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Attualità del paesaggio

Indice

Il crocevia paesistico

 

Alla densità e varietà degli interessi confluenti nella questione paesistica non può quindi non corrispondere la complessità che essa presenta sotto il profilo epistemologico. Il paesaggio è da sempre - in particolare, dalla grande svolta humboldtiana a metà del secolo scorso - luogo di convergenza interdisciplinare, luogo d’incrocio di saperi, di discorsi e di giochi linguistici diversi. L’appello ad un’ampia gamma di contributi scientifici diversi costituisce uno dei tratti caratterizzanti del “landscape planning” nordamericano, soprattutto a partire dal vasto programma volto a “progettare con la natura” (“Design with Nature”, McHarg, 1969) messo a punto negli anni Sessanta. Anche l’esperienza italiana della pianificazione paesistica innescata dalla L.431 del 1985, nonostante la carenza di risultati pratici, testimonia il ricorso generalizzato alla ricerca interdisciplinare e, sempre più spesso, transdisciplinare per la comprensione ed il trattamento dei problemi paesistici. Lo stesso seminario cui si fa qui riferimento ne costituisce l’ennesima prova, non soltanto per la varietà dei contributi direttamente portati, ma ancor più per la varietà di quelli evocati, per l’amplissimo ventaglio delle aree tematiche inevitabilmente toccate.

Ma nello stesso tempo il tema del paesaggio è il luogo dei sentieri che si biforcano, nodo d’origine di direttrici e programmi diversi di ricerca, punto di tensione di interpretazioni e proposte progettuali diverse e non di rado confliggenti. Ciò sembra connaturato al carattere stesso del tema paesistico (“il paesaggio non è un cerchio chiuso, ma un dispiegarsi”, già per Dardel, 1952). Ma si deve constatare che scuole diverse, che si misurano da tempo col tema del paesaggio, hanno messo a punto apparati interpretativi, teorie e metodi d’analisi tra i quali è spesso difficile riconoscere rapporti di coerenza o anche soltanto possibilità d’intercomunicazione. Prima ancora della mancanza di un paradigma paesistico condiviso, si avverte la mancanza di un comune sistema di riferimento, o di definizioni comunemente accettate, persino nell’ambito di esperienze legate ad una stessa matrice legislativa, come la pianificazione paesistica italiana ex L.431/1985 (Gambi, 1986). Nel comprensibile sforzo di quell’approfondimento specialistico che consente di far avanzare le frontiere del sapere, sono stati spesso eretti recinti protettivi attorno ai diversi ambiti disciplinari, che possono dar l’impressione di una sorta di “lottizzazione” del paesaggio: ogni scuola si prende il “suo” paesaggio. Non di rado, le singole scuole difendono la propria visione del paesaggio come l’unica valida ed accreditabile, respingendo ogni contaminazione ed ogni confronto. Anzi, è curioso osservare che spesso - anche nel corso del seminario qui presentato - gli argomenti con cui si combattono determinati approcci teorici e metodologici sono gli stessi con cui questi sono sostenuti in alternativa ad altri: vedi ad esempio alcuni degli argomenti della polemica contro l’“imperialismo delle scienze della terra” (Quaini, 1998) che si trovano ribaltati nelle polemiche contro gli “approcci estetizzanti” (Conti, 1997). Il rischio del riduttivismo implicito nella “confinazione” dei programmi di ricerca sul paesaggio - o il rischio, per usare le parole del Tricart (1985) di “vedere gli alberi e perdere di vista il bosco” - è fin troppo noto sul piano teorico. E tuttavia occorre riconoscere che il trattamento della complessità della questione paesistica si presenta estremamente difficile non appena si tenta di andar oltre le metafore e le affermazioni di principio. Che cosa significa, nelle concrete realtà territoriali, restituire importanza all’identità ed alla qualità dei luoghi, alle specificità ambientali ed alle culture locali od ai processi endogeni di sviluppo, con approccio olistico e comprensivo? Esistono certamente teorie importanti, che consentono di dar risposte significative a domande come queste. Ma esiste o val pena di cercare una teoria generale del paesaggio, in grado di considerarne tutti gli aspetti più importanti? Fino a che punto può essere “condivisa” la questione paesistica? A quali condizioni la complessità del paesaggio può essere davvero gestita con approccio interdisciplinare?

