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Paesaggio: la cura

Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni - maggio 2016

Paesaggio: la cura

Urge un punto di vista femminile per la cura del paesaggio “sospeso” delle periferie

La Chiesa ha bisogno delle donne nel processo decisionale, dice Francesco. A sentire le interviste fatte a qualcuna delle centinaia di madri superiore che il Papa ha chiamato a raccolta, il tono è: gliene abbiamo cantate quattro e si è reso conto che era ora…Anche la Chiesa cattolica si accorge che il punto di vista femminile è peculiare e può avere un ruolo determinante nelle scelte strategiche e non solo nelle pratiche per il bene comune. Dico “anche” perché sono ormai numerose le occasioni in cui le istituzioni si rendono conto che l’impostazione femminile è una (preziosa) possibilità oggi, sempre per utilizzare le parole di Francesco.

Oggi. Forse è perché oggi ci accorgiamo che in molti settori della nostra civiltà sta avvenendo un cambiamento epocale. Per dirla con degli slogan, si è passati dalla fase fondativa post-rivoluzione industriale a quella della continuità, dalla produzione alla riproduzione, dal lavoro da fabbro a quello da aggiustatore. Ci stiamo accorgendo che non servono più gli operai ma i manutentori, che per l’orchestra forse non si devono fare nuovi strumenti ma certo bisogna accordare quelli che già ci sono. E ci siamo accorti che queste competenze mancano nel tradizionale bagaglio di sapere e di comportamento maschile, e al contrario si ritrovano, forse sotto traccia ma sistematicamente, nelle storie e nelle personalità femminili. E non si parla solo di orchestre musicali o di artigianato tradizionale: è la democrazia stessa che chiede l’aiuto delle donne e del loro punto di vista non-violento ma avverso alle derive autoritarie e razziste. E’ l’economia alternativa al mercatismo che cerca modelli di sostenibilità nella sobrietà e nella tenace solidarietà delle economie domestiche millenarie, delle famiglie di campagna e di città gestite da donne. E’ il territorio che ormai non è più prateria per pascoli bradi, spazio per cow-boy, ma è campo coltivato da ristorare, rigenerare, riabilitare, e cerca uno stile gestionale diverso dalla contrapposizione dialettica regole vs. libertà, verso una composizione integrata ed equilibrata delle dinamiche sociali e naturali.

Le parole d’ordine sono ormai prendersi cura, fare attenzione, programmare sostenibile. E ci accorgiamo che non siamo capaci, che siam cresciuti con l’idea che per risolvere i problemi si dovesse conquistare, fondare, stabilire leggi, e che poi il resto sarebbe andato da sé, che sarebbe stata tutta discesa. Al contrario: dopo l’inizio, pieno di entusiasmo e di passione, inizia la salita, lenta, lunga, che richiede fiato e umiltà: il popolo conquistato va integrato, la città fondata va gestita e resa piacevole per abitare, le leggi stabilite vanno applicate con buon senso. E ci accorgiamo che queste non sono virtù dell’educazione maschile ma di quella femminile.

La storia del mondo contadino insegna, ad esempio, che la ricchezza delle famiglie padane era fondata su due pilastri: l’uomo imprenditore, che stringeva le mani nei contratti e andava al mercato, e la donna reggiora, padrona del portafoglio per le spese e delle strategie domestiche (soprattutto quando era domina nella domus dove lavoravano decine di famigli e di braccianti). Anche nel lavoro duro, la stessa divisione di compiti, tra fondazione e coltivazione: i terrazzamenti dei versanti erano fatti con le pietre cavate dagli uomini a tenere la terra portata e poi coltivata dalle donne.

Il mondo contadino insegna che matrimonio è parola che indica il tesoro della madre, che metteva da parte i proventi dell’orto e dell’aia, a sua cura. Sono tesori fatti di briciole quotidiane tenute insieme dalla pazienza di decenni: in 18 anni ci sono 6570 giorni e una madre li conta coi lavori da centesimi, uno per uno, dal giorno della nascita della figlia, per farle la dote.

E’ su questa cultura del matrimonio che dovremo contare per salvare il patrimonio. Pensiamoci: noi maschietti abbiamo fatto monumenti e città, strade e bonifiche, ma ora siamo incapaci di tenere insieme il sistema. Non siamo stati attenti a farlo costare poco alle future generazioni. Le donne, che le generazioni le fanno, curano naturalmente (o culturalmente) la durata, la continuità: possono applicare a Gaia, ai nostri paesaggi, alle nostre città quelle basi di comportamento sobrio e consapevole che hanno consentito loro di gestire miliardi di famiglie per far fronte alle proprie necessità con le risorse che si hanno, giorno per giorno.

