Indice
Il significato del paesaggio
a. Polisemia e comprensione olistica.
Le tre linee di ricerca sopra ricordate (in varia misura rappresentate nel seminario qui illustrato) sono sufficientemente indicative di sollecitazioni scientifiche che non possono trovare adeguato riscontro né, da un lato, nelle matrici teoriche e nei quadri concettuali più consolidati, quale quello della Landscape Ecology, né, dall’altro, nel semplice allargamento del ventaglio di discipline coinvolte dalla questione paesistica. Non si tratta tanto di considerare qualche aspetto in più, ma di ripensare l’intera questione paesistica in termini più complessi. Se questo è vero, ecco una prima parziale risposta all’interrogativo che ci eravamo posti, se sia utile e possibile tentare di costruire una teoria generale del paesaggio e come altrimenti sia possibile affrontare olisticamente la complessità del paesaggio. Allo stato attuale, si può avanzare un’ipotesi “debole” eppure già molto impegnativa: che sia possibile ed opportuno “mettere in rete” le diverse interpretazioni e ricercare la massima interazione tra le diverse linee di ricerca, in modo che possano arricchirsi a vicenda. Questa ipotesi, se da un lato consente di rispettare il pluralismo degli approcci disciplinari, dall’altro richiede però che siano individuati i punti d’incrocio e di convergenza e che siano stabiliti gli “accordi linguistici” necessari all’intercomunicazione. È interessante notare che, in parte, questo è precisamente ciò che già si fa o si tenta di fare nelle esperienze innovative di pianificazione paesistica: ad esempio, col ricorso a “griglie valutative trans-settoriali” che ospitino la confluenza e favoriscano l’interazione delle analisi valutative operate nell’ambito delle diverse discipline (Gambino, 1996, 1997). Ma qui si ipotizza qualcosa di più e di diverso: la possibilità cioè che la fertilizzazione incrociata delle linee di ricerca retroagisca sugli apparati concettuali e sui quadri interpretativi messi a punto nei diversi ambiti disciplinari, in modo che i diversi contributi possano concorrere più efficacemente alla comprensione olistica del paesaggio. Questa ipotesi rispecchia l’idea che esista o possa esistere un interesse comune al trattamento della questione paesistica; che il paesaggio assuma o possa assumere un significato complessivo, per la società contemporanea, tale da investire la pubblica responsabilità e da richiedere un impegno collettivo. È un’idea confortata dalla consacrazione politica decisa dal Consiglio d’Europa. Ma qual’è questo significato?
La domanda è tutt’altro che banale, visto che non c’è accordo tra le diverse discipline e neppure al loro interno su ciò che col termine di paesaggio (o col quasi-equivalente termine inglese) si debba intendere. Nel corso del Seminario sono state richiamate alcune delle tante definizioni proposte dalle diverse scuole, che non è qui il caso di ricordare. Sembra tuttavia rilevabile una larga convergenza nel riconoscere che, anche al di là delle gabbie teoriche tuttora utilizzate, l’esperienza paesistica abbia un duplice fondamento - naturale e culturale - e che nel paesaggio si incrocino inevitabilmente ecosfera e semiosfera (Dematteis), o geosfera-biosfera e noosfera-gnoseosfera (Calzolari). Questo riconoscimento non attenua ed anzi accentua le ambiguità e le tensioni interpretative inerenti il concetto stesso di paesaggio.
b. Soggettività ed oggettività
Anzitutto non si può prescindere dalla sua ambiguità intrinseca (quella che Farinelli, 1991, chiama l’“arguzia”), quel suo alludere insieme ad un pezzo di terra ed alla sua rappresentazione, alle cose e alla loro immagine, alla “res extensa” e alla “res cogitans”. È un’ambiguità che non va confusa con le incertezze semantiche del termine, e che appare utile e feconda (Gambino, 1994a) proprio perché mantiene aperto e metaforico il significato del paesaggio, respingendo le seduzioni oggettivanti delle scienze della terra e di un certo storicismo, senza pretendere la regressione al puro visibilismo estetizzante o all’impressionismo ascientifico. Essa richiama l’attenzione sui rapporti tra processi reali e processi di percezione e di rappresentazione, con scoperto richiamo ai meccanismi di “bisociazione” studiati dal Koestler, 1964 (l’ironia del Don Chisciotte, fondata sull’endemico doppio senso e sul confronto continuo di realtà e fantasia), alle trasposizioni poetiche della pittura di paesaggio fino agli artifici del “Claude-glass” usato nel Settecento (Schama, 1995) ed ai trompe l’oeil di Magritte.
