Indice
Pianificazione e politiche di governo
Il progetto di territorio come processo sociale
Scopo di queste note è quello di suggerire spunti per un programma di ricerca che consenta di integrare efficacemente le politiche della natura e del paesaggio tra loro e con le altre politiche territoriali. Alla luce dei nuovi paradigmi richiamati, il progetto di territorio è il luogo privilegiato per questo sforzo di integrazione. In quanto tale, il progetto di territorio non è in alcun modo riducibile alla sommatoria incoerente di singoli atti tecnico-amministrativi che caratterizza l’attuale carenza di un progetto collettivo della città (Mazza 2009). Al contrario, esso comporta un processo articolato e complesso di attività, che coinvolge un ampio ventaglio di soggetti istituzionali, di portatori di interessi e di esponenti della società civile. Già la Convenzione Europea del Paesaggio si è mossa in questa direzione, mettendo in primo piano le azioni di sensibilizzazione e di rafforzamento della consapevolezza collettiva dei valori e delle poste in gioco, di educazione e di formazione, oltre a quelle di tutela e di pianificazione; e, conseguentemente, ponendo l’obbligo di tenere conto delle percezioni e delle attribuzioni di valore dei soggetti e delle popolazioni interessate. Sebbene questo obbligo sia espresso in termini volutamente vaghi (e non trovi quasi riscontro nel nostro Codice dei beni culturali e del paesaggio), sembra evidente che ci si debba qui riferire non solo alle comunità e ai poteri locali in senso stretto, ma anche ad altre articolazioni sociali insorgenti, orientate alla “cura” dei paesaggi locali (care-taker) e alla loro valorizzazione nelle reti sovra-locali. Ancora più incerta e problematica l’individuazione del referente sociale per le politiche di conservazione della natura, alla luce dei nuovi paradigmi sopra richiamati. Infatti, non soltanto si rafforza in generale il riferimento alle comunità locali per la gestione delle aree protette (ed in particolare per quelle aree esplicitamente affidate alla gestione comunitaria: categoria VI della classificazione IUCN 1994, 2008), ma si pone ormai tangibilmente l’esigenza di allargare le azioni di tutela e valorizzazione ai rispettivi contesti eco-territoriali e alle reti di connessione; cosa che richiede alleanze e cooperazioni con una pluralità di soggetti non solo istituzionali, da individuare nel vivo dell’elaborazione progettuale. Se poi consideriamo le altre componenti del progetto di territorio, quali quelle riguardanti l’urbanistica, lo sviluppo rurale o le reti infrastrutturali, il quadro di riferimento si complica ulteriormente. Ed ancora, ulteriori complicazioni derivano dal ruolo stesso che il paesaggio è chiamato a svolgere negli attuali processi di trasformazione territoriale. “In quanto fondamento delle identità locali, il paesaggio non si limita a porre in rete quei fatti e processi naturali e culturali che connotano i quadri ambientali, ma ‘li mette in scena’, li esibisce e spettacolarizza. Ed è proprio questa spettacolarizzazione (il paesaggio come teatro, in cui agiscono attori che diventano spettatori di sé stessi: Turri 1998) che spiega forse il successo mediatico che si registra attorno agli eventi che creano o ripropongono i paesaggi urbani o i grandi paesaggi territoriali” (Gambino 2007b).
Governance e sostenibilità sociale
A fronte della complessità delle azioni e dei soggetti implicati, le forme tradizionali di intervento pubblico sono palesemente inadeguate. In questo come in altri campi dell’azione pubblica, le attività di governo realizzabili autonomamente dalle singole autorità istituzionali sono soltanto una parte delle attività di “governance”, se con questa alludiamo ad un insieme complesso di attori interagenti, di risorse diversificate e di procedure che orientano il formarsi delle decisioni concrete di un gruppo sociale (Le Galés 2002, Bagnasco 2009). Ciò vale a maggior ragione per il progetto di territorio, orientato ad integrare politiche diverse, che competono a soggetti istituzionali differenti e toccano interessi diversificati, al fine di assicurarne la sostenibilità sociale. Vanno in questa direzione le tecniche di “democrazia deliberativa […], basate sull’assunzione che le preferenze politiche non sono fisse, ma piuttosto soggette a cambiare sulla base di un discorso politico aperto ed inclusivo” (Baber 2009). È quindi in un quadro dinamico e plurale che si precisa il ruolo della pianificazione, in quanto strumento fondamentale del governo del territorio, ridefinito in Italia nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione. Riforma - non ancora colta in tutta la sua portata - che dovrebbe consentire di ricondurre ad unità le azioni pubbliche di programmazione, pianificazione e gestione integrata di territorio, ambiente e paesaggio, vincendo le difficoltà derivanti anche dall’attuale affollamento pletorico di piani e programmi separati o comunque incoerenti (Peano, 2008, 2009). In questo quadro il ruolo specifico della pianificazione si estrinseca in tre missioni principali, da tempo evidenziate nel dibattito internazionale (IUCN 1996).
