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Terza tappa: fra fare architettura e natura
Da questa la successiva tappa è per naturale conseguenza sul pensare al come il rapporto fra fare architettura e natura si sia sviluppato, e come oggi questo rapporto sia messo in forte discussione allorquando il concetto della sostenibilità ambientale ha iniziato a contaminare le azioni del costruire e del progettare. L’esempio del Manifesto sul Terzo paesaggio ne è l’esempio più limpido, laddove fra le pieghe della continua opera di trasformazione del paesaggio Gille Clement ha, come un paleontologo, rintracciato nei margini, lungo le strade o lungo i fiumi, quelle zone di abbandono dove si è riscoperta la presenza della diversità della vita, quella parte della vita che il costruire sta relegando a reietta, fino a determinare la perdita della biodiversità, la grave conseguenza della rarefazione pericolosa della ricchezza della vita sulla terra. E’ una tappa che ci riporta nuovamente al pensare alla presenza di una sotterranea trama di fenomeni e regole naturali che oggi come ieri governano la storia naturale di un territorio che dentro di se possiede la dimensione di un Paesaggio Zero, di un insieme di risorse che al tempo T° (Tzero) erano fra di loro organizzate senza l’influenza antropica e che poi hanno iniziato una storia di relazione con la crescita della società umana sulla terra e la nascita di nuovi Paesaggi, i primi, i secondi, i terzi paesaggi.
La trasformazione del territorio in termini di occupazione spaziale ha assunto, nel periodo a cavallo del nuovo millennio, una capacità ed una estensività particolarmente evidente e in grado di divenire, per un certo verso, quasi a carattere pervasivo. Sono testimonianze di tale capacità d’occupazione del suolo, in particolare, il fenomeno delle reti infrastrutturale, divenute a forte impatto per la loro particolare complessità strutturale, come anche quello della città dispersa o diffusa, che segna a macchia le aree cittadine che un tempo avevano intorno a se la realtà periferica e che oggi invece hanno intorno a se vere galassie o ammassi globulari anch’essi a capacità espansiva. Questi sono esempi di come la dimensione spaziale sia divenuta un fattore ormai nuovo per la sua quantità e qualità. Ancora uno degli esempi possibili è quello della nuova diffusione degli insediamenti connessi alle produzioni energetiche:; i pannelli solari, le strutture eoliche, sono oggetti che nonostante la loro anche limitata capacità d’occupazione in termini di quantità di suolo, si trasformano i segni a fortissima significanza paesaggistica, contribuendo quindi anch’essi ad innalzare la percentuale “l’uso del paesaggio”.
La dimensione temporale dell’uso del territorio non registra da meno del primo fattore accelerazioni
e modificazioni delle dinamiche. La modificazione delle tecnologie e l’ingegnerizzazione integrata di diverse attività costruttive, che ha nelle procedure dell’informatizzazione e digitalizzazione della gestione delle procedure progettuali la principale motivazione e origine, stanno determinando l’aumento delle dinamiche temporali e di uso del suolo che sono connesse anche, almeno nei nostri territori, alla crescita delle attività trasformative industriali che hanno lasciato il posto ad interventi residenziali ed a diversa destinazione oltre che al diffondersi della logistica e delle attività di occupazione commerciale legata ai fenomeni “outlet” e dintorni, connessi in generale alla logica del “centro commerciale” sempre più vicina alla logica della “città commerciale”.
Gli stessi strumenti di Google Heart e simili stanno fornendo modalità di visione dei luoghi che quasi si pongono al passo delle velocità trasformative del suolo, tentando di perseguire un altro fenomeno che ha effetto sulla velocità: il continuo tentativo di semplificazione delle modalità di gestione della pianificazione a scala comunale, con il conseguente risultato di apportare con maggiore semplicità modificazioni e varianti ai PRGC, con le attività edilizie conseguenti.
Questo insieme di fenomeni difficilmente può garantire un buon risultato in termini di attenzione complessiva al paesaggio: la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Un territorio in cerca spasmodica e veloce di una sua dimensione estesa lascia dietro di se figli e segni di un paesaggio cieco.
Il rischio evidente a questo punto è che il viaggio alla ricerca del riconoscimento di dimensioni di equilibrio, di rispetto del paesaggio e delle componenti naturali di un territorio si possa fermare per la perdita di una possibile “mappa” che riporti tali luoghi per gli effetti invasivi o velocemente trasformativi sin qui tracciati. Ma il viaggio non deve fermarsi qui: deve invece proseguire, cercando nuove strade e itinerari magari poco conosciuti o poco battuti, se vuole continuare a cercare nuovi equilibri e nuovi metodi per garantire un dialogo fra architettura e natura, fra l’operare e le risorse del territorio: è necessario, nonostante le evidenti criticità che prima abbiamo sommariamente delineate.
