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Urbanità: temi, programmi e politiche per la qualità del paesaggio urbano

Indice

Sino ad ora dello sviluppo della città si è occupata, con alterne fortune, l'urbanistica. Nell'ultimo secolo questa tecnica, che rischia sempre di apparire cugina dell'architettura ha tenuto il tema della forma e dell'aspetto della città in un ruolo secondario, privilegiando la funzionalità delle attrezzature e la gestione dei rapporti giuridici tra territorio e intervento pubblico e privato. Oggi, settant'anni di sviluppo urbano improvviso e prepotente hanno generato la banalizzazione generalizzata degli spazi, la perdita di identità delle periferie (che ormai si spingono fino alle soglie dei centri storici), e anche le ultime iniziative, volte al rinnovo di parti obsolete e degradate della città esistente mostrano la incapacità a rimettere mano e soprattutto a dare un senso alla forma urbana.

I cittadini

 

Sino ad ora dello sviluppo della città si è occupata, con alterne fortune, l'urbanistica. Ma l'urbanistica moderna è una tecnica nata bastarda, senza origini proprie, dagli ingegneri e dai medici illuministi e positivisti che trovavano spazio alle corti dei principi o dei leader delle giovani democrazie, erede di una lunga storia di utopie e di imprese coloniali. Nell'ultimo secolo questa tecnica, che rischia sempre di apparire cugina dell'architettura, solo perché la si insegna negli stessi corsi di laurea, ha invece tenuto il tema della forma e dell'aspetto della città in un ruolo secondario (diversamente da quanto si fa in architettura per la forma degli edifici), privilegiando la funzionalità delle attrezzature e la gestione dei rapporti giuridici tra territorio e intervento pubblico e privato.

E si capisce il motivo: la forma urbana della città, dalle origini sino all'inizio del '900, si è per lo più generata per crescita spontanea, affidata a poche regole non scritte di un "progetto implicito", affondato nella cultura corrente di tutti: cittadini e costruttori appartenevano alla stessa cultura quando non erano addirittura le stesse persone. Quando, dalla metà dell'800, è emerso un problema di rappresentazione nell'aspetto dei principali luoghi pubblici della città, biglietto da visita della borghesia rampante, il tema della forma è stato spesso risolto con norme e tecniche di controllo delle facciate e delle parti monumentali, con le Commissioni d'Ornato o con i profili regolatori, rinviando il tema dalla città alle architetture.

Oggi, settant'anni di sviluppo urbano improvviso e prepotente hanno generato la banalizzazione generalizzata degli spazi, la perdita di identità delle periferie (che ormai si spingono fino alle soglie dei centri storici), e anche le ultime iniziative, volte al rinnovo di parti obsolete e degradate della città esistente mostrano la incapacità a rimettere mano e soprattutto a dare un senso alla forma urbana. Se gli aspetti funzionali hanno occasione di sperimentazione interessante in questi programmi di riqualificazione, gli aspetti del rinnovo della qualità formale delle città sono praticamente trascurati, e tutto ciò rivela un ritardo culturale grave delle tecniche e dei poteri che gestiscono il territorio rispetto alle esigenze dei cittadini, e soprattutto evidenzia uno spreco di occasioni, che saranno sempre più rare, per ridare forma, identità, polarizzazione alla città.

Di fronte all’emergere di un tema diventato scottante per il ritardo culturale delle tecniche e delle politiche che dovrebbero amministrarlo e per la mancanza di strumenti consolidati nel gestirlo, è spontaneo ricorrere ad altre discipline, diverse da quell’urbanistica che ci ha sostenuto fino ad ora ma che non riesce oggi a dare indicazioni per la qualità della forma urbana. Si tratta di discipline che si sono sviluppate su altri campi e che ci possono dare un aiuto, realizzando così un lavoro interculturale: ad esempio quelle di analisi e di valutazione del paesaggio, di cui qui proviamo a dare qualche indicazione.

A ben pensarci è già indice di contraddizione il fatto che esista una differenza disciplinare tra chi parla di spazio urbano e chi parla di paesaggio: è come se lo “spazio” per gli urbanisti fosse un termine che appartiene in qualche modo alla sfera delle funzioni, mentre il "paesaggio" sarebbe relegato alla sfera delle sensazioni, della percezione.

