle popolazioni, non meno che la ricerca di nuovi fondativi rapporti coi luoghi, trova nella diversità dei paesaggi un’espressione fondamentale. Ma anche, inversamente, la piena considerazione dei nuovi significati dell’urbanità conmporanea spinge ad interpretarli nel quadro della reinvenzione dei paesaggi della modernità. La chiave paesistica offre un ausilio potente per orientare il progetto di territorio al riconoscimento delle nuove forme del rapporto tra cultura e natura: passo obbligato per migliorare la qualità complessiva offerta agli abitanti non meno che ai turisti e ai visitatori.

 

4.2. Il paesaggio urbano storico.

Nel panorama internazionale e soprattutto europeo, è il paesaggio urbano, ove si compongono forme propriamente urbane con frange peri-urbane di “campagna urbana” (Donadieu 2006), ad attrarre sempre più (come già rilevava il Memorandum di Vienna nel 2005) visitatori, residenti e capitali. Nella transizione verso la società della cultura e della conoscenza, e a fronte delle spinte omologanti determinate dai processi di globalizzazione, il ruolo della città è sempre meno affidato alle relazioni strettamente economiche e funzionali (le funzioni “centrali” del terziario e del quaternario) e sempre più alle relazioni simboliche, alle immagini identitarie e alle dinamiche “intangibili”. E’ soprattutto su queste che fanno leva le politiche di marketing con le quali città e territori cercano di affrontare con speranze di successo le sfide competitive che si profilano a livello internazionale. E’ su queste che recenti documenti (Unesco 2009) richiamano l’attenzione, sottolineando il ruolo complesso che la “messinscena” paesistica svolge combinando le immagini durevoli della città storica con le suggestioni delle nuove architetture che ne ridisegnano i rapporti col contesto extraurbano. Le tensioni che ne derivano non sono certo esenti da equivoci e contraddizioni. Come dimostrano le aspre contese che hanno accompagnato la “verticalizzazione” di tante città europee (i grattacieli di Londra o di Parigi o di Milano) è evidente il rischio che proprio le nuove immagini della “modernizzazione urbana”, prendendo le distanze dall’eredità storica dei singoli paesaggi urbani e mettendosi al servizio degli stessi meccanismi speculativi che dominano il mercato immobiliare, ne configurino paradossalmente la sostanziale omologazione. In prospettiva internazionale, il rischio che i sogni della “città europea”, orgogliosamente contrapposta alla “città americana” per la complessità della sua stratificazione storica, cancellino ogni attenzione per i caratteri distintivi, le regole di coerenza e le qualità specifiche dell’urbanità contemporanea.

 

4.3. Nuova centralità e diritto alla città.

E’ questa la posta in gioco: la centralità urbana e il suo significato per la società contemporanea, come livello specifico dell’urbanità, essenza ultima di quel “diritto alla città” su cui si svilupparono le lotte urbane degli anni ’70; ma nuovamente al centro della domanda sociale di città e di memoria. E’ il caso paradigmatico dell’Aquila, dove l’urgenza dei nuovi interventi sostitutivi per i “terremotati” ha gettato nell’ombra l’esigenza di recuperare la città storica e i suoi valori socioculturali, appassionatamente propugnata dai suoi abitanti. In prospettiva internazionale, la crisi delle politiche “centriste” (emblematizzate dalle new towns e dalle villes nouvelles) concorre a mettere in discussione l’idea che soltanto lo spazio della convergenza e dell’aggregazione fisica – la piazza – possa ospitare i valori di centralità e che al contrario gli spazi aperti, la campagna e gli spazi della “dissoluzione urbana” vi si oppongano dialetticamente. Questa discussione ha particolare rilevanza per i centri storici. Essa ne investe anzitutto il ruolo “centrale” sotto il profilo economico-funzionale, sociale e culturale, nell’ambito dei rapporti tra città compatta e città diffusa. Rapporti assai più problematici di quanto non emergesse nelle critiche alla dispersione urbana dei decenni scorsi, che vanno ripensati a fronte dell’emergere della città “reticolare” (Dematteis 1995, Gambino 2009), preludio forse di nuove più complesse forme di metropolizzazione (Indovina 2010), In queste nuove configurazioni urbane i grandi eventi prendono sempre più spesso forma fuori dei luoghi tradizionali, la quotidianità si appropria di spazi inconsueti, i giovani reinventano continuamente gli spazi della creatività. Ma la discussione investe anche l’altro termine del concetto di centro storico, la sua storicità, negandone in radice la possibilità di ancorarla a precise e stabili delimitazioni spaziali. La riarticolazione della centralità urbana non riguarda pezzi di città o brani staccabili di territorio, ma il territorio storico nella sua complessità.