Ma proprio quest’ambiguità costringe a confrontarsi con la tensione ineliminabile tra soggettività ed oggettività del paesaggio. Il dualismo paese/paesaggio o luogo/rappresentazione (Dagognet, 1982) richiama inevitabilmente questa tensione, che sfida le certezze e le ansie d’oggettivizzazione dell’approccio scientifico e che si manifesta a più livelli. Naturalmente, è la stessa oggettività dell’osservazione scientifica a dovere essere messa in dubbio, in questo come in altri campi d’analisi. L’idea che il paesaggio possa costituire l’oggetto immobile ed inerte di un osservatore neutrale e disinteressato, in grado di coglierne con assoluta oggettività l’essenza, è stata ed è indubbiamente utile a legittimare politicamente e giuridicamente l’azione di tutela. Come si ricorderà, il carattere ri-cognitivo delle attribuzioni di valore operate con la pianificazione paesistica sviluppatasi in Italia dopo la L431/1985 le distingueva nettamente dai vincoli conformativi derivanti dalle tradizionali scelte urbanistiche, anche sotto il profilo della non-indennizzabilità dei vincoli di tutela. Ma è un’idea che risulta sempre più difficile conciliare con l’evoluzione del pensiero scientifico contemporaneo, con la crescente consapevolezza dell’intrinseca fluidità e provvisorietà di ogni avanzamento conoscitivo e dell’inevitabile dipendenza di ogni giudizio valutativo dai pre-giudizi dell’osservatore e dai sistemi di preferenze del contesto sociale. Si può discutere se, come è stato osservato (Todorov, 1990) lo sgretolamento delle certezze e la perdita d’innocenza delle conoscenze scientifiche rifletta lo scontro tra i “monologhi” delle scienze della natura e il “principio dialogico” delle scienze sociali. Ma, più specificamente, molti dubbi possono essere avanzati circa la possibile autonomia dell’osservazione scientifica di fronte alla natura stessa dell’esperienza paesistica. L’idea che possa esistere un sapere scientifico in qualche modo separato e diverso dalle varie forme di esperienza e conoscenza paesistica sembra implicare una concezione estremamente riduttiva del significato del paesaggio per la società contemporanea. Ridotto a realtà oggettivabile e neutralmente quantificabile, il paesaggio perderebbe il suo significato primario di “processo interattivo, osservazione incrociata tra idee e materialità” (Bertrand, 1998). Mediazione simbolica tra società e territorio, il paesaggio lega la coscienza storica e le memorie collettive alle attese e ai progetti di cambiamento dello spazio sociale. “In questo senso, il paesaggio è il luogo privilegiato d’una riflessione tendente ad includere in una stessa problematica differenti modalità di conoscenza, estetica, scientifica, ordinaria” (Mondada et al.,1992).
c. Ipertestualità e senso comune
Questa considerazione induce a spostare l’attenzione, dalla soggettività inerente l’osservazione scientifica disinteressata, a quella inerente il fruitore, direttamente impegnato nell’esperienza paesistica. È questo un tema su cui sembra addensarsi una nube cospicua di interrogativi, strettamente legati alle peculiarità di tale esperienza. Al fatto, certamente, che si tratta di un’esperienza plurisensoriale: se è vero che il paesaggio visivo la fa da padrone e “la visualità è il mezzo più importante con cui la gente interagisce con ciò che la circonda” (Steiner, 1998, che cita Tuan, 1974, secondo cui siamo essenzialmente animali visivi), studi recenti sul paesaggio sonoro attestano il ruolo fondamentale che esso svolgeva anticamente, nei sistemi d’intercomunicazione sociale (Giametta et al., 1998; Anzani, 1993). Ma ciò che conta soprattutto è il fatto che il paesaggio circonda il fruitore, lo forza a partecipare, lo costringe ad una percezione attiva (Zube et al., 1982), lo obbliga a scegliere di continuo (la fruizione come viaggio, o come navigazione): a scegliere almeno il punto di vista, indispensabile perché il paesaggio possa esistere (Caprettini, 1998), quando non addirittura “costitutivo” (come nelle grandi marine del paesaggio realistico olandese del ‘600: Clarck, 1976). E proprio questa libertà intrinseca dell’esperienza paesistica, questa dipendenza della fruizione dalle scelte dell’utente, questa multidirezionalità della lettura favorita dalla “straordinaria compresenza di dati testuali, di racconti, di documenti, di derive, di biografie, di repertori” (Pavia, 1996) che si profila nella prospettiva post-moderna, insomma questa “ipertestualità” implicita in ogni testo paesistico (Cassatella, 1998), sembra portare alle estreme conseguenze la soggettività di tale esperienza, sembra prefigurarne una radicale irreversibile atomizzazione. Nomadismo e sradicamento caratterizzerebbero la navigazione solitaria di ogni singolo fruitore, sottratta ad ogni regola di concordanza e di intercomprensibilità, sempre totalmente “straniante”: una logica perfettamente corrispondente a quella che guida le rappresentazioni offerte dai GIS, prive, a differenza delle carte tradizionali, di centro e di prestabiliti punti di vista, atte a descrivere uno “spazio di flussi” totalmente deterritorializzato. Ma il paesaggio può davvero disperdersi in una miriade incoerente di esperienze individuali? Un paesaggio così atomizzato avrebbe ancora “senso”? O non sarebbe precisamente questa l’annunciata “morte del paesaggio”? Può il paesaggio rinunciare ad ogni “principio d’ordine”, se persino la sua funzione estetica, in quanto forma privilegiata di comunicazione sociale, risponde antropologicamente ad una tendenza all’ordine e alla “pregnanza” (Eibl-Eibesfeldt,1994), se la sua stessa “leggibilità” presuppone l’iscrizione di un codice nella materialità dei luoghi?