Di fatto, se il tema di questi giorni è il sistema urbano, dobbiamo sempre tener conto che il nostro giudizio, come cittadini che viviamo e godiamo della città, è largamente influenzato da quello che del sistema noi percepiamo, cioè dal paesaggio urbano. I problemi di gestione della forma, dell'identità, dell'effetto sui comportamenti, del ruolo simbolico che lo spazio svolge presso le società che lo abitano e lo fruiscono hanno oggi riflessi forti sul senso di appartenenza delle nuove generazioni, sulla sicurezza, sulla capacità d'uso della città: per questo ci pare opportuno parlare di paesaggio, ponendo al centro dell’attenzione i problemi legati ai segni, all’estetica, ai modelli di fruizione più che alle pratiche funzionali.

Proprio questi sono i temi specifici del rinnovato interesse per il paesaggio, che a partire dalle estreme periferie del territorio, dalle terre della wilderness e della natura investe via via territori insediati (i paesaggi “culturali”) e una serie di aspetti della città cha abbiamo sino ad ora trascurato perché ci parevano sovrastrutturali e che ora diventano il primo problema.

Il fatto che i temi del paesaggio si siano sviluppati in qualche modo in separata sede dai temi dell’urbanistica, in questo momento può essere d’aiuto: possiamo provare a valutarne contenuti e metodologie come fonte di innovazione potenziale per affrontare un tema che, con la strumentazione “tradizionale”, non trova soluzioni.

Quindi ci proponiamo di esaminare alcune categorie dell’indagine e dello studio del paesaggio, le applichiamo alla città e verifichiamo se lo spazio pubblico è affrontato con queste categorie; quindi valutiamo se lo spazio pubblico possa essere descritto, valutato e quindi progettato come paesaggio urbano.

Il paesaggio è un fattore di senso. Non è l’oggetto “mondo”, ma sono le modalità di ricezione dentro di noi dell’oggetto “mondo”. Quella sul paesaggio è un’indagine su un’interazione: quella tra il fruitore e l’esterno.

Ad esempio ci interessa studiare quello che motiva lo sguardo del turista, perché il turista visiti i centri storici, qual è non solo l’elemento motivante ma anche il ragionamento che ne consegue. Oppure ci interessa l’atteggiamento che rende legato alle proprie radici l’abitante, la lettura del paesaggio da parte di quello che è chiamato insider; oppure ancora ciò che genera una sensazione di disagio o addirittura un senso di offesa quando ci troviamo di fronte ad un elemento impattante, come se avessimo un "comune senso del paesaggio", quando ci troviamo a disagio di fronte ad una trasformazione, ad una violenza nei confronti di un paesaggio consolidato.

Questa interazione è basata sulla percezione, la fruizione ed i processi solo in parte razionali che stanno dietro le sensazioni e le memorie che dalle sensazioni si depositano. Viene coinvolto un mondo complesso, quello che comporta la gestione del nostro personale e collettivo sedimento culturale; per renderci conto delle connessioni praticamente infinite di questo riferimento basta pensare che l’intera psicanalisi è fondata sul mondo delle sedimentazioni che gli avvenimenti generano sulla nostra personalità e cultura.  Per addentrarci nel senso del paesaggio dobbiamo affrontare questa visione del mondo, almeno per gli aspetti che più direttamente coinvolgono il rapporto percettivo con l’ambiente esterno e le modalità con cui la memoria dei luoghi genera valori, affetti, motivi di scelte progettuali o di vita.

Cerchiamo di capire come distinguiamo, nel continuum della percezione dell’ambiente circostante, quegli elementi e quelle relazioni che si sedimentano come compiuti e distinti da altri, dal momento che, muovendoci nello spazio, li percepiamo inseriti in un tutt’uno. Infatti la nostra percezione del paesaggio, all’esterno di ambienti chiusi, non è legata ad unità spaziali precise, a meno di siti molto particolari. Lo spazio pubblico è fatta di spazi tra loro connessi, è un sistema e quando apprezziamo un paesaggio lo apprezziamo sempre come senso generato da un sistema di spazi.

