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In quali dinamiche del nostro equilibrio interiore fluisce il rapporto paesistico? Abbiamo provato a sintetizzarle in tre azioni: abitare, esplorare, contemplare. Abbiamo anche ipotizzato che ciascuno possa ottenere l’integrazione del “benessere paesistico” solo soddisfacendo i requisiti di tutte e tre le azioni, in tempi e spazi anche diversi, comunque in un cocktail, anche se le proporzioni fra le tre parti variano a seconda delle biografie culturali e sentimentali e delle situazioni personali. Dunque, ad una valutazione ingenua si direbbe che il paesaggio terapeutico sia quello che reintegra il benessere di ciascuno, alterato e scomposto per la domanda insoddisfatta di paesaggio da abitare, o da esplorare, o da contemplare.
Materiali terapeutici senza paesaggio
Gli etimi inducono ripensamenti e soprassalti nel corso ordinario delle idee. In greco “terapeo” ha come primo significato “servire”, “essere al servizio in posizione subalterna”. “salus” invece, condivide con “salvus” la radice sanscrita sarvah., che comporta “unità, interezza”.
Dunque la terapia come servizio d’ausilio per riprendere la salute, cioè un aiuto a chi si è scomposto, per recuperare la propria unitarietà, per ricomporsi in unum.
Allora, se rispettiamo il significato primo, un paesaggio “terapeutico” è un paesaggio che svolge un servizio d’appoggio, e, dato che nell’uso comune “terapia” è un servizio per la salute, è un paesaggio che aiuta a recuperare una sanità alterata, un equilibrio perso, un’identità olistica in crisi.
Questa dimensione fondamentale è significativamente diversa da quella della medicina ottocentesca, che, in un melting pot di romanticismo e di positivismo, raccoglie la tradizione classica dei luoghi di salute. Si tratta per lo più di luoghi reputati salutari perché fonte di materiali terapeutici non trasportabili. Sono storicamente acque o fanghi; inoltre le nuove scoperte dell’igienismo portano in auge qualche proprietà per le arie degli ambienti più naturali: alle terme si aggiungono i sanatori montani, gli stabilimenti dei bagni per il carico di jodio aleggiante.
I siti dove sono presenti le sfuggenti materie ritenute terapeutiche diventano sede di società fittizie e slegate dal tempo ordinario e dai luoghi conosciuti. Da una parte la tipologia delle “colonie”, con quella componente prescrittiva lievemente sadica della cura “socialmente utile”, con i suoi comportamenti collettivi da caserma, che erodono ogni versante ludico e di piacere fruitivo. D’altra parte la tipologia delle terme, con gli ozi fuor di casa che hanno precedenti solo nel clima sospeso e mondano del Viaggio in Italia degli aristocratici mitteleuropei o anglosassoni.
“Passar le terme” indica, nei fasti di fin de siecle, più un tempo che uno spazio, un modo di svolgere riti societari a cui i luoghi si acconciano, riproducendo simulacri di città fantastiche e giardini sognanti in campagne per lo più fangose, puzzolenti e poco fascinose, se si fa eccezione per le frequenti tracce archeologiche di chi aveva preceduto di un paio di millenni queste pratiche terapeutiche.
Il paesaggio delle terme, come quello delle colonie e dei sanatori, è per lo più inventato, estraneo al territorio circostante, anzi costruito in modo tale da rendere meno comunicante possibile il senso dei luoghi interni rispetto a quelli esterni.
E’ un paesaggio di fondazione come l’urbs romana di provincia, come gli odierni villaggi turistici. Ha le caratteristiche generali che Augè definisce come proprietà dei non-luoghi, ovvero degli ambienti significativi che assumono il loro senso, pur potente e diffusamente riconosciuto, entro una rete di riferimenti delocalizzata. Anzi, come per i non-luoghi del moderno studiati da Augè, è importante che il senso delle “istruzioni per l’uso” che derivano da quei complessi sia tipologico e non individuale, sia riferito alle terme nella loro generalità e non a quelle di Marienbad o di Aix-le-Bain. Infatti se si prendono le mosse dalla letteratura e dalle immagini che arte figurativa e cinema ci rimandano, le terme nel paio di secoli scorsi svolgono un servizio, ancor più che per la salute, per l’identità sociale: agevolare l’auto riconoscimento di una società altoborghese e aristocratica.
La terapia salutistica delle acque diventa quindi pretesto per appuntamenti identificativi di una società che, trabordando dalle città e addirittura dai paesi d’origine, comincia diffusamente a farsi internazionale. E per questo richiede reti securizzanti, spazi in cui è facile riconoscere regole simili e comportamenti codificati per tutti quelli che li frequentano, con riti e liturgie uniformi e generalizzate in tutta Europa: come per i templi della musica, i transatlantici e i cimiteri monumentali.
Ancora più astratto dai luoghi il tipo della “colonia” e del “sanatorio”, immerso fisicamente nello spazio “salutare” (il bosco montano, la riva del mare) ma di fatto staccato dal paesaggio complessivo, dalle relazioni con gli abitanti: un complesso edificato con il suo recinto ritagliato dal resto. Anche qui il termine “colonia” riecheggia separazioni, insule chiuse e incomunicanti con l’intorno: il contrario del paesaggio, nel senso che gli attribuiamo secondo la Convenzione europea.
Dunque non si tratta propriamente di paesaggio terapeutico quello che si fruisce presso i “materiali terapeutici” inamovibili e i loro “insediamenti produttivi”.
Se riportiamo il paesaggio alla sua dimensione complessiva, interattiva con i luoghi e con la cultura degli abitanti e dei fruitori, il campo di riflessione sull’aggettivo “terapeutico” diventa più complesso e intrigante.
La terapia si porta dietro un concetto di salute, che ben si attaglia, se ci riferiamo agli etimi iniziali, ad una relazione olistica, integrale, di ciascuno con il paesaggio.
Ma in quali dinamiche del nostro equilibrio interiore fluisce il rapporto paesistico? Abbiamo provato a sintetizzarle in tre azioni: abitare, esplorare, contemplare.
Abbiamo anche ipotizzato che ciascuno possa ottenere l’integrazione del “benessere paesistico” solo soddisfacendo i requisiti di tutte e tre le azioni, in tempi e spazi anche diversi, comunque in un cocktail, anche se le proporzioni fra le tre parti variano a seconda delle biografie culturali e sentimentali e delle situazioni personali.
Dunque, ad una valutazione ingenua, che chiede venia per il dilettantismo agli psicologi e agli antropologi, si direbbe che il paesaggio terapeutico sia quello che reintegra il benessere di ciascuno, alterato e scomposto per la domanda insoddisfatta di paesaggio da abitare, o da esplorare, o da contemplare.
Ovviamente non si tratta di luoghi ma di loro caratteri, di proprietà terapeutiche immateriali che, opportunamente composte in un “preparato di paesaggio” da assumere lentamente durante tutta la vita, possono curare i disagi del “mal di abitare”.