Il ruolo e la weltanschauung femminile, che sono l’anello forte del mondo preindustriale (usando il termine coniato da Nuto Revelli), devono potersi applicare ai nodi che ormai serrano il mondo industriale e postindustriale: è l’unica sensibilità e forza calma che consente di scioglierli invece che affrontarli ansiosamente e finire per stringerli mortalmente, come stiamo facendo nell’inseguire le abitudini secolari di conquista e di spreco.

Ma è una strada lunga e difficile, ancora controcorrente rispetto alla tendenza prevalente a cooptare tutti, uomini e donne, dentro le diatribe irresolvibili in cui siamo impantanati, senza consentire una visione diversa, senza offrire la possibilità di opzioni davvero alternative sulle questioni serie: l’economia consumistica, l’integrazione sociale, il lavoro giovanile, ad esempio. Se su questi aspetti l’Europa si asserraglia su antichi valori ormai controproducenti, occorre cominciare da settori apparentemente meno importanti, a dimostrare la potenza di un’impostazione e un metodo applicativo diversi.

Su certi aspetti, come quelli ambientali, si comincia ad essere incisivi a partire dalla cultura e dall’educazione, su cui tutti son distratti perché presi dal morso delle urgenze. Una cultura ambientale improntata al punto di vista femminile sta già dando i suoi frutti positivi, ad esempio richiamando al dovere di tutti di partecipare al risanamento, a partire dalle piccole azioni del quotidiano. Anche se nei fatti non fosse così importante risparmiare l’acqua in bagno e differenziare la raccolta rifiuti, certo è fondamentale per allenare una coscienza collettiva e personale sulle responsabilità ambientali, processo che in democrazia, una volta affermato nelle coscienze collettive, diventa incisivo anche per i poteri forti e aggressivi.

Ma forse ancor più che l’ambiente è il paesaggio che si potrebbe giovare di una gestione matrimoniale più che patrimoniale. Non solo nel senso banale delle metafore del lavoro femminile (si parla fin troppo di rammendo, di ricucitura, di riordino), ma nella prospettiva forte di un cambio di rotta nelle politiche di gestione del territorio. E’ già nell’aria: dichiarare lo stop al consumo di suolo (agricolo) vuol dire demolire la considerazione dell’urbanistica come palestra per la conquista del territorio. Ma la fine di una tradizione culturale e tecnica non vuol dire l’avvento immediato di un’altra strumentazione o sensibilità. E’ vero che appare sul tavolo della politica il tema della “rigenerazione delle periferie”, evocato dal malessere delle banlieue, che nella vulgata dei media partorisce terrorismo. Ma per ora prevale la malafede con cui fingiamo di cadere dalle nuvole scoprendo che nelle periferie si sta male.

In realtà oltre metà degli italiani abita in periferia, in quello sterminato intervallo di Paese che sta tra i centri storici e la campagna perfetta, di boschi e radure coltivate. E’ il prodotto di 100 anni di monocultura, in cui abbiamo saputo solo urbanizzare, come obbedendo ad un ordine militare di colonizzazione, ad una carica di cavalleria al grido di Avanti Città! . In realtà abbiamo fatto case a casaccio, strade, capannoni: mai città, sempre frammenti, slabbrature, tracce. In quel campo di battaglia devastato il paesaggio è sospeso: nessuno si vuole occupare di come ci si sente ad abitare in luoghi stravolti dal cambiamento, di cui si è nascosta la storia, dove non ci sono spazi per la socialità, dove nessuno si è preoccupato da curare la vista dalle finestre, il percorso per la scuola, il riconoscimento di dove si abita.

E’ in questo immenso ospedale da campo che si deve curare il paesaggio, e la cura non può essere nelle regole di chi conserva il patrimonio: qui non c’è patrimonio (come certificano i cataloghi ministeriali e i piani regionali). La cura sta, ancora una volta, nell’Anello forte, il modo femminile, solerte e capillare, che deve ricongiungere i luoghi con la gente. E’ un’impresa millenaria ma quotidiana, come quella di alfabetizzare il Paese ai tempi di DeAmicis, dove gli interventi non sono fini a se stessi ma servono ad una prospettiva culturale, educativa, dettata dalla sensibilità locale e occasionale, che può venire solo dalla maestria di mille maestre dalla penna rossa.