Quindi, in prima battuta, dobbiamo capire come si genera dentro di noi il senso di un luogo a partire da un sistema di sensazioni relative a singoli elementi spazialmente e geometricamente definiti, a cui si accompagna prima o poi, forte o labile, un effetto di senso generale, complessivo, legato ad aspetti sintetici e olistici, non scomponibili in elementi semplici.

Questo è un passaggio di grande complessità, a fronte del quale la parte scientifica dell'analisi del paesaggio cede le armi alla parte artistica, alla pittura o alla letteratura, alla fotografia o semplicemente al gusto dei luoghi che ciascuno di noi conserva nella memoria.

Tecnicamente, se per studiare il paesaggio dobbiamo capire il modo con cui si svolge il rapporto di fruizione tra il mondo da percepire e chi lo percepisce, è opportuno fare ricorso alle metodologie di  una disciplina che ha affrontato il tema in temini strutturali: ad esempio la semiologia, che è quella disciplina che studia i rapporti comunicativi sulla base di segni, di rapporti stabiliti nei vari linguaggi tra elementi fisici (come suoni, grafie, movimenti o oggetti) e significati precostituiti che a quegli elementi sono stati connessi. In semiologia  Ma nella lingua - e la semiologia si appoggia completamente su di essa – alla base delle esperienze comunicative abbiamo una vettorialità, una unidirezionalità del testo (il tempo nel discorso verbale o l’allineamento sulla riga nello scritto) che ci precostituisce un ordine specifico attraverso il quale ricostruiamo le regole del messaggio, ma nello spazio questa sequenza vettoriale che ci aiuta a capire le regole è molto più complessa, perché in pratica dipende dal soggetto “guardante” (o meglio “senziente”) stabilire qual è l’ordine di percezione delle cose.

Se ciascuno raccontasse le sue “unità” di paesaggio (come se fossero frasi di un discorso), pur stando di fronte alla stesso territorio, avremmo racconti anche molto differenti. Inoltre la maggior parte dei paesaggi urbani che viviamo è molto disordinata e complessa, e il tema della differente considerazione delle partizioni del paesaggio costituisce un primo problema che emerge con forza nei suoi risvolti operativi: per l'architetto ad esempio, quando riscontra la differenza tra la considerazione spaziale delle unità geometriche del suo progetto (cioè come si era immaginato che la gente percepisse quei luoghi) e il paesaggio urbano come di fatto viene percepito e vissuto (sarebbe meglio dira al plurale: .. i paesaggi…).

Un primo passo dell'"umiltà" necessaria del progettista sta proprio nell'essere cosciente della differenza tra oggetto progettato e insieme percepito dal fruitore come un paesaggio, in cui l'oggetto progettato è inserito entro un sistema spaziale molto più complesso del previsto. Insomma verifichiamo ogni volta che l'oggetto o lo spazio che noi abbiamo progettato tende a diventare un elemento tra i tanti, fino addirittura a sciogliersi nel sistema di relazioni paesistiche di quel luogo, relazioni che ciascuno sedimenta nella propria memoria in un tutto unico, in un'immagine olistica.

Insomma i “nostri” luoghi pubblici (come le nuove piazze che abbiamo progettato, come quelli che tuteliamo come patrimonio storico, come quelli su cui le amministrazioni investono decine di miliardi in pavimentazioni ed arredi) sono solo molto raramente una “meta” del fruitore del paesaggio urbano, che dà senso ad un effetto molto più complesso, sedimentato in interi itinerari per la città, in reti di segni diversi e distanti che compongono nella memoria un effetto di senso complessivo, difficile da sciogliere nei singoli episodi che lo compongono.

Data questa relativa ingenuità e la diffusa incapacità di comprendere il modo di comportarsi dell’interlocutore principale dei nostri progetti, quel “pubblico” al quale si dedica lo spazio omonimo, dobbiamo capire come si distinguono nel continuum della percezione gli elementi che compongono l’immagine del paesaggio che si consolida nella memoria, quella di cui si può parlare, che entra nel nostro patrimonio culturale e sentimentale. Se non è interpretabile come un sistema segnico articolato a quale modello possiamo riferirci: ad una struttura di simboli con riferimenti forti a concetti già sedimentati? ad una sintesi olistica che assorbiamo con capillari sensibili e non codificati?

