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Il senso del paesaggio dell’abitante e del turista
Nella produzione culturale del nostro tempo, di crisi della modernità (come ci ammonisce il titolo del seminario) , diventa possibile (e sempre più probabile) il distacco tra le due azioni produttrici di senso: quella che fa i materiali significanti e quella che fa i materiali significati: in termini non semiotici quella che produce le cose a cui attribuiamo senso e quella che produce i concetti (o i sentimenti) che con il senso si applicano a quelle cose. Questo nuova situazione generalizzata è favorita dalla crescita di potenza e di potere della tecnologia vicina all'immateriale e dalla sempre maggiore illeggibilità dei contenuti dei prodotti che ci circondano : la loro originalità, la loro modalità produttiva, addirittura la loro chimica possono essere alterati sempre più in modo impercettibile a chi li usa.
Ci stiamo abituando a non conoscere più le cose prodotte in quanto prodotte (e quindi con un significato e un valore in primo luogo legato al processo di produzione più o meno vagamente conosciuto da ogni consumatore) ma le accettiamo prive di quel senso proprio insito nel prodotto stesso e quindi pronte ad assumere altri carichi di senso, come fa ogni popolo con i prodotti naturali (il giorno e la notte, il vulcano e il fulmine, l'albero e il fiume, la generazione e la morte) quando la scienza non ha ancora ipotizzato una credibile catena causale.
E così per il paesaggio umanizzato ci accorgiamo che è in via di obsolescenza il senso attribuito per secoli, a partire dal lavoro fatto per produrlo come oggetto, e che sta assumendo oggi sensi diversi, dovuti a soggettività che non tengono conto del modo di produzione ma delle esigenze e dei desideri che guidano la sua fruizione: una prevalenza dell'estetica rispetto al sapere, del sincronico rispetto al diacronico.
Molti contributi sociologico-culturali mostrano quanto oggi il paesaggio (cosa) è dominato nel suo senso da quei concetti che gli vengono attribuiti dai "turisti", radunando in questo termine tutti i soggetti che non hanno mai fatto neppure un centimetro di paesaggio e che vengon qui ad imporre le loro paturnie, i loro sentimenti, il senso che ad essi viene guardando e non facendo. Alcuni vantano l'elaborazione artistica che questo distacco promuove, altri se ne lamentano come il villano dietro al nobile che caccia la volpe nei campi coltivati. [1]
Ma d'altra parte, se è lo sguardo del "turista" ad aver consolidato il senso del paesaggio che noi oggi gustiamo, è pur sempre la mano dell'abitante (o di qualche altro produttore) ad aver fatto e a fare il materiale di quel paesaggio, il suo territorio. Per le caratteristiche di vitalità che prima delineavamo accade che l'abitante (o qualche altro produttore) continua a trasformare in modo vivo quel materiale, e con ciò cambia l'immagine, forse ideologica, fissa e morta, ma formatrice del senso dominante di paesaggio stereotipo che il "turista" ha accumulato.
Questo antagonismo ci blocca, non possiamo prendere le parti dell'uno o dell'altro senza perdere una componente essenziale del progetto, e non valgono le raccomandazioni "less aestetichs, more ethics" dell'ultima ora. Infatti se forse per il progetto di architettura una scelta tra etica ed estetica ha senso, certamente il paesaggio, come si è visto, rimescola le carte, rende indistinguibili sia sul piano etico i diritti del produttore e del fruitore, sia sul piano estetico le strumentazioni per la comunicazione sociale dell'abitante e del turista.
D'altra parte è evidente che siamo a disagio a parlare di estetica per il progetto di paesaggio, temendo di perdere la parte essenziale del processo produttivo, la parte strutturale, quella che è in sé già dotata di senso, e di affondare nello spazio scivoloso delle sensazioni, della sovrastruttura, della volubilità delle mode e dei sensi costruiti altrove e portati sul paesaggio come un apriori, una colonizzazione.
Ma l'atto iniziale del progetto non è altro che l'applicazione di un'energia innovativa indirizzata ad una risorsa. E il paesaggio in quanto medium comunicativo di valori, di suggerimenti, di memorie ha bisogno, perché il suo ruolo patrimoniale sia messo a frutto, di un operatore imprenditivo, che ne riconosca gli inneschi profondi nel sistema culturale attivo, vivo, fatto dalle persone e dalla loro azione nel mondo in questo momento storico. Insomma come il paesaggio anche il progetto ha bisogno che si riconosca a chi possono interessare, chi diventerà il loro sostenitore: insomma il target di riferimento.
[1] Se si mescolano in questo insieme tutti gli "esterni", dai letterati ai pittori, dagli escursionisti della natura ai patiti del Gran Tour si apre una documentazione infinita delle invenzioni e dei sentimenti del paesaggio: vedi tra i più recenti G.Bertone (1999), Lo sguardo escluso, Interlinea, Novara, o la bibliografia di F.Lando (1994), Il fatto e la finzione: geografia e letteratura, in AAVV, Il paesaggio tra fattualità e finzione, Cacucci, Bari; oppure L.Gaido (2000), Il paesaggio, “creatura” della cultura urbana, in AAVV "Il senso del paesaggio", in corso di pubbl., Ires Ed., Torino, in cui si dimostra storicamente la produzione del concetto di paesaggio da parte della borghesia urbana dell'ultimo secolo e mezzo, indipendente da ogni proprietà culturale del territorio di chi lo ha abitato e prodotto fisicamente.