L’ipertestualità implicita nei paesaggi della post-modernità non impone la rassegnata accettazione di ogni perdita di senso. Al contrario, si può ritenere che il paesaggio sia chiamato a svolgere oggi più che mai quella essenziale funzione di “orientamento” che già il Lynch (1971) aveva messo in evidenza. Se è vero che il paesaggio è un passaggio obbligato per la comprensione del mondo, forse il suo ruolo consiste proprio nel manifestare quella “concordanza” che fà sì che gli uomini “non abitino ciascuno nel proprio isolotto”, creando legami che ci uniscono attraverso “il nostro contatto muto con le cose, quando esse non sono ancora dette” (Merleau Ponty, 1993, citato in Dematteis, 1998). La pluralità, apertura ed imprevedibilità dei significati offerti dai testi paesistici non impediscono di cogliere, come sottolinea Dematteis, un “senso comune” del paesaggio (o anzi del “proto-paesaggio”, per seguire Berque, 1995), che “crea un legame silenzioso e latente tra ogni individuo e gruppo sociale ed il resto del genere umano e dei suoi ambienti geografici”, un senso di appartenenza potenzialmente globale (“global sense of place”: Massey, 1993, citato da Dematteis, 1998) che si oppone efficacemente alle tendenze omologatrici in corso.
d. Identità ed alterità
È da questo senso comune, per quanto difficile da precisare, che conviene forse partire per affrontare un’altra tensione fondamentale dell’esperienza paesistica, quella tra identità e alterità, diversità e interculturalità. Nella ricerca e nella pianificazione paesistica degli ultimi decenni il tema dell’identità occupa un posto di rilievo. Esso evoca l’attenzione per le peculiarità geomorfologiche ed ecologiche locali (anche in termini di biodiversità), per le specificità storiche, estetiche e culturali (lo “statuto dei luoghi”), per i sistemi di relazioni che legano localmente determinati gruppi o comunità ai territori in cui abitano o svolgono le proprie attività. A torto o a ragione, il paesaggio è stato inteso come spazio dell’identità, chiamato a svolgere un ruolo di aggregazione difensiva e di contrasto nei confronti di tendenze trasformatrici e di processi di sviluppo eterodiretti che erodono le radici, le memorie e la stessa riconoscibilità delle comunità locali. Sotto l’ampia bandiera dello sviluppo sostenibile, la valorizzazione delle identità paesistiche locali si è saldata ai tentativi di consolidamento, rinascita o promozione dei sistemi economici locali, capaci di battere le strade dello sviluppo endogeno ed auto-organizzato. La contrapposizione tra le visioni e gli interessi degli insider e quelli degli outsider - già ben argomentata in prospettiva storica dal Cosgrove, 1984 - ha così assunto una forte enfasi politica, economica e socioculturale. Non sono mancati riscontri nel marketing turistico (con l’utilizzazione strumentale degli stereotipi paesistici), come pure nel marketing urbano e territoriale (nel quadro della valorizzazione del capitale simbolico e dell’appeal ambientale). Non si può neppure negare che la strenua difesa della propria diversità e dei propri sistemi d’appartenenza, contro la violenza soppraffatrice delle tendenze globalizzanti, possa alimentare lo spirito d’esclusione, le chiusure localiste (i “ponti levatoi” che si calano alla sera a proteggere certe comunità nordamericane da possibili “incursioni”), l’appello a nuove forme di violenza (Isola, 1998), com’è tragicamente evidente nelle “identità armate” (Remotti, 1996) che si manifestano nel panorama internazionale. Ma, più in generale, è necessario articolare più complessamente il tema dell’identità. Al centro dell’attenzione c’è il rapporto intrigante tra identità e alterità e quindi tra i luoghi in cui si coglie l’identità e le reti lungo le quali si incontra l’alterità. L’identità si costituisce sulla diversità e presuppone quindi l’alterità (Castelnovi, 1998; Remotti, 1996); e, così come identità e alterità sembrano rappresentare due polarità complementari e