Quando progettiamo ci sforziamo di riferirci agli effetti che il nostro spazio avrà sulla memoria, sulla sedimentazione culturale, sul senso di identità e possiamo ipotizzare che questo processo di sedimentazione si strutturi attraverso simboli, come ci pare avvenga nel caso di grandi spazi monumentali, che segnalano un senso “forte” nel fruitore. Ma sappiamo che di fatto, vivendo in uno spazio urbano, l’immagine della città non è fatta solo di monumenti e di luoghi che stereotipizzano il senso, che il paesaggio urbano non è dato solo dalle immagini da cartolina, ma che piuttosto la sensazione di città è data dal feeling di relazioni di elementi minori, poco significativi uno per uno, ma collegati organicamente nel nostro percepito.

Per questo la struttura di simboli non è un modello interpretativo sufficiente, né un sistema segnico abbastanza articolato da descrivere lo spazio urbano. Con questo modello si descrivono solo alcuni elementi, ma la parte più interessante per le valutazioni e le scelte, quella che genera sensazioni di piacevolezza o disagio, sfugge al modello fatto di segni riferiti a concetti precisi.

Dobbiamo lasciare l’interpretazione alla capacità endogena e personale di sintesi olistica che si affida ad una unione fra sensazioni ed elementi razionali, e quindi alla comprensione di regole e valori legati alla verifica percettiva diretta.

Tutto ciò è stato studiato nell’analisi del Paesaggio nell’accezione più o meno romantica del termine, cioè della fruizione degli spazi aperti, naturali appunto, e solo recentemente nella fruizione dei luoghi insediati dal cosiddetto paesaggio “culturale”. Certamente possiamo importare questi primi approcci critici come criteri utili per lo studio della città, in dialettica con il criterio regolatore di chi pensa che la città sia un sistema ordinato di produzioni artificiali.

Ma il nostro modo di percepire il mondo, e quindi anche la città, è così mescolato di elementi sentimentali e razionali, che anche tentando di ordinare tutto non possiamo che usare ciascuno la propria soggettività, soprattutto tenendo conto che parte della sensazione è dovuta anche alla percezione di elementi del contesto fisico che non sono stati progettati. Una testimonianza di questa complessità è data ad esempio dai migliori fotografi di architettura. Basilico si compiace di fotografare la città ordinata che deroga, che ha dei punti di slittamento, che diventa interessante perché ha degli elementi che per sedimentazione storica, per avvenimenti casuali, o perché davvero si è configurato uno spazio particolare, non è quella che si sarebbe prevista, che era stata disegnata, soprattutto non è quella del modello che avevamo in testa quando abbiamo cominciato a percorrere la città. Fontana nelle sue fotografie ci presenta geometrie inedite, impreviste, paesaggi ordinati che stanno tra le righe degli ordini (molto meno percepiti) progettati ma che sono “altri”, che emergono in modo imprevisto e “rivoluzionario” allo sguardo curioso.

E’ evidente, a partire da questi presupposti, che quelle che più ci interessano sono le proprietà stimolanti del paesaggio, inquietanti chi cerca certezze con categorie scientifiche o ordine con tecniche progettuali, quelle che obbligano ad una esplorazione nella complessità, ad una comprensione nella polisemia, ad un attività progettante non possessiva e non imperativa.

Quindi qui non cerchiamo di definire il paesaggio in quanto oggetto delle nostre indagini e del nostro agire, ma piuttosto ne tratteggiamo le potenzialità in quanto agente provocatore che induce riflessioni in chi lo osserva, o meglio lo ascolta, ne gusta il feeling.

In questa direzione scopriamo nuovi indirizzi per una ricerca più generale, che lavora sui bordi del sapere scientifico e del progetto razionale, che incomincia ad orientarsi in un enorme giacimento di potenzialità poco esplorato: quello che motiva il desiderio, l’immaginario, la memoria del nostro abitare la città e il mondo.

