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L’abbandono e i piani per il governo del territorio

Indice

 

L’abbandono agente per l’economia, l’abbandono agente per la cultura

L’abbandono in termini economici comporta una nuova disponibilità del bene, pronto ad essere utilizzato come risorsa per nuovi progetti anche in base al suo basso costo, ma se questo vale per un bene naturale (ad esempio un frammento di ecosistema, o una risorsa mineraria), non vale per una risorsa culturale: se si abbandona un know how territoriale si tratta di una perdita secca: il nuovo uso deve affidarsi ad un know how del tutto nuovo, e nel sistema culturale della comunità la perdita non è compensata da nulla.

Quindi un abbandono nel sistema culturale provoca le condizioni per un evento rivoluzionario, per un cambiamento brusco, che nel tempo si memorizza come una cicatrizzazione di cui non si ricompone il tessuto.

D’altra parte anche l’economia è trattenuta dalla cultura: il nostro sistema, che non contempla l’abbandono e men che meno lo contempla come passaggio trasformativo per nuovi modelli di sviluppo, àncora il bene ad un regime di proprietà che dura indefinitamente, indipendentemente dall’abbandono. Ciò deriva da un vizio originale nel sistema giuridico della proprietà, che non riconosce la quota di proprietà naturale da assegnarsi alla comunità che ha partecipato a creare il valore e che dovrebbe riprenderlo una volta terminato l’uso.  In ogni caso la nostra legislazione rende molto difficoltoso ogni riuso dopo l’abbandono sopratutto per la difficoltà di relazione con i proprietari giuridici, che spesso sono irreperibili o difficilmente distaccabili dalla mera proprietà del bene.

Tutto ciò in termini disciplinari e di governo del territorio non si può fare senza progetto, e questo comporta il governo del paesaggio, cioè della relazione tra territorio e percezione che se ne ha da parte della comunità.[1] E’ a partire da questa percezione, avvalorata dalla consapevolezza delle vicende di abbandoni e riconquiste che hanno plasmato il paesaggio,  che si devono recuperare i proprietari culturali e quindi quelli operativi delle risorse.

Solo attraverso un riconoscimento della proprietà culturale delle risorse, che dura molto al di là degli abbandoni delle pratiche e degli usi, si può discuterne le loro prospettive di valorizzazione:  nel loro utilizzo tradizionale, se è possibile recuperarlo in termini innovativi, e se no con nuovi usi ma compresi nel perimetro delle capacità culturali del territorio, entro il senso del paesaggio complessivo di chi si riconosce in quel territorio.

Tutto ritorna al tema iniziale, del riconoscersi, del comprendere l’identità collettiva anche dentro processi di abbandono.

Nel tema del riconoscimento c’è il tema del perdono (ancora con Ricoeur [2]).  Senza perdono la storia non può essere raccontata, è tesi e deformazione.   Il perdono è parte essenziale di ogni ri- (-conciliazione, -conoscimento, ma anche -voluzione)

Il piano non può che prevedere un governo pacifico del territorio, e questo non  può che venire da una pratica culturale ed economica di perdono, di accordo “nonostante”, di capacità di dimenticare gli squilibri accumulati. In tutto questo l’abbandono è essenziale: si tratta di abbandono anche delle pretese iniziali, del progetto, necessario per poter riconoscere davvero il territorio quale è, oggi, in atto.

 


[1] un riferimento per il nuovo ruolo “politico” del paesaggio: la definizione della Convenzione europea del paesaggio (2000): "Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.

[2] cfr. Paul Ricoeur, 2000, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato (Ed it. il Mulino, 2004)


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