Le regole
Il rapporto tra cittadino e città costruita è un iceberg di ideologie, modelli di comportamenti e sentimenti collettivi che emerge a tratti nella nostra vita quotidiana, imponendo in quei momenti un'attenzione a processi e a valori che sono sempre presenti ma che normalmente sono latenti, impliciti, a margine dei nostri pensieri.
Uno dei momenti in cui ci rendiamo conto della complessità del rapporto tra la nostra vita quotidiana e la città costruita è quando ci misuriamo con le norme che regolano la costruzione della città. E' un rapporto per lo più sgradevole, che viene spesso liquidato come impero della burocrazia, odiato modo dei "lacci e lacciuoli" che impediscono lo spontaneo espandersi delle libere attività personali.
Dall'altra parte però è diffuso il malessere dell'abitare nelle parti di nuova costruzione della città, la mobilità verso le zone centrali e più antiche, il senso di impotenza e di disgusto rispetto agli spazi pubblici di nuova formazione, per lo più inabitabili, insicuri, in ogni caso non attraenti.
Ogni tanto incontriamo, per le più diverse ragioni, un tecnico del settore, e la sua frequentazione ci fa capire che il problema sembra non stare nella mancanza di progetti ma nelle regole, che la città non è fatta sulla base di disegni ma sulla base di norme. E se il risultato è palesemente insoddisfacente in primo luogo bisogna guardare alle regole che lo hanno generato. O meglio, forse bisogna guardare al rapporto con le regole, perché non sappiamo mai se le norme ci sono ma sono sbagliate, o se ci sono giuste ma non le conosciamo, se le conosciamo ma non le vogliamo, se le vogliamo ma non ne siamo capaci....
In ogni caso capiamo che il soggetto in gioco è un NOI comprensivo, indifferenziato, che non si può rimandare il problema solo ai tecnici o ai burocrati, ma che si deve tentare comunque di leggere le radici di questa contraddizione in sentimenti diffusi nel background di tutta la comunità utente, nelle "proprietà culturali " che collegano strutturalmente i cittadini alla città.
Mi sembra molto interessante tentare di affrontare il problema ab imis, a partire dal suo aspetto più generale e finalmente politico: quanto e come interessa ai cittadini la qualità della città (qui ovviamente si tratta della parte "rappresentativa" o "significante" dell'architettura urbana e pertanto quanto e come sono politicamente legittimate le regole per costruirla (o valorizzarla).
Do subito la mia interpretazione della situazione rispetto all'interrogativo principale: secondo me noi (tutti i cittadini) vogliamo le regole ma (noi tecnici) non ne siamo capaci.
Anche nella temperie di nausea per la sovrapproduzione di norme, nel nostro caso ci sono evidenti motivi per volere le regole:
* è evidente il precipitare di una crisi dell'identità locale, che è stata, almeno nell'area latino-mediterranea, elemento strutturale della cultura della città sulla quale ci siamo basati nell'ultimo millennio. Senza entrare nel merito delle ragioni di questa crisi, la possiamo porre come motore di una domanda sempre più pressante per una nuova rappresentatività della città, che non è più automaticamente adeguata allo status dei propri cittadini, per la quale non si investono più i valori aggiunti dei traffici e delle industrie, che non testimonia più le ambizioni dei suoi abitanti. Decaduto l'automatismo vitale, la domanda si rivolge alle istituzioni, si cerca assistenza per le identità anemiche, si richiedono piani di difesa dalla mediocrità e dalla opacità dell'immagine urbana come dal progredire di un sistema franoso o di erosione: diventa un problema di protezione civile....