Dunque, quando ci abituiamo ad approfondire le modalità con cui affrontiamo il paesaggio urbano, poniamo l’attenzione soprattutto alla serendipity, cioè a quell’atteggiamento che consiste, per dirla con lo zen, nell’ “aspettare l’inaspettato”. La Serendipity è un neologismo che deriva da una città immaginata a metà ‘700 da Walpole, in cui si trovano le cose non cercate (e non si trovano quelle cercate), in cui avvengono gli eventi inaspettati, in cui i protagonisti trovano inaspettatamente la risoluzione ai problemi ma in modo imprevedibile. E’ stato coniato questo termine per dare un’aggettivazione, una qualità ai luoghi, agli atteggiamenti in cui davvero è più probabile che avvenga l’inaspettato.

Questa caratterizzazione della città, ormai proposta da più di uno studioso (ad esempio in Italia Bagnasco), non è solo una provocazione culturale, ma sta andando a configurarsi come un ambito su cui lavorare in modo disciplinato e tecnico, ed anche qui avremmo l’intenzione di usarlo come strumento conoscitivo in mano a progettisti ed urbanisti.

Un secondo filone di contributi importanti per il nostro approccio sta nella recente valorizzazione della prospettiva d’azione sui paesaggi culturali', riaperta con la risoluzione del Consiglio d’Europa  (n.53 del 1997), che definisce paesaggio “una porzione determinata di territorio quale è percepita dall’uomo, il cui aspetto risulta dall’azione di fattori umani e naturali e dalle loro interrelazioni”, e che applica a tale paesaggio l’impegno di “consacrarlo giuridicamente come bene comune, fondamento dell’identità culturale e locale delle popolazioni, componente essenziale della qualità della vita e espressione della ricchezza e della diversità del patrimonio culturale, ecologico sociale ed economico”.

Questa sensibilità del Consiglio d’Europa, e da qualche tempo anche del governo italiano, si applica ad una società in cui la mobilità è cresciuta esponenzialmente legata, non solo agli spostamenti occasionali, ma legata al fatto che pochissimi di noi abitano dove sono nati i nostri genitori, e che i nostri figli abiteranno in città diverse. E’ la mobilità dell’abitare che cresce esponenzialmente. L’accessibilità ampliata dalla circolazione delle immagini, non solo delle persone e della ricchezza ha portato ad una enorme complessità del nostro patrimonio culturale e ciò ha portato ad un senso dell’abitare molto più complesso di prima, in cui abitare e senso di identità locale erano sovrapposti. Adesso l’identità è una sensazione molto più articolata: è fatta di diversi riferimenti culturali, di conoscenza di reti di luoghi, di sentirsi un po’ più abitanti del mondo.

Si registra così un depotenziamento del senso di identità locale che deve essere in qualche modo valorizzata. Nessuno si è preoccupato dell’identità in una qualsiasi città italiana 50 anni fa, perché c’era una così forte sovrapposizione tra l’identità locale e il modello di vita e di valori degli abitanti, da rendere superflua la tutela istituzionale della loro identità.

Oggi, anche se i sindaci rivendicano l’autonomia dei propri piani regolatori, volendosi ridare da sé la faccia della città, e gestire gli spazi pubblici, poiché questo prima di tutto appartenga a loro,in realtà verificano ogni giorno quanto lo spazio urbano (e in primo luogo quello pubblico) stia rappresentando sempre meno la società locale, sia sempre meno sentito come immagine garante dei propri valori.

Cresce la potenza di chiunque di identificarsi con reti di punti nel territorio, ma decresce la potenza di gestire, per le singole località, l’identità locale, che è uno dei valori base per qualsiasi criterio di tutela del paesaggio, poiché ne garantisce diversità e riconoscibilità. Si sta perdendo la vestale naturale delle diverse località, cioè la società che la abita, si sta perdendo quell’elemento al quale ci si è appoggiati sin da quando i Comuni, su cui si è fondata la definizione di spazio pubblico, stanno perdendo il loro senso connaturato socialmente. Diventa sempre più complicato affidarsi ad una comunità e alle sue rappresentanze per essere certi di valorizzare i luoghi. Dobbiamo valorizzare i luoghi, ma abbiamo sempre meno il soggetto storico consolidato che si incarica spontaneamente di valorizzarli.