La missione regolativa della pianificazione
La prima missione tradizionalmente assegnata alla pianificazione, è quella di offrire strumenti per la regolazione, da parte delle istituzioni pubbliche di governo, dei processi di trasformazione territoriale. Regolazione di cui sembra esserci oggi più bisogno che in passato, a causa soprattutto della crescente complessità dei sistemi economici e territoriali¸ ma che deve oggi attuarsi in contesti caratterizzati dalla rapidità e dall’imprevedibilità dei cambiamenti, dal pluralismo dei processi decisionali, dalla rilevanza degli “effetti rete” e delle interdipendenze trans-scalari. In tali contesti, la ricerca di forme più efficaci di regolazione, in particolare quando orientate alla “democrazia deliberativa”, ha messo da tempo in crisi le tradizionali configurazioni normative, basate su sistemi rigidi di vincoli e disposizioni autoritative “a cascata”. Tuttavia, la gravità dei processi di degrado ambientale e paesistico, delle perdite e dei rischi incombenti sul patrimonio culturale ha posto brutalmente sul tappeto l’esigenza di presidiare adeguatamente l’integrità dell’eredità territoriale, subordinando a tale esigenza prioritaria ogni ipotesi di trasformazione. Tale esigenza è stata ed è avvertita in modi diversi nei diversi contesti. Per esempio, si può notare che ancora nel 2008 l’IUCN, pur nel quadro di una crescente apertura verso forme flessibili e cooperative di gestione del patrimonio naturale, ha ribadito l’assoluta priorità della difesa della biodiversità in ogni categoria di area protetta. Analogamente, seppure in termini meno precisi, la Convenzione Europea del Paesaggio fissa l’obbligo di integrare le istanze di tutela paesistica in ogni politica settoriale suscettibile di influire sul paesaggio. Quanto al nostro paese, sotto il provvidenziale ombrello dell’art. 9 della Costituzione, il Codice del 2004 ribadisce diffusamente il ricorso alle prescrizioni vincolanti, accordando una sorta di (discusso) primato alla pianificazione paesaggistica nei confronti di ogni altro piano, compresi i piani dei parchi. È palese il rischio di riproporre un approccio vincolistico ormai impraticabile alla luce delle considerazioni sopra richiamate.
La missione conoscitiva della pianificazione
La seconda missione della pianificazione è quella conoscitiva. Anch’essa è stata tradizionalmente svolta dai piani, quanto meno in forme implicite o ancillari o meramente burocratiche, e spesso senza rapporti organici con le elaborazioni progettuali. Essa sembra oggi dover assumere contenuti e rilevanza assai più penetranti. L’elaborazione di un piano è anche e prima di tutto un “learning process” collettivo, che instaura una comunicazione multilaterale interattiva, di grande rilievo ai fini della sensibilizzazione, dell’auto-coscienza e dell’empowerment del governo locale. Essa risponde inoltre ad una esigenza crescente di “conoscenza regolatrice” (come dice Raffestin, abbiamo bisogno di conoscenze che guidino e sorreggano l’azione di regolazione). È il caso delle misure protettive richieste dal Codice per i beni paesaggistici, che presuppongono adeguati e specifici riconoscimenti di valore; ed è il caso dello stretto rapporto che si crea tra le interpretazioni strutturali di cui si è discorso e le attività “interpretative” che hanno assunto ormai grande rilievo nell’attività di gestione e nella stessa attività di pianificazione dei parchi.
