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L’abbandono e i piani per il governo del territorio

Indice

Studiare l’indotto dai processi di abbandono

 

E’ evidente che queste considerazioni hanno senso se sono relative ad una logica che ritaglia il territorio indifferenziato ed esteso, ponendo al centro dell’attenzione il livello locale, quello in cui  si riconosce come unità di riferimento ciascuna regione dotata di una consolidata identità socioculturale. Ugualmente dobbiamo sottolineare la relatività del tempo a cui facciamo riferimento: abbiamo a cuore il livello “sociale” della storia, che riconosce quei processi interattivi, ricchi di ritorni e bilanciamenti che Braudel colloca nel mezzo tra la storia “geografica”, dell’ecosistema e delle sue inerzie millenarie, e la storia “biografica”, dei singoli eventi, soggetta agli accidenti, alle ingiurie o alle fortune del tempo breve, breve anche se talvolta vissuto da un uomo per intero in modo sbilanciato, senza riequilibri e contrappassi. [1]

L’abbandono può essere un evento traumatico in una storia biografica (è spesso così), mentre può costituire di fatto una “crisi di crescita” nella storia sociale di una regione, fino ad essere irrilevante nel tempo “geografico” dell’ecosistema generale.

Dunque, in una dimensione locale e di storia sociale, invece che pensare l’abbandono come una malattia di un corpo sano, forse è più utile provare a trattarlo come una fase organica sempre presente nelle dinamiche vitali: l’espirazione che bilancia l’inspirazione nel respiro del territorio.

Serve proseguire per qualche tratto la metafora del respiro, perchè svela la parzialità dei nostri approcci operativi, fondati su una cultura della sola inspirazione, della polarizzazione e della gestione di energie e di risorse concentrate: sino ad oggi il target del piano è l’amministrazione del territorio a partire dal polo produttivo, dal centro cittadino, dal nodo infrastrutturale.  Tutto cambia, per il pianificatore, se si pone come obbiettivo la valorizzazione del territorio come luogo investito da ritmi di funzionamento organici, dove contestualmente agiscono e si riequilibrano processi di abbandono e di concentrazione. Solo così il target del piano diventa finalmente l’amministrazione del territorio nel suo complesso, e comprende, accanto alle strategie per il potenziamento, la gestione degli insopprimibili (perchè vitali) processi di abbandono di attività o località.

Ciò non significa comunque “abbandonarsi all’abbandono”, ma valutare i processi, entro una base sociale locale consapevole non solo delle singole risorse ma del sistema integrato di cui dispone, delle sue dinamiche interne necessariamente squilibranti e degli equilibri da ricostituire continuamente tra stabilità e innovazione.

L’abbandono può essere gestito come un processo strategicamente positivo se comporta ricadute locali in termini di maggiore libertà di riuso delle risorse: quello che accade ad esempio con la fine di grandi proprietà unitarie – vissuto come abbandono da parte di famiglie storiche - a vantaggio di una maggiore ripartizione e di un allargamento della base sociale. Se al contrario l’abbandono comporta espropriazione della capacità d’impresa locale (a vantaggio di estranei) e conseguente perdita delle relazioni tra i luoghi o le attività abbandonate e il resto della rete socioeconomica del territorio, allora il processo porta ad una diminuzione dell’autonomia, delle potenzialità di sviluppo della rete locale e, probabilmente, alla lunga, della qualità della vita.  Ovviamente i processi reali si collocano in posizioni complesse situate tra i due precedenti estremi esemplari.

 


[1] cfr. Fernand Braudel, 1949, la memorabile prefazione di Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II,(tr.it. 1953 Einaudi)