 

5. Il nuovo ruolo degli spazi liberi

 

5.1. Riportare la natura in città.

Nella città e nel territorio storico contemporaneo, dentro o ai bordi dello spazio “costruito”, gli spazi liberi sono sempre meno interpretabili con la metafora ambigua del ”verde urbano”, sempre più spesso teatro della nuova fenomenologia urbana. Teatro che non si racchiude nei confini stabili dell’urbano, poiché si ramifica dinamicamente nelle reti territoriali, che entrano ed escono dalla città compatta (tipicamente con le fasce fluviali e i sistemi delle acque), la attraversano e la legano al contesto territoriale. In questo quadro la “rinaturalizzazione” della città, oggetto di politiche urbane e territoriali ricorrenti a livello internazionale, può assumere un significato nuovo e diverso. Va pensata non tanto per concedere al verde qualche metro in più, quanto per riportare la natura in città restituendole la pienezza di quel significato ecologico, storico e culturale, che traspare vividamente dall’iconografia storica. Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e attualizzare l’idea delle “cinture verdi”, nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul territorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e paesaggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. In questa direzione le politiche di conservazione della natura e del paesaggio sembrano destinate a sfidare la cultura urbanistica, costringendola ad uscire dai suoi recinti tradizionali (legati più o meno rigidamente all’ambiente costruito) per assumersi nuove più pesanti responsabilità in ordine alla realizzazione dello spazio pubblico e dello stato sociale.

 

5.2. Dalle reti ecologiche alle infrastrutture ambientali.

D’altronde, nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche – per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesistica del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate – ha già assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (Ced-Ppn, 2008). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni biologiche, di collegamento tra habitat e risorse naturali che rischiano l’insularizzazione, ma assumono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegando risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove “infrastrutture ambientali” capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno importante di quello tradizionalmente assegnato alle reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo “in uscita” dalla città, vale a dire verso i territori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche “in entrata”, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a riportare la natura in città (“greening the city”), per i progetti di recupero e riqualificazione delle fasce fluviali e per i sistemi delle acque storicamente consolidati, per il riuso non meramente immobiliare dei “vuoti urbani” e delle grandi aree dismesse, segnala il maturare di una nuova consapevolezza dei grovigli di deficit che occorre rimuovere.

 

5.3.Collegare tutela e valorizzazione.

Lungi dal potersi rinchiudere in orizzonti settoriali, in pratiche “cosmetiche” o in pericolose politiche d’emergenza, la conservazione innovativa della qualità del territorio richiede strategie lungimiranti d’intervento strutturale e preventivo, che guardino non solo alle “eccellenze” ma all’insieme del territorio; è questo che va salvato e valorizzato, non i singoli “oggetti” che ospita. Le nuove visioni che caratterizzano gli scenari internazionali, i nuovi paradigmi che dovrebbero guidare la conservazione della natura, le prospettive reticolari che si profilano nelle città e nei territori contemporanei, sollecitano strategie diramate e complesse, trans-scalari e pluri-settoriali. Calamità falsamente naturali e tragedie ambientali quotidiane ribadiscono la necessità e l’urgenza di collegare la tutela e la valorizzazione delle città e dei centri storici, dei paesaggi e del patrimonio culturale al rispetto della natura e del contesto ambientale, oggi oggetto di politiche largamente, drammaticamente separate. Convergono, nella crisi che attraversiamo, cause diverse, che attengono all’indebolimento e alla inadeguatezza degli apparati istituzionali e di governo, ma anche alla scarsa fiducia negli atteggiamenti cooperativi, nelle possibilità di partnership e di collaborazione inter-istituzionale: anche quando, come nel nostro paese, la “leale collaborazione”tra le istituzioni di governo è esplicitamente richiesta dalla stessa Costituzione. Si determina quindi una difficoltà insuperabile nella costruzione di quella “intelligenza collettiva” dell’impresa, della politica e del progetto (SIU, 2011) che costituisce una condizione indispensabile per affrontare con speranza di successo le sfide del territorio.