* è evidente un'aporia storica del rapporto tra costruttori e abitanti, i quali non sono più parte di un unico universo culturale, sono diventati soggetti anonimi e incomunicanti, e ciò impedisce di risolvere in modo spontaneo e naturale il problema, come è stato da sempre affrontato e risolto "nella" cultura civile senza bisogno di ricorrere alla "terzità" di una norma esterna. Si è ormai grippato il meccanismo del servizio che i tecnici hanno egregiamente assolto nel secolo scorso, di dare una faccia riconoscibile e sostenibile alla città che ormai strutturalmente stava subendo la frattura tra costruttori e abitanti. Da qui lo spostarsi della dialettica tra immagine consolidata della città e sua evoluzione in una nuova forma di finzione politica, gli "eidola aedilis", il nefasto crescere di importanza dei "partiti degli architetti", che combattono tra loro, da una parte nel ruolo di funzionari tutori di un farraginoso e malfunzionante sistema di vincoli, dall'altra nel ruolo di provocatori di novità formali degli edifici per distinguere i vari committenti. In queste condizioni la domanda civile di disporre di una città riconoscibile, che rappresenti i suoi abitanti, cade nel vuoto, sostituita dal piccolo clamore di settore del dibattito sulla buona o cattiva architettura....
* è evidente il degrado nel disegno della città prodotto dal prevalere della dialettica tra interessi privati rispetto ad una convergenza su interessi pubblici: il bisogno di regole è stato recentemente alimentato quasi solo dalla necessità di ristabilire equilibri alterati dalla pressione privata.
In questa situazione si va perdendo il riferimento classico, secondo il quale le regole per la costruzione della città (poche e decisamente seguite da azioni) servivano alla città stessa per curare la propria immagine, mentre il resto veniva affidato ad un "sapere fare", in evoluzione così lenta da apparire sempre come un sapere consolidato. E' parso negli ultimi cinquant'anni che valori come l'"equità delle rendite tra proprietari", l' "omogeneità del trattamento fiscale e burocratico", la "disponibilità alle trasformazioni di ogni lotto in ragione delle opportunità del mercato", fossero più importanti di valori come la riconoscibilità dei differenti siti urbani, la qualità di immagine e di autorappresentazione degli spazi pubblici, l'organicità del sistema residenziale, dalla stanza più intima dell'abitazione al centro urbano.
Insomma ci siamo intasati di regole dedicate ai rapporti privatistici tanto da non poterne più, e sentiamo sempre più l'assenza di quelle pratiche elementari di regolazione della cosa pubblica come investimento e gestione quotidiana, che sono state alla base della cultura della città.
D'altra parte significa qualcosa il fatto che l'ente di gestione della città, il Comune, è ancora una delle poche istituzioni vitali e legittimate nell'opinione generale a stabilire delle regole, ma su ciò che è comune (le parole hanno un senso!)....
Seconda parte dell'affermazione: noi, in quanto tecnici, non siamo capaci di provare queste nuove (?) regole. Chi lavora in questo settore ben conosce il senso di inadeguatezza che si gusta sia quando ci si prova a scrivere in norma edilizia le condizioni per ottenere un esito urbanistico che si vorrebbe adatto alle strategie del Piano, sia quando si tenta di progettare secondo criteri di qualità zigzagando nella griglia di vincoli e di indicazioni che le norme impongono, sia quando si valuta un progetto alla luce delle norme.
Secondo me il disagio deriva dal sapere che non c'è un nemico preciso (salvo ragguardevoli eccezioni di mostri burocratici), ma che l'impotenza ci affonda in qualcosa di implicito nella nostra cultura, che ha rimosso e negato per almeno due o tre generazioni problemi non solo pratici ma soprattutto epistemologici di grande complessità, accumulando indirizzi disciplinari e di settore nella gestione "moderna" della città, antinomici a quelli che ora emergono come necessari.
Basta citare alcuni dei nodi più pervasivi del contesto culturale che ci lega e ci trattiene dallo sperimentare nuove forme di regolazione:
* noi muoviamo da una cultura tecnica di analisi e di progetto tutta legata alla "composizione", al "montaggio" di parti, alla parametrazione elementare, a scambiare l'oggettualità dei riferimenti per oggettività della conoscenza. E' chiaro che con queste basi ci si scopre inadeguati a fronte di un vero problema epistemologico: distinguere entro un campo poco discreto, nel tempo e nello spazio, come quello che deriva dai sentimenti dell'abitare, che si è abituati a percepire in modo olistico, che dà luogo a valutazioni assolute tipo "è bello"," ci sto bene", "mi sento a casa mia" (o, più spesso, il loro opposto).
