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I connotati del Progetto di paesaggio
Per il progetto di paesaggio che ci interessa si delinea quindi un target diffuso ma disperso, culturalmente vivo ma non facilmente aggregabile, non riconducibile a bandiere ideologiche o a parole d'ordine, potente e ricco (si pensi ai denari che muove il turismo) ma difficile da individuare per farlo partecipare ad un'impresa trasformativa perché anonimo, non localizzato, volatile: tutte le caratteristiche magiche ed ostiche del capitale finanziario.
Ora il tema diventa: che cosa è "Progetto" di fronte ad un target così complesso, senza autori, senza committenti, senza relazione constatabile tra trasformazione fisica e modifica dei comportamenti?
Tra gli strumenti del Progetto di paesaggio distinguiamo, solo per comodità, tra Piano e Progetto (nel senso di intervento circoscritto, trasformativo, incidente sull'assetto fisico).
Sicuramente non siamo aiutati ma anzi troviamo una resistenza nella nostra cultura stessa del Piano, che non concepisce neppure lontanamente i valori contenuti in programmi non ordinati: il Piano è strategico per definizione. Semmai oggi le differenze tra diversi atteggiamenti di Piano stanno nel senso del futuro: patrimoniale, cioè dare continuità a ciò che ci è stato consegnato o imprenditoriale, cioè mettere a frutto le risorse. La logica del Piano imprenditoriale tiene al paesaggio solo come ospite degli impatti, e ciò è esattamente agli antipodi del nostro interesse per il tema. D'altra parte è evidente che oggi il senso patrimoniale del paesaggio è destinato ad essere perdente a meno che non sia direttamente coinvolto un soggetto capace di dare valore al patrimonio: ogni Piano che assegna la dominanza delle strategie ad una tutela dei valori patrimoniali senza individuare chi remunera tale atteggiamento è costretto all'autoritarismo e, in tempi di democrazia, alla mancanza di appoggio (sia da parte dei fruitori che degli abitanti) e alla progressiva erosione, del piano e del patrimonio stesso.
D'altra parte il Progetto ha dalla sua alcuni vantaggi (entra immediatamente a far parte del paesaggio fisico, si segnala e racconta le proprie intenzioni, se ne può discutere e si può confrontare con altro) ma ha difetti impliciti difficili da rimediare: è egocentrico e tende a trascurare tutti i postulati di partecipazione ad una cultura generale sopra messi al centro del senso del paesaggio. D'altra parte la trasformazione fisica nel nostro tempo ha sempre meno ruolo in termini di innovazione, rispetto alla potenza che sta nei cambiamenti del modo di guardare.
Oltre al Piano e al Progetto stanno delineandosi altri strumenti di azione complessa, che in Italia si sperimentano sotto forma di Programmi di riqualificazione odi Progetti pilota. La loro efficacia è ancora tutta da verificare, ma teoricamente sembrano ben attagliarsi alle esigenze del Progetto di paesaggio, se non altro perché pone al centro la necessità di un coinvolgimento diretto di numerosi attori imprenditoriali, diversificati per motivazioni e potenza culturale, economica e politica, che la fattibilità non solo economica ma anche sociale e culturale sia posta tra i valori primari, che la trasformazione che si avvia è considerata a priori come una fase di un processo culturale, che deve incidere sui comportamenti dei fruitori più che sull'assetto dei luoghi.
Il fatto che sino ad ora si siano sperimentati programmi prevalentemente in aree urbane e con fattibilità dominate dai fattori economici non deve scoraggiare, perché rimane intatto lo spazio per i "Fondamentali del progetto di paesaggio": semmai incoraggia a trattare di paesaggio in ambito urbano, in condizioni di economicità per gli operatori che vi investono, trasferendo i valori in un contesto poco praticato, come si è fatto un secolo fa per un tema socioculturale come la qualità della città, diventato nel giro di trent'anni il più colossale affare di tutti i tempi.
Allora poco Piano e soprattutto non autoritario, Progetto solo per segnalare, Programmi per coinvolgere, ma sempre indirizzandosi al nuovo tipo di target, perché la efficacia di un intervento, come abbiamo visto, c'è ma si dissipa, e diventa significativa solo se siamo abbastanza sicuri di avere centrato il senso diffuso e collettivo del paesaggio. E' una bella virata, per chi si è formato alla certezza degli obbiettivi e alla difficoltà solo delle efficienze degli strumenti.
Tutto ciò, riassumendo, per potenziare quegli aspetti che sono peculiari della pratica del paesaggio, soddisfacendo un bisogno di sensi positivi anche se oggi poco potenti. E' un progetto che deve poggiarsi alle risorse locali e queste non possono che essere riscoperte sulla base della storia e dei suoi possessori che sono gli abitanti, ma attenzione: il caso in cui tutto ciò sia efficientemente operativo è un caso limite, negli altri casi è tutto sotto forma di traccia, di frammento, di potenzialità. Al ricercatore di paesaggio il compito di connettere quelle tracce in un quadro utile al target attivo e innovativo che sta disperso nel mondo. Si tratta di progettare per dare spazio a quelle specificità del senso del paesaggio che lo rendono componente forte dell'universo culturale collettivo, a partire da quelle sopra delineate. Probabilmente bisogna lavorare con la gente più che non con le cose, o almeno con le cose a partire dalla gente, ma non è detto che questa gente siano gli abitanti (o almeno non nel senso di antagonisti ai turisti): serve allearsi con gli abitanti conoscitori del mondo, serve al progetto lo sguardo terzo.[1]
[1] Nelle più recenti esperienze che direttamente ho seguito (Piani dei Parchi dei Monti Sibillini, dei Colli Euganei, o programmi di valutazione della qualità urbana a Modena) , è stato fondamentale il riconoscimento "laico" delle opzioni dei fruitori, siano abitanti che esterni, per definire gli ambiti di intervento (le cosidette unità di paesaggio), le connessioni tra funzionalità ed estetica (nella pratica quotidiana e nella scala di valori attivi, sui quali investire), la prevalenza degli effetti di insieme (di paesaggio) su quelli "di progetto" (di trasformazione con opere ).