In tale riflessione può esser utile partire dall’immagine di quale sia stata la storia dell’idea di territorio che nel senso comune e anche nella cultura del progetto, si è avuta dal secolo scorso a oggi: una idea che si è trasformata lungo tre tappe schematiche che sono descritte nei tre grafi riportati di seguito. (figure 1, 2 e 3).
Le modalità di visione dei luoghi sono passate da una dimensione di concezione estensiva e a peso insediativo a bassissimo impatto, dove le aree comprese fra i luoghi ad alta significanza e valore paesaggistico forte e i centri urbani, hanno purtroppo, agli occhi delle azioni trasformative, subito una perdita di valore, divenendo nel mondo del 900 aree “non luogo”, spazi in attesa di essere occupati da una qualche destinazione, “terre di mezzo” (Figura 1).
Nella fase successiva l’azione invasiva del suolo ha generato le sue capacità, esprimendo dal centro la sua capacità di occupare aree e paesaggi e diffondendo a macchia o a rete di punti dispersi, la sua capacità di alterazione e modificazione del suolo. In tale fase il timore di perdere valori ha iniziato a farsi presente e le dinamiche di tutela hanno portato a chiedere l’estensione delle aree di conservazione dei luoghi ad alta significanza paesaggistica, mantenendo ancora scarso o nullo il ruolo delle terre di mezzo prima descritte.
Nella terza fase , nella quale si sono generati due fenomeni legati all’avvio di una coscienza e di una tutela più estensiva ed attiva e alla diminuzione del “Centro urbano” della sua capacità trasformativa, il concetto di uso dello spazio è ritornato a proporsi come strumento dove i caratteri dei luoghi e del locale sta assumendo nuovamente un suo ruolo. L’intero processo è ben descritto da Alberto Magnaghi nella parte introduttiva di Progetto locale.
La riflessione si sposta quindi all’immaginare una architettura che progetta terre, acque e spazi ispirandosi ad alcuni principi che proprio rimandano e recuperano modelli che portano in se l’attenzione ai valori della storia naturale di un territorio, senza dimenticarli mai, includendoli nel momento dell’atto del costruire, del trasferire una immagine della società e della sua economia di vita sulla pellicola del territorio. In questa tappa la sosta si prolunga, per cerare di recuperare i fondamenti di un approccio progettuale nuovo e rispettoso dei limiti imposti dalle regole dei fenomeni naturali.
Se l’occupazione degli spazi ha raggiunto la dimensione totalizzante è vero allora che la nostra azione per il recupero di un “paesaggio zero” deve ispirarsi ad alcuni principi:
a. riaprire gli spazi occupati indebitamente con azioni di bonifica paesaggistica.
(la continuità spaziale)
b. lavorare sugli interstizi, con attenzione al rendere gli interventi come punti di una maglia capace di interconnettersi non solo spazialmente ma anche idealmente (la continuità virtuale)
c. utilizzare categorie del “design naturale”, ponendo attenzione alla forma contro una visione eccessivamente funzionalista o razionalista dell’oggetto architettonico. La forma ha un suo significato comunicativo e in grado di ridare senso di appartenenza al territorio (la coerenza formale)
d. collocare gli interventi in immagini di territori, immagini di città, immagini di luoghi, contestualizzando sempre di più le singole azioni di progetto e inserendole in un progetto di comunità territoriali (di fiumi di colline, di pianure…di nuovi luoghi) (la coerenza territoriale) Si deve ricomporre, ricostruire, in una grande opera di restauro mentale e paesaggistico della nostra presenza sul territorio partendo dall’esistente e sapendo che riaprire un progetto di qualità del territorio per innovare, deve saper valorizzare le risorse presenti e saper lasciare i vuoti ancora esistenti, tenendo conto del ruolo delle strutture naturali. Progettare di più con la natura del territorio, esser più aderenti e vicini alle forme della terra. Alleggerire il nostro pressante peso sul territorio.
Dobbiamo sentirci parte di un territorio che assume valore non per quelle tipiche vedute di luoghi, per quei beni simbolo annegati in un continuum di non luoghi, ma parte di una immagine di luogo a
densità di luoghi di valore molto più elevata del passato, che per la sua immagine complessiva e non solo per le sue parti di eccellenza si racconta al resto ed a gli altri per una area dalle sue specialità, uno spazio che diviene di valore perché dotato e riconoscibile per il suo “carattere”.
A questi temi ritengo si possa giungere proprio partendo dall’esperienza di gestione dei temi del progetto delle acque, l’esperienza che il Parco del Po torinese ha condotto in anni di esperimenti e verifiche e che proprio nell’esperienza di una area protetta ci ha condotti a immaginare che l’attenzione alle ricostruzione di un progetto di paesaggio contemporaneo debba svilupparsi immaginando che oltre ai paesaggi primari, secondari e al terzo paesaggio, la dimensione del paesaggio Zero, del paesaggio del prima sia la chiave per immaginare il progetto del paesaggio della sostenibilità: il paesaggio di cui oggi vi è il bisogno.