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Quali progetti per il paesaggio?
La domanda di paesaggio che si avverte nella società contemporanea non è soltanto il frutto della nostalgia e della sfiducia nel futuro, ma riflette, pur tra molte contraddizioni, il bisogno di riprendere il contatto coi luoghi e di “ri-abitare la terra”, riscoprendone i valori identitari (naturali e culturali), rispettandone e valorizzandone le diversità. Nonostante la varietà degli interessi, delle sensibilità e delle attitudini culturali, sembra maturare una preoccupazione largamente condivisa circa i processi di degrado e trasformazione che contrastano quel bisogno: una preoccupazione che investe le responsabilità pubbliche nella gestione e nella pianificazione del territorio, cui si richiede di partire dal riconoscimento esplicito di tali valori. L’analisi scientifica e la pianificazione del paesaggio hanno perciò assunto questa fondamentale funzione ri-cognitiva. Ma, come si è notato, non esiste una ricognizione neutrale e realmente oggettiva, ogni giudizio valutativo riflette pre-giudizi, intenzioni e preferenze, nasconde un progetto. Questo è particolarmente vero per il paesaggio, che sollecita il fruitore ad una percezione attiva ed esprime, nel contempo, un ordine intenzionale, seppur leggibile e fungibile in una pluralità di modi. Il ciclo idea-conoscenza-interpretazione-giudizio-progetto (Calzolari, 1998) viene continuamente percorso nei due sensi. Esiste una dimensione progettuale da cui nessuna esperienza paesistica può realmente prescindere. Non c’è paesaggio senza progetto (Bertrand, 1998).
Ma, se è vero che il paesaggio non è mai “dato”, perché il suo significato e i suoi valori si definiscono nel presente, in funzione delle paure, delle attese e delle intenzioni del suo contesto sociale; se è vero che non esiste un “genius loci” veramente indipendente dal modo con cui i luoghi son visti e considerati dai loro possibili abitatori-utilizzatori; se è vero che “la felicità che possiamo trarre dai nostri luoghi, dobbiamo essere noi a porla in essi” (Isola, 1998); qual’é il ruolo concreto del progetto? Un dilemma paradossale sembra imprigionare il progetto di paesaggio: quanto più efficacemente esso interpreta gli spazi di libertà e di creatività del paesaggio, sforzandosi di dar senso ai suoi sistemi di segni e di riorientare i processi che lo animano, tanto più rischia di irrigidire l’esperienza paesistica in un ordine prefigurato, di anticipare l’imprevedibile e l’inaspettato, di fissare ciò che non può essere fissato, di chiudere un discorso che deve restare aperto, o addirittura di dire l’indicibile, violandone il mistero. Certo, un paesaggio non è un giardino. Ma il dilemma non riguarda soltanto la dimensione semiologica, estetica o culturale del paesaggio: esso, a ben vedere, si ripropone nella dimensione ecologica ed in quella economica e sociale (come innescare processi innovativi nei sistemi locali, scontando l’autonomia e l’imprevedibilità delle loro reazioni agli stimoli esterni?). Né il dilemma può essere fugato rifugiandosi nella sacralità perenne della sua essenza costitutiva, poiché anche il sacro e l’arcano si manifestano nell’attualità della cultura contemporanea.
Per uscire dal dilemma del progetto, è necessario ripensarne il ruolo nell’intero ciclo di produzione ed uso del paesaggio, partendo dall’osservazione che un’efficace assunzione di responsabilità progettuale (che in particolare respinga la rassegnazione a “lasciar le cose come sono” e il relativismo imbelle per cui “tutto è lo stesso”, come ammonisce Isola) non è obbligata a tradursi in arroganza pianificatoria o in violenza tecnocratica. Al contrario, la responsabilità di ridar senso e qualità agli spazi abitativi e di riorientare i processi con cui la terra diventa territorio, comporta la capacità di reimparare a “contestualizzare” l’agire progettuale, a coglierne e misurarne l’incidenza su dinamiche complesse, che - come l’esperienza quotidiana dimostra - possono sempre più spesso assumere caratteri distruttivi o propriamente catastrofici. L’umiltà nei confronti di quel “qualcosa di infinitamente più esteso e fluttuante” (Simmel, 1912), che continuamente si intreccia con le realtà specifiche su cui si concentra il progetto, l’umiltà nei confronti del tempo (dei tempi lunghi della natura), non riduce ma accentua le responsabilità del progetto: non costringe a subire il determinismo ambientale, ma induce a progettare “con la natura” come chiedeva McHarg, o, più comprensivamente, a “collaborare con la terra e col tempo”, per usare la bella espressione che M.Yourcenar mette in bocca a Adriano. Una maggior coscienza storica ed una maggior consapevolezza ambientale sono oggi necessarie se si vuol evitare che l’“impeto prometeico” che (secondo la fiduciosa immagine del Gottmann, 1970) ha alimentato nei secoli l’avventura urbana, possa corrodere i territori in cui viviamo e distruggere il pianeta.