Un tentativo di risposta non può che partire dalla constatazione del pluralismo delle matrici disciplinari storicamente impegnate nella ricerca e nella riflessione sul paesaggio: dalla geografia, alla geologia, alla geomorfologia, alla pedologia, all’ecologia, alle scienze naturali, all’agraria, all’economia, alla sociologia, all’antropologia, alla psicologia, alla semiologia, all’estetica, alla storia, alla storia dell’arte, all’architettura, all’urbanistica, all’analisi e alla pianificazione territoriale... Il ruolo delle diverse matrici è stato ed è peraltro assai diverso: essenzialmente orientato all’analisi per alcune e al progetto per altre, esso è soprattutto cambiato nel corso della storia anche recente ed è stato diverso nelle diverse culture. La differenza, sottolineata da Steiner (1998) tra landscape (landshaft, landschap, ecc.) e paesaggio (paysage, pajsage, ecc.) segna anche una marcata differenza nel peso assegnato alle diverse matrici disciplinari. Netta prevalenza dell’ecologia e delle scienze della terra nella cultura del “landscape”, anche per l’importanza dei rapporti col “land” alle radici della democrazia americana (Steiner, 1998), non disgiungibile dall’influenza profonda dei miti della natura, che segnano le origini specifiche della civiltà americana, preesistenti alla colonizzazione (Schama, 1995); netta prevalenza, almeno fino ad una certa data, della geografia e delle scienze umane nella cultura del “paesaggio”. Ma è innegabile il ruolo egemone assunto, anche nell’esperienza italiana ed europea e soprattutto a partire dagli anni Sessanta o Settanta, dalla Landscape Ecology, nel cui ambito confluiscono anche le tradizioni nordamericane del “landscape planning” (Steiner et al., 1988). Alla base del successo della Landscape Ecology vi è certamente il fatto che essa ha offerto un quadro teorico organico e sistematico, capace di “spiegare” in ampia misura, con l’analisi scientifica oggettiva, la fenomenologia paesistica. La fede nelle scienze esatte, che aveva consentito a McHarg (riprendendo le lezioni dei Leopold, degli Odum, di Angus Hill e di Philip Lewis: McHarg, 1966) di propugnare polemicamente l’“ecological determinism” contro gli orientamenti economicisti del “planning”, si è dimostrata vincente nei decenni successivi contro il confuso impressionismo degli approcci estetizzanti, il descrittivismo di certi approcci geografici o l’arbitrarietà progettuale della “landscape architecture”. Essa ha saputo allearsi alla contestazione ideologica della violenza implicita nel “maitriser la nature” (tipicamente in Marcuse), ha rimesso in discussione i fondamenti culturali della manipolazione estetica della natura (il “plaisir superbe de forcer la nature”, come diceva Saint Simon a proposito di Versailles), ha contrastato efficacemente l’“amenagement du territoire” guidato dalle logiche funzionaliste: in Italia, ha dato fiato alla riaffermazione delle ragioni della pianificazione (a partire dall’ambiente e dal paesaggio) contro le tendenze alla deregolamentazione selvaggia, all’“urbanistica contrattata” e alle “politiche per progetti”. Di più, l’orientamento ecologico ha sottolineato con forza quell’esigenza già richiamata di non staccare i paesaggi dal paese reale, i testi paesistici dal loro contesto ambientale.

Ma la visione sistemica offerta dalla Landscape Ecology, nonostante si presenti come un paradigma totalizzante (l’ecologia come quadro globale di riferimento), non sembra in grado di rispondere da sola agli interrogativi suscitati dalla questione paesistica, in tutta la sua complessità. Essa lascia nell’ombra alcuni aspetti chiave di tale questione, alcune dimensioni del paesaggio, la cui importanza è emersa con forza soprattutto negli ultimi decenni, stimolando nuovi approcci metodologici ed investendo altre matrici disciplinari.