Al contrario le tradizioni normative tecniche conseguono dall'assunto illuminista della intelligenza dei fenomeni attraverso l'anatomia delle loro parti, della semplificazione delle relazioni in termini funzionali e causali, della negazione delle derive e delle complessità che nascono nei processi realizzativi e di permanenza: le cose della città "sono" una volta per tutte e la norma interviene nel loro momento costitutivo astratto, determinando i singoli elementi che le costituiscono.
Non siamo stati capaci, sino ad ora, di spezzare il tabù, superare l'obbligatorio riferimento "oggettivo", analitico, della norma, e ci riduciamo a quest'unica modalità regolativa anche quando ciò è palesemente controproducente: produciamo indicazioni per lo più parametriche sui singoli elementi, a fronte di un obbiettivo di regolazione complesso e indisponibile alla semplificazione come la qualità architettonica, o come la qualità del senso dell'abitare (ancora più difficile ma più interessante per l'ethos dell'azione regolatrice).
* la tradizione normativa che si fonda sulla prescrizione oggettuale si sposa con altri aspetti di cultura dominante, provocando altre più specifiche situazioni di barriera per un ragionamento sulla qualità dell'abitare:
- ci si abitua a non valutare mai lo spazio, ma solo gli elementi che lo confinano, e questa "deviazione" del centro di attenzione non viene messa in crisi neppure dalla produzione di qualità riconosciuta dei maestri dell'architettura moderna, che sempre più spesso tendono a produrre oggetti, volumi, e non spazi. Dunque, mentre da una parte il sentimento della qualità urbana è certamente suscitato dallo "stare in.. " e non dal "guardare il...." e il giudizio di qualità dell'abitare muove dal complesso di segnali che leggiamo attraverso la percezione spaziale dell'ambiente, dall'altra parte abbiamo non solo norme esplicite, ma modelli, esempi autorevoli (e quindi regole implicite del super-io architettonico) che non si occupano dello spazio in cui si vive ma della "qualità estetica" degli oggetti costruiti. E' chiaro che in questa situazione si divarica sin dai riferimenti primari la forbice tra "sentimento comune", buon senso che coniuga aspetto della città con le attività che vi si svolgono, e "senso dell'architettura" dei tecnici e degli addetti ai lavori: si parlano lingue diverse ma soprattutto diversi sono i "testi " su cui verte la discussione. Da ciò il rischio che anche con buona volontà esca dai tecnici una ennesima proposta di regolazione "interna" che vada a disciplinare, secondo un qualsiasi metodo induttivo rispetto a modelli, le qualità della costruzione degli edifici, senza riscontro con la domanda reale che invece orienta le proprie valutazioni sugli spazi complessi (e quasi mai progettati) nei quali ci si riconosce in quanto cittadini;
- i tecnici si abituano a non considerare la continuità dello spazio pubblico, che è invece il vero testo di riferimento del giudizio sulla qualità urbana del costruito, nelle connessioni provocate dagli spostamenti e dalla memoria di ciascuno. Al contrario si valuta ogni intervento come se fosse privato, chiuso nel suo bordo, confinato, anche quando riguarda edifici pubblici o, al limite, trasformazioni di aree stradali (ad esempio in molti interventi di arredo urbano). Questo atteggiamento, implicito nella radice analitica e oggettuale della regolazione illuminista, viene rinforzato e reso vincolante nella pratica dalla rigidità del modo di produzione dei progetti e degli interventi. Tutto concorre a confinare il progetto: la proprietà della committenza, la incomunicabilità degli uffici pubblici (ad es. "edilizia privata" e "lavori pubblici", oppure "lavori pubblici-edilizia" e "lavori pubblici-infrastrutture"), la rigidità delle politiche di programmazione e di finanziamento pubblico, per cui solo con i recenti Programmi di recupero e di riqualificazione si individuano prime, timide, procedure per connettere gli interventi nello spazio pubblico. Da ciò il rischio di non avere il giusto riferimento alle basi di indagine, che hanno caratteristiche di rete e non di singolo episodio, di non riconoscere la continuità del testo che si vorrebbe valorizzare, di spezzare il senso della città (e tutte le sue qualità in termini di identità, rappresentatività, serendipity, benessere psicofisico) in singoli quadri, ritenendo ciascuno oleograficamente risolvibile secondo regole interne, come se la qualità delle singole frasi di un discorso rendesse conto del senso complessivo.