 

5.4. Integrare politiche della natura e politiche del paesaggio.

Nel tentativo di cambiare rotta, si profilano in particolare nuove alleanze tra politiche per la natura e politiche per il paesaggio (Gambino 2009, 2010). Le ragioni sono molteplici e affondano le radici nella comune esigenza di incidere positivamente nel governo del territorio. Da un lato si constata che le politiche di conservazione della natura, nonostante le carenze e le contraddizioni dell’azione pubblica, stanno assumendo un rilievo inaspettato nelle politiche locali e regionali. In particolare, nel 2010, l’Anno della Biodiversità, è stato largamente ribadito il ruolo centrale dei parchi e delle “aree naturali protette”, sia di quelle istituite dai singoli Stati con riferimento alle definizioni dell’Unione Mondiale della natura (IUCN 1994), sia di quelle istituite a livello sovra-nazionale, come la Rete Natura 2000 per i paesi dell’Unione Europea. Una spettacolare e incessante crescita dell’insieme di aree protette ha portato negli ultimi decenni ad estenderle ad una quota assai rilevante del territorio complessivo: in Europa si stima che un quarto ne sia coperto e che circa un quarto della popolazione sia direttamente influenzata dalla loro gestione (CED-PPN 2008). Tale quota può essere ulteriormente aumentata se si considera che i “nuovi paradigmi” sanciti dall’IUCN spingono ad estendere i benefici delle aree protette ai rispettivi contesti territoriali (IUCN 2003). Dall’altro lato, le politiche del paesaggio, secondo gli orientamenti fissati dalla Convenzione Europea, riguardano l’intero territorio e sono esplicitamente chiamate ad incidere su ogni politica, dall’urbanistica ai trasporti all’agricoltura, che possa comportare la conservazione e la trasformazione del paesaggio. Ma, nonostante la concordanza dei fini e la larga sovrapposizione tra le aree naturali protette e i paesaggi a vario titolo tutelati, le rispettive politiche sono, in generale, sostanzialmente separate: le politiche dei parchi fanno capo ad istituzioni, a strumenti e forme di regolazione e a strategie generalmente diverse, salvo che nel caso di vera e propria sovrapposizione (come per le “aree protette” ricadenti nei “paesaggi protetti” così classificati dall’IUCN, che coprono peraltro più di metà del territorio protetto). Nel caso dell’Italia, la difficoltà del raccordo tra i due ordini di politiche è ben rappresentata dalla contraddizione tra l’art.12 L.394, che affida ai Piani dei Parchi un ruolo “sostitutivo” nei confronti di ogni altro piano, e l’art.145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che attribuisce invece ai Piani Paesaggistici una sorta di primato nei confronti anche dei Piani dei Parchi.

 

5.5. Nuove alleanze per il progetto di territorio.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, sembra dunque profilarsi una doppia necessità di integrazione, delle politiche della natura e del paesaggio con le politiche del territorio. Un ambizioso programma di ricerca in tal senso, avente come campo d’attenzione l’intera Europa, fu presentato a Barcellona nell’ambito del Congresso IUCN (CED-PPN, 2008). L’alleanza tra parchi e paesaggi non può che trovare un terreno comune di applicazione nel contesto territoriale e in una prospettiva autenticamente progettuale. Il “progetto di territorio” (Magnaghi 1998) è stato da tempo indicato come il luogo dell’integrazione degli interessi pubblici diversi, della valutazione e composizione dei valori e dell’orientamento strategico delle politiche di regolazione dei processi trasformativi. E già 50 anni fa documenti come la Carta di Gubbio (ANCSA, 1960) attribuivano al Piano Regolatore il compito di delineare le “azioni d’insieme” necessarie per il risanamento dei centri storici,.Molti altri problemi attinenti l’insediamento umano hanno concorso in seguito a complessificare ed aggravare la questione urbana, sollecitando politiche pluritematiche convergenti, in grado di contrastare la settorialità dell’azione pubblica e la sua schiacciante dipendenza dalle logiche dell’emergenza E’ difficile pensare che esse possano fare a meno del “progetto di territorio” latamente inteso, come processo sociale ampio e condiviso, capace di rispecchiare, per dirla col Sereni, i “disegni territoriali” delle popolazioni locali. Processo che non può evitare di muoversi in un orizzonte cooperativo, in cui l’azione fondamentale dei soggetti e dei poteri locali trovi i necessari riscontri a livello regionale, nazionale e sovra-nazionale.

 

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