 

1) La prima dimensione su cui il dibattito e la ricerca degli anni Ottanta e Novanta hanno richiamato l’attenzione è quella economico-sociale. Quest’attenzione non è di per sé in contrasto col quadro teorico della Landscape Ecology, che da C.Troll,1939, a Naveh, Forman, Godron e altri, fa riferimento esplicito alla presenza e all’azione dell’uomo (“nessun ecosistema potrà essere studiato senza fare riferimento all’uomo”, per McHarg,1981, p.110; e parole ancora più esplicite usavano Giacomini e Romani, 1982, p.59, affermando la necessità di “estendere i principi di tutela della risorsa naturale sino alle zone più antropizzate e di coinvolgere sempre più gli uomini nella conservazione della natura” (...) “mediante un processo integrato fra conservazione, ripristino delle espressioni naturali e programmazione delle attività umane”). D’altra parte non ci sono ecosistemi che non risultino almeno in parte modificati dalla cultura umana (Schama, 1995). Ma, prescindendo da certe pretese ambientaliste di distinguere il landscape dal “manscape” (cioè dal paesaggio umano), sarebbe difficile rintracciare nella maggior parte dei piani e delle ricerche basate sulla Landscape Ecology quell’attenzione per i processi sociali e produttivi che la gestione del paesaggio nella prospettiva dello sviluppo sostenibile comporta. In questa prospettiva, il terreno da esplorare - con strumenti più appropriati d’analisi - è quello che riguarda quell’intreccio complesso di interazioni e riverberazioni tra le dinamiche economiche e sociali ed i processi di trasformazione paesistica, che costituiscono lo “zoccolo duro” della questione paesistica. Un intreccio che investe le dinamiche globali: vedi ad esempio le preoccupazioni emerse a livello europeo per la scomparsa dei “paesaggi di piccola scala”- come i “bocages”, gli “hedgerow landscapes”, le nostre colture promiscue ecc. - sotto l’urto della modernizzazione e dell’industrializzazione agricola, assecondata dalle stesse politiche comunitarie (Ministry of Housing, the Netherlands, 1989). Ma l’intreccio si presenta in forme ancor più acute nelle dinamiche locali: come difendere il paesaggio delle Cinque Terre senza l’agricoltura? Come salvaguardare la diversità paesistica delle Alpi senza mantenere e rinnovare le attività agricole e pastorali? Come riqualificare i paesaggi peri-urbani senza intaccare gli attuali modelli d’uso dello spazio e del tempo? Sembra impossibile una tutela paesistica minimamente efficace se non si riporta al centro il ruolo dell’uomo in quanto “produttore” di paesaggio e non si affronta la separazione storicamente intervenuta tra il “produttore” e l’“abitante”. Se la tutela e il progetto di paesaggio si pongono a rimorchio dei correnti modelli economici e produttivi e delle loro tendenze evolutive, c’è anzi il rischio che si riducano ad un’azione “cosmetica”, decorativa (il “landscaping” stigmatizzato da Steiner, 1998, come figlio “bastardo” dell’architettura del paesaggio), concorrendo in fondo al consolidamento di quegli stessi modelli e di quelle stesse tendenze. Il problema è particolarmente evidente nel caso dei paesaggi agrari, sia in quanto paesaggi tipicamente “edificati” (vale a dire modellati dall’azione antropica in funzione di modelli e programmi precisi di utilizzazione colturale, secondo l’espressione che già il Cattaneo adoperò a metà del secolo scorso), sia in quanto particolarmente esposti ai cambiamenti strutturali degli scenari economici e sociali. Ma il problema è di portata generale: basta pensare alle aree turistiche (dove il turismo può rappresentare l’attività economica basilare per pagare le attività manutentive e consentire la sopravvivenza delle culture locali e, nello stesso tempo, la sorgente principale degli impatti ambientali e del degrado paesistico) o alle aree di antica industrializzazione da recuperare e bonificare: la radicale trasformazione paesistica avviata dall’IBA a Emscher Park nel cuore della Ruhr ha la sua chiave di volta nella promozione di un insieme complesso ed articolato di operazioni economiche, sociali e culturali.