* infine, determinante direttrice metodologica consolidata, l'obbligatorio riconoscimento dell'omogeneità come valore in sé, che supporta come positive le pratiche dell'imitazione, della modularità, ma anche del modello e della tipologia e tutte le regole che ad esse inducono. Non si vuole qui tanto sviluppare una critica generale a quelle impostazioni metodologiche, quanto denunciarne il ruolo, implicito ma potentissimo, di antagonismo alla valorizzazione dei fattori differenziali, di tutte quelle componenti la città che ne costituiscono i segni riconosciuti da pochi o da tutti, nel cui complesso però si agita il demone della serendipity, nelle cui singolarità si agita il genius loci. Con una tradizione normativa e una cultura dell'intervento tendenzialmente omogeneizzante non solo ci si difende dalla baroccheria arbitraria, dalla mania di protagonismo, dalla potenza devastante dell'eclettismo in mano a grandi trasformatori, ma si perdono anche i difficili valori del progetto ad hoc, della necessità di identità anche nella città consolidata ma espropriata dai nuovi utilizzi: insomma si butta via anche il bambino per paura della sporcizia. Chi si può provare oggi a dare regole per valorizzare le singolarità dei siti, per aumentare la riconoscibilità delle situazioni consolidate, per organizzare i segni dell'identità di nuovi pezzi di città, quando ogni modalità espressiva della norma, ogni atteggiamento dell'istituzione, dallo zoning per densità edificatorie alla via brevis per non turbare le Soprintendenze ai beni culturali, è quella della omogeneizzazione, dell'adeguamento, dell'understanding progettuale rispetto al modello, alla preesistenza?
Il quadro, che ho cercato di delineare a tinte fosche, riguarda l'ambiente culturale in cui ci muoviamo, in cui da una parte si forma la domanda diffusa, e dall'altra si irrigidiscono vincoli di metodo e di tecnica che ci rendono impotenti di fronte ad una necessità evidente, come quella di valorizzare l'aspetto rappresentativo della città, la sua qualità estetica e architettonica.
C'è un altro quadro da precisare, quello del contesto fisico in cui questo tipo di regole (se riusciremo a enunciarle) andrà ad agire.
Anche per il contesto fisico, come per quello culturale, ci troviamo di fronte a processi di diversa inerzia e contingenza:
* da una parte non si può trascurare il fattore della durata nel tempo di ciò che viene prodotto: gli edifici si pongono nella città come una permanenza, non sono correggibili, sono contemporaneamente testo e contesto, poco dopo la loro costruzione vengono inglobati negli utilizzi come se fossero sempre esistiti e resistenti per sempre.
Questa straordinaria disparità tra temperie culturale del momento di produzione e permanenza nel tempo del prodotto (attraverso indeterminate altre situazioni culturali) fa dubitare della possibilità di condizionare con norme esiti di rappresentatività, di segno, di messaggio efficaci comunque, per la città dei prossimi secoli. Anche da ciò l'assenza di un particolare interesse pubblico a comunicare attraverso l'architettura valori incerti, sicuramente affidati ad un linguaggio frutto della situazione contingente. Per contro, da ciò lo stimolo tecnico-idealistico a cercare segni duraturi, sempre rappresentativi di valori positivi, anche in contesti culturali diversi ed oggi imprevedibili.