Di fatto la crescita di mobilità e del nostro benessere diminuisce il nostro legame con l’identità locale e accresce la nostra identità di turisti. Il turismo culturale, il desiderio di riconoscersi attraverso la dialettica con altri luoghi che non sono i propri, ma che lo possono diventare, sta crescendo. In questa prospettiva il turista non è più soltanto un soggetto intrinsecamente devastatore e consumista, può anche essere individuato come propositore di valori. Di fatto sono turisti gli ambientalisti, i cultori dei centri storici, i riscopritori dell’archeologia antica o industriale, i componenti stessi del Consiglio d’Europa che hanno votato quella risoluzione. Paradossalmente le spinte culturali al rispetto dei paesaggi culturali, nell’accezione propria che ne dà il Consiglio d’Europa, vengono in molte situazioni più dal turista che dall’abitante.

Allora uno dei temi che dobbiamo porci è: quale spazio pubblico per il ricongiungimento dell’abitante con il turista?; ovvero: quale paesaggio urbano produce nuovamente gli effetti straordinari dei centri del Mediterraneo, luogo storico dell’identità locale al punto da essere attrattivi per lo straniero?

Lo spazio ”pubblico” nasce per rappresentare qualcosa, oltre che per svolgere delle funzioni: nelle società teocratiche o regali è lo spazio del rito, nelle società mercantili è lo spazio dell’incontro e della gestione del business (i caravanserragli, i mercati), nelle prime società organizzate democraticamente è lo spazio istituzionale (il foro, l’arengario) e lo spazio del dibattito e della didattica (l’accademia). Nelle società borghesi più recenti (di cui quelle moderne sono tutte espressione) diventa pubblico lo spazio di tutte le precedenti rappresentazioni poste insieme alla parte sociale delle rappresentazioni  private: insomma lo forza rappresentativa dello spazio pubblico moderno esce dalla ristretta cerchia di luoghi deputati e pervade tutta la città: ogni strada, ogni piazza, ogni giardino è di tutti perché tutti in essi sono “democraticamente” rappresentati, in essi specchiano i loro comportamenti più rappresentativi. Da qui la forza dell’identità della città moderna con la sua gente: lo spazio non rappresenta più qualcosa d’altro (non è “segno” nel senso di stare al posto di qualcosa di assente), ma rappresenta la comunità stessa che lo abita, ogni cittadino è al tempo stesso attore e spettatore della rappresentazione che si svolge nello spazio pubblico. Quindi ciascuno si sente in qualche modo bisognoso di trovare la sua identità fuori dalla porta di casa, attraverso la facciata di casa. E’ un problema di diffusione dell’elemento di qualità della vita data dal rappresentarsi.

Portiamo i valori dello spazio pubblico fino alla porta di casa, in qualche modo interagiamo nel nostro privato con lo spazio pubblico. Quindi il bisogno di identità, di valorizzazione del paesaggio culturale di cui abbiamo parlato prima, lo troviamo diffuso reticolarmente nella città. E’ una proliferazione frattalica del senso dello spazio pubblico: bisogno di rappresentatività, senso di identità locale, formazione di luoghi in cui ritrovarsi.

Ne conseguono due effetti:

- lo spazio pubblico moderno è tutto ciò che nella città si offre immediatamente alla fruizione, tutto ciò che ha continuità, che non è relegabile a singoli luoghi;

- lo spazio pubblico moderno non è producibile o gestibile esteticamente senza l’apporto di azioni private.

Dobbiamo interagire con il bisogno di rappresentatività, di dare un senso all’identità microlocale di ciascuna zona della città. Il governo locale deve impostare le regole per l’aspetto pubblico della città e demandare la produzione di quest’aspetto pubblico in parte al rapporto con i privati. Da ciò la responsabilità, per la nuova disciplina urbanistica, di organizzare questo rapporto tra pubblico e privato in funzione di quegli aspetti di paesaggio urbano di cui si è parlato prima.

Storicamente la società borghese che ha diffuso il senso dello spazio pubblico, lo ha regolato per rappresentare un preciso senso dell’ordine e della partecipazione positiva ad un sistema normalizzato, ad esempio nell’Ottocento con le Commissioni di Ornato.

Oggi, decaduta l’ideologia dell’identità borghese, dell’essere cittadini fieri della propria città, non si sa più cosa rappresentare attraverso lo spazio pubblico.


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