Questa difficile coniugazione di coraggio ed umiltà sposta certamente il rapporto ermeneutico del progetto con la “comprensione”, accentua il ruolo delle “descrizioni fondative” e dei “racconti identitari” nell’orientare i processi di pianificazione (Quaini, 1998) sulla base delle attese e dei progetti collettivi che maturano localmente. Nell’esperienza più recente di pianificazione paesistica è facile constatare che all’indebolimento della funzione “normativa” corrisponde l’enfasi sulla funzione retorica ed argomentativa, sul ruolo che le descrizioni orientate, le analisi valutative e le stesse immagini progettuali possono svolgere nella comunicazione sociale ed in particolare nei processi d’aggregazione identitaria. Sembra diffondersi l’idea che la forza del progetto di paesaggio non risiede nella sua “vis cogendi” - anche se esso non può sottrarsi ad una funzione regolativa che è oggi reclamata a gran voce dagli stessi operatori economici - ma nella sua capacità di animare ed orientare il confronto sociale, di stimolare interessi, di evidenziare le poste in gioco, le sinergie attivabili e gli esiti prevedibili delle scelte possibili.
Più ancora della pianificazione urbana e territoriale, quella paesistica sembra necessariamente inscriversi in quella prospettiva dialogica e cooperativa, in cui attori ed istituzioni diverse sono chiamati a collaborare, che da qualche anno si è imposta all’attenzione internazionale ed è propugnata anche dal fronte conservazionista (Iucn, 1996). Ma il nodo cruciale riguarda proprio il rapporto del progetto di paesaggio con i processi di pianificazione e di governo complessivo del territorio: in altri termini, il ruolo “specifico” del progetto di paesaggio. La sua “diversità”, sostenuta con convinzione da non pochi studiosi (Maniglio Calcagno, 1998), sembra trovare riconoscimento teorico nell’ampio quadro della Landscape Ecology. Ed effettivamente il confronto dei progetti di paesaggio con le correnti pratiche progettuali concernenti la città e il territorio evidenzia differenze significative, soprattutto per due aspetti chiave: il maggior peso accordato alle analisi valutative e l’importanza del lavoro interdisciplinare. Ciò giustifica le riluttanze e le perplessità nei confronti di proposte metodologiche e di impostazioni istituzionali (quali ad es. in Italia certe proposte di riforma tendenti a riassorbire totalmente in piani urbanistici e territoriali onnicomprensivi la tematica paesistica ed ambientale), in cui il progetto di paesaggio rischia di diventare “uno” dei contenuti della pianificazione urbanistica e territoriale. E tuttavia è chiaro, alla luce di tutto quanto sopra evocato, che la questione paesistica non può essere efficacemente affrontata semplicemente “affiancando” alle correnti pratiche progettuali il progetto di paesaggio, autonomamente concepito e gestito. Perché il paesaggio possa costituire davvero una “risorsa progettuale”, occorre che il paradigma paesistico fecondi, attraversandole a tutti i livelli, proprio le correnti pratiche progettuali (Dematteis, 1998). In questo senso, distinguere il progetto di paesaggio dal progetto d’architettura (latamente inteso), può essere fuorviante, può indurre a riproporre quelle visioni riduttive del paesaggio che, anche nel corso di questo Seminario, sono state ripetutamente contestate. La fecondità del paradigma paesistico, ai fini della promozione di una miglior qualità dell’abitare, non si esprime tanto nella costruzione di progetti autonomi e separati, quanto piuttosto nel confronto esplicito delle opzioni di valore, degli obbiettivi e degli interessi su cui si definiscono le strategie di trasformazione continua del territorio.