La permanenza fisica degli edifici ci spinge a cadere nell'illusione dei "valori permanenti" comunicati attraverso la loro forma, come se l'Architettura (quella vera, of course) fosse una sorta di esperanto che permette di mandare messaggi agli ignoti posteri.
* d'altra parte c'è una specifica fase del processo di produzione della città europea: la città c'è già; nei prossimi anni, salvo eventi catastrofici, verrà aggiustata e rifatta, ma solo in misura minore verrà ampliata. Ciò comporta un effetto importante sul nostro problema: le norme per la qualità urbana sono da dedicare ad interventi di completamento, di inserimento in contesti (anzi in testi) già trasformati. Anche l'urbanistica dei futuri piani regolatori sarà comunque un'urbanistica di completamento, sviluppando a livello urbano quel tipo di interventi che in edilizia ha dominato la produzione degli anni 70/80, riempiendo le zone B.
Il trend è significativo: in Italia in venti anni (dal 1985 al 2005) gli interventi edilizi sull'esistente passano dal 20% all'80% del totale degli interventi (in volume).
Dunque le regole devono essere regole per migliorare la qualità della città esistente, e, se devono resistere alla tentazione della ricerca di valori permanenti dell'architettura, devono comunque tener conto della durata dei prodotti su cui incidono.
Per poter fare una proposta si deve anche ipotizzare una traccia di contesto socioeconomico in cui tali regole andranno ad inserirsi, vista l'imminenza di una seconda generazione di piani urbanistici, indirizzati più alla qualificazione urbana che all'espansione.
Ci vuol poco coraggio a prevedere un futuro per gli interventi trasformativi urbani preso tra alcune tenaglie, in cui si polarizzano tensioni compresenti e antitetiche, poco governabili verso un solo tipo di obbiettivi, ma piuttosto tali da far aprire il ventaglio dei valori di riferimento, in modo che si possa sfruttare la complessità delle forze e dei desideri per produrre proposte diverse e sostituibili a seconda delle opportunità e delle risorse:
- per le pressioni economiche: da una parte una stagnazione diffusa con riusi poco appariscenti e ridotti interventi di "manutenzione straordinaria" dello spazio pubblico della città, dall'altra potenti operazioni di ristrutturazione urbanistica radicale, legati alla trasformazione di impianti produttivi o di zone di margine, agevolate da complesse concertazioni pubblico-private che adeguano i piani caso per caso (in questa direzione la procedura per i PRU e i PRIU è probabilmente il primo esempio non contaminato a priori da tangentopoli );
- per i desideri sociali: da una parte una residua domanda ancora inesausta di "particulare", dalla home-sweet-home con giardino al micro mix residenziale-terziario-produttivo della "campagna urbana", dall'altra la nostalgia della Città con segni forti, simboli, monumenti, la voglia di essere turisti a casa propria, di applaudire il Sindaco e il Gonfalone;
- per le richieste di strumentazione tecnica e procedurale: da una parte una deregulation reazionaria all'eccesso di burocrazia, che richiede poche semplicissime norme di riferimento nelle modalità di intervento, dall'altra una pratica di piani-progetto con diverse tendenze, dall'urbanistica disegnata con dettagli architettonici alla progettazione "virtuale" conseguente a nuovi regolamenti esigenziali.
Regole efficaci in questo quadro multiforme appaiono difficili da produrre in modo astratto, senza un riferimento anche molto diversificato alle reali situazioni specifiche che città per città, quartiere per quartiere si vanno configurando nella gamma dei bisogni sociali e delle fattibilità economiche, imponendo una elasticità delle concertazioni di cui le nuove norme dovranno tener conto.
Insomma le regole per la qualità urbana appaiono difficili da produrre non solo perché non ne siamo capaci, ma anche perché la situazione si prospetta, anche nel bene, molto variegata e proteiforme. In questo quadro la nostra abitudine a far corrispondere ad ogni status una regola ci impedisce di pensare un sistema di regolazione semplice, proponibile ad un'utenza inviperita dalla sovrabbondanza di norme inutili.