 

2) La seconda dimensione del paesaggio di cui si avverte la crescente importanza riguarda gli aspetti storici e culturali. Anche questi non comportano, in linea di principio, ragioni di contrasto con la teoria e la ricerca ecologica, che hanno da tempo posto in risalto quanto la struttura e il funzionamento degli ecosistemi dipendano dalle vicende pregresse; d’altra parte la stessa prospettiva ecologica, nel pensiero di studiosi come Bateson o Lorenz, si dilata ad abbracciare anche i processi culturali. Tuttavia, non è certo nell’ambito della Landscape Ecology che si riscontrano i più promettenti sviluppi teorici e metodologici riguardanti questi aspetti, che anzi per alcuni (Romani, 1994) vanno ritenuti affatto estranei all’analisi ecologica. Il contributo della storia e della geografia storica si è rivelato per contro fondamentale soprattutto nel caso dell’Italia e di altri paesi europei, i cui paesaggi sono direttamente fondati sulla storia abitativa e su processi complessi di acculturazione (“memorie in cui si registra e sintetizza la storia dei disegni territoriali degli uomini”, come diceva il Sereni, 1961), indipendentemente dal fatto che l’uomo sia tuttora presente. Lo scavo dei palinsesti territoriali coi metodi dell’archeologia del paesaggio (Sereno, 1983) consente di portare alla luce i tratti profondi, le geometrie latenti, le regole trasformative dei testi paesistici, mentre la prospettiva storica illumina i processi soggiacenti, quel che non si vede e che è spesso più importante di ciò che è immediatamente afferrabile con lo sguardo (Gambi, 1961). D’altra parte il significato culturale del paesaggio - esplicitamente richiamato dalla Risoluzione del Consiglio d’Europa - va al di là delle sue stesse ragioni storiche. Non soltanto perché “anche i paesaggi che crediamo più indipendenti dalla nostra cultura possono, a più attenta osservazione, rivelarsene invece il prodotto”, ma anche perché, più in generale, la tradizione comune del paesaggio “è costruita su un ricco deposito di miti, memorie ed ossessioni” (Schama, 1995). I contributi dell’antropologia culturale, della sociologia ambientale e della geografia umanistica, che implicano “il definitivo superamento, nella cultura europea, della tradizionale contrapposizione tra mito e logos” (Quaini, 1992), si ricollegano peraltro al pensiero fondativo del paesaggio geografico, secondo il quale “per abbracciare la natura in tutta la sua sublime maestà non basta attenersi ai fenomeni esterni, gli è d’uopo mostrare com’essa si riverberi all’interno dell’uomo e come in virtù di questo riflesso essa talora popoli di leggiadre immagini i campi caliginosi dei miti, talaltra sviluppi il nobile germe delle arti” (Humboldt, 1860, II, p.2). È da allora che il significato culturale del paesaggio va colto in riferimento non soltanto alla “sentina fabularum” costituita dalle opinioni e dalle concezioni del mondo che precedono ed orientano l’esplorazione e la ricerca, ma anche al rapporto dinamico e continuamente rinnovato tra la ricerca e l’invenzione (il Nuovo Mondo propriamente “inventato” da von Humboldt nel quadro della cosmografia coeva). È in questa larga accezione che va inteso anche il pensiero di Simmel (1912) per cui “il paesaggio non è ancora dato quando cose di ogni specie si estendono, una accanto all’altra, su un pezzo di terra e vengono viste immediatamente insieme”, ma è “un vero e proprio processo spirituale che solo trasforma tutto questo e produce il paesaggio”. O in altre parole è questo il significato pregnante di espressioni come quella secondo cui “ogni paesaggio è un’elaborazione culturale di uno specifico ambiente naturale” (Sereno, 1983), o come quella secondo cui i paesaggi sono natura adattata dalla cultura (che a sua volta è natura umana modificata dalla tecnologia: Steiner, 1998).