La missione strategica della pianificazione
Ma soprattutto la produzione di conoscenza mirata svolge un ruolo essenziale nei confronti della terza missione assegnata alla pianificazione, quella di orientamento strategico della governance territoriale. Non ci si riferisce qui a quelle attività (definizione degli obiettivi e delle opzioni di fondo, esame di alternative generali, proposta di indirizzi di governo) che fanno parte, in forme più o meno riconoscibili e distinte, del tradizionale processo di piano; ma piuttosto alla produzione esplicita di visioni guida e di quadri strategici atti a costituire quadri di riferimento condivisi per le scelte relativamente autonome competenti ad una pluralità di soggetti pubblici e privati, operanti a livelli e in settori diversi. Al di là delle indicazioni scaturenti dalle esperienze di pianificazione strategica emerse da tempo a livello internazionale (Curti, Gibelli 1996), peraltro spesso divergenti, si vuole qui richiamare il ruolo cruciale che questa forma di pianificazione è chiamata a svolgere in vista dell’integrazione delle politiche per la natura e il paesaggio nei processi complessivi di pianificazione territoriale. Integrazione che deve misurarsi con grovigli complessi di conflitti, tradeoff e spinte competitive, la cui composizione richiede confronti e negoziazioni trasparenti, sulla base di valutazioni esplicite delle poste in gioco e degli effetti che potranno prodursi nel lungo termine in funzione delle diverse strategie. In questa prospettiva, spetta all’attività conoscitiva, soprattutto alle interpretazioni strutturali di cui sopra, definire gli elementi negoziabili e i campi di negoziabilità, o in altri termini gli argini entro i quali possono flessibilmente svilupparsi le scelte strategiche.
Radicamento strutturale e “utopie concrete” di cambiamento
La dimensione strutturale e quella strategica sono in questo senso distinte e complementari. La confusione tra le due, che traspare anche da talune legislazioni regionali, non pesa soltanto sulla chiarezza degli strumenti e delle procedure amministrative. Essa offusca la necessaria complementarietà e coerenza tra la ricerca del radicamento nelle specifiche realtà territoriali e i tentativi di anticipare il futuro, intercettandone le traiettorie evolutive e prendendo le distanze dal passato. Su questo rapporto, difficile e problematico, si gioca anzi la sfida della territorializzazione delle politiche di tutela e di autentica valorizzazione “integrata” del patrimonio naturale-culturale. In questa prospettiva integrata l’analisi critica della realtà in atto e dei processi di de-strutturazione e di de-territorializzazione che l’hanno prodotta, sfasciando con manovra concentrica città, territori e paesaggi, non lascia dubbi sulla necessità di avviare nuove strategie di vera e propria riterritorializzazione. Ma occorre scegliere tra strategie volte a salvare le “eccellenze” (concentrando risorse e cure sulle bellezze naturali, i paesaggi eccezionali, i monumenti celebri, i trèsors d’art e i Siti Unesco, in una logica che il Codice del 2004 ancora ribadisce); e strategie volte piuttosto a salvare e migliorare il capitale territoriale e i sistemi di valori diffusi che strutturano il territorio e ne ricostruiscono l’immagine identitaria. È interessante notare che la critica alle strategie delle “eccellenze” in nome di un’opzione conservativa articolata per tutto il patrimonio ha trovato recentemente riscontro nella contestazione alla politica dei “grandi restauri” che garantiscono agli sponsor elevati ritorni d’immagine ma succhiano risorse alle istanze diffuse (Ginzburg, Settis 2009). È una scelta che, come si è visto, si pone a tutti i livelli, ma che sempre più investe quel “terzo spazio” tra il locale e il globale (Sassen 2009) che i processi di de-nazionalizzazione lasciano scoperto. Ed è soprattutto in questo spazio che si profila la sfida all’Europa e alle sue istituzioni, impegnate nella ricerca di una nuova “identità europea” basata sulla diversità. Raccogliere questa sfida è anche la condizione per tentare di recuperare, nel vivo delle esperienze concrete, la tensione utopica del progetto di territorio.