mutuamente irriducibili dell’esperienza paesistica, luoghi e reti sembrano legati da una complementarietà indissolubile (Gambino, 1994b). Questa complementarietà è alla base di ogni possibile tentativo di articolazione dei testi paesistici, in particolare di riconoscimento di “unità di paesaggio”, distinguibili l’una dall’altra proprio perché dotate di una propria identità e di una propria interna coesione. Negli studi per il Piano Paesistico Territoriale della Valle d’Aosta o in quelli del Piano del Parco dei Colli Euganei, le unità di paesaggio sono definite come ambiti caratterizzati da specifici sistemi di relazioni (ecologiche, funzionali, storiche, culturali e percettive) tra componenti eterogenee, che conferiscono loro un’identità riconoscibile che li distingue dal contesto. Il riconoscimento dell’identità é basato sull’esperienza dell’altrove e del diverso (Telaretti, 1997), così come l’apprezzamento della diversità presuppone la capacità di leggere, riconoscere e quindi distinguere le diverse identità. Inversamente, i sentimenti d’identità e d’appartenenza staccati dalla sensibilità per la diversità inducono a chiusure nostalgiche e regressive e a comportamenti d’esclusione, così come la ricerca dell’altrove e del diverso, staccata dall’attenzione per le identità specifiche e locali, induce all’omologazione e alla colonizzazione repressiva, fondata sulla virtualizzazione dell’esperienza paesistica (i paesaggi inventati dal marketing turistico sono “paesaggi illusori, attraversati, non abitati”: Raffestin, 1998). Ma questo implica che:
- il problema dell’identità non riguarda soltanto gli insider, gli abitanti o gli attori locali, ma anche gli outsider, gli osservatori e i “landscape users”, nella misura in cui sono impegnati nell’esperienza del diverso (come tipicamente nel caso del turismo);
- l’esperienza paesistica è soggetta a rilevanti cambiamenti, nella misura in cui la crescita della mobilità e delle opportunità di comunicazione, di scambio e di confronto riduce od incrina il radicamento territoriale e trasforma gli stessi abitanti ed attori locali in “landscape users”, in “turisti a casa propria”.
Non v’è dubbio che “di fronte all’onda di piena di un turismo totalmente indifferente ai segni e ai valori”, il ruolo centrale dell’abitante-produttore locale nella costruzione e nella manutenzione del paesaggio debba essere gelosamente difeso (Quaini, 1998); questa difesa è anzi ancora più importante se si tien conto della complessiva dimensione economica e sociale della questione paesistica, richiamata nel par. 2.2.. Ma è anche vero che la difesa dei caratteri identitari non può essere pensata come un affare privato dei locali, ma come una responsabilità più ampia che riguarda chiunque possa prendersene cura (i “care-takers”: Poli, 1998) e in particolare chi vi si accosti con piena consapevolezza del loro valore distintivo (Castelnovi, 1998). La disputa che qualche anno fa oppose Messner, che a nome di Mountain Wilderness, appeso alle funi della funivia dei ghiacciai, reclamava una miglior tutela del Monte Bianco, al Presidente della Regione Valle d’Aosta, che ne rivendicava l’appartenenza alle comunità locali, è sufficientemente emblematica. Anche l’importanza crescente accordata all’esperienza del viaggio e dell’attraversamento nella fruizione paesistica risulta giustificata, purché non si dimentichi il significato primigenio del viaggio, come scoperta e conoscenza di luoghi e di realtà culturali dotate di una propria specifica identità: vale qui la distinzione metaforica di Kundera tra il chemin, che invita a fermarsi, e la route che invita a spostarsi (Quaini, 1998). È in questo senso che, sulla scia dei mutamenti profondi nelle modalità dell’abitare contemporaneo, il paesaggio - come la realtà speculare, la città - sembra destinato sempre più a qualificarsi come lo spazio dell’interculturalità (Castelnovi, 1998), del confronto e della contaminazione, del conflitto e dell’arricchimento reciproco.