 

3) Questo ci accosta ad una terza dimensione del paesaggio, quella semiotica ed estetica, che, del tutto assente dall’analisi ecologica, è forse quella su cui si è registrato negli ultimi anni un più vivace risveglio d’interesse. Se si riconosce il ruolo culturale del paesaggio - di ogni paesaggio, indipendentemente dalla qualità dei suoi contenuti culturali - è perché lo si considera come un processo di significazione (Barthes, 1985) e, quindi, come un fenomeno di comunicazione sociale (Eco, 1975). Di per sé, il riconoscimento del ruolo culturale e della funzione estetica del paesaggio non è certo una novità. Il paesaggio occupa infatti un posto di rilievo nella storia dell’arte (Clarck, 1976) e persino le sue descrizioni più primitive, come i graffiti preistorici, sono state interpretate come espressioni artistiche ed insostituibili testimonianze “culturali” (Jellicoe, 1987). In particolare in Italia l’assimilazione crociana delle “bellezze naturali” alla bellezza artistica, nell’unicità della comunicazione poetica, è alla base della legislazione di tutela paesistica (L.778/1922, L. 1497/1939) che, con le successive integrazioni, è tuttora in vigore. Ed anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, soprattutto a partire dagli anni Settanta, l’interesse per i valori estetici del paesaggio (o più precisamente per quelli “scenici” o visivi) ha stimolato una vasta produzione di piani e di ricerche. D’altra parte la consapevolezza dell’irriducibilità del giudizio estetico nella comprensione paesistica si inquadra in quel “ritorno all’estetica (verso una scienza che conservi i valori)” (Tiezzi, 1998, p.19) che ha da tempo assunto un significato assai più vasto.

Ma l’interpretazione semiologica del paesaggio (per quanto ancora “timida e temeraria”: Barthes, 1966) pretende molto di più. Se infatti si riconosce il duplice fondamento - naturale e culturale - dell’esperienza paesistica, occorre anche riconoscere che il sistema segnico costituito dalla sostanza sensibile del paesaggio non può in alcun modo tradursi in un insieme “dato” di significati: la semiosi paesistica è un processo sempre aperto (Dematteis, 1998). Un processo tanto più aperto in quanto le dinamiche trasformative staccano i segni dai loro significati originari, allargando progressivamente gli spazi d’ambiguità delle trame storiche (Olmo, 1991) su cui si costruisce l’esperienza paesistica, accentuando il distacco tra le tracce e il progetto (d’altronde, come nota Derrida, 1998, citato in questo stesso volume da Isola, “la traccia si rapporta a ciò che chiamiamo il futuro non meno che a ciò che chiamiamo il passato”). La dinamica delle cose - l’ecosfera - è inseparabile dalla dinamica dei significati - la semiosfera - e quindi dai processi sociali in cui questa si produce (Dematteis, 1998). Ma, se questo è vero, allora il paesaggio non può essere quello, cognitivamente perfetto (Socco, 1998a), che le scienze della terra tendono a proporci. Esso è spazio di semiosi aperta, non racchiudibile nelle semiosi scientifiche delle varie discipline. La sua complessità si manifesta, ben prima che nella pluralità dei contenuti, nell’insopprimibile apertura dei processi di significazione che riesce ad attivare, nella molteplicità ed imprevedibilità degli approdi semantici. È in questa dinamica apertura che si collocano e debbono essere indagate le sue funzioni simboliche e metaforiche, i suoi depositi mitici e memoriali, le sue funzioni narrative e le sue funzioni propriamente estetiche. È in questa direzione che alcune stimolanti equazioni ancora recentemente proposte acquistano forse più preciso significato. Così, se il paesaggio è teatro (Turri, 1997), non è tuttavia un teatro “dato”, con le sue scene fisse e i suoi fondali immobili, dove soltanto gli attori e gli spettatori possono cambiare; l’autorappresentazione, che consente agli attori locali di “prendere le distanze” dalle vicende rappresentate diventando spettatori di se stessi, ricostruisce continuamente il teatro stesso o almeno il significato che esso assume per chi partecipa in vario modo all’azione teatrale. Così anche, se “il paesaggio è natura che si rivela esteticamente” (Ritter, 1994), la contemplazione estetica che ci consente di definirlo (Isola, 1998) non può tradursi né in una chiusura autistica e solitaria (che isolerebbe l’esperienza individuale dal processo di significazione e dai suoi rapporti coi processi sociali del contesto), né in un rito preordinato ed in qualche modo imposto, come nei modelli stereotipati della fruizione turistica.