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L’abbandono e i piani per il governo del territorio

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Lo sviluppo locale: promoveatur ut amoveatur?

Se davvero la modernizzazione misconosce l’abbandono, ne ha rimosso il linguaggio e le dinamiche, allora non possiamo aspettarci alcunché di positivo dagli strumenti della pianificazione, almeno sinché sono orientati da un’ideologia del moderno partigiana ed esclusiva, che preclude ogni atteggiamento sistematico ed olistico nei confronti del territorio e un quadro di obbiettivi orientato all’equilibrio.

Piuttosto che disegnare un quadro di riferimento equilibrato si prospetta, propagandisticamente, una soluzione felice, di magico sviluppo simile per tutti. Dove si è costretti a fare i conti con le capre e con i cavoli contemporaneamente, quando il cambiamento comporta che una parte del territorio si modernizzi e l’altra parte rimanga nello stato precedente, si sottintende sempre che prima o poi una scialuppa di salvataggio verrà a soccorrere la parte rimasta. E’ la vaga promessa che sottende molti programmi di “sviluppo locale”: non ti preoccupare, tra poco potremo dare anche a te, borgo in abbandono, una piccola zona industriale, un impianto di risalita, un villaggio turistico.

A fronte di un modello unificato di utilizzo delle risorse, la gran parte delle iniziative guidate per lo sviluppo locale nelle aree “arretrate” finiscono per assomigliare ad un bonsai delle trasformazioni spontaneamente attivate nei capoluoghi. In questo modo si rende capillare e pervasiva la rottura dei sistemi territoriali consolidati e si accelera un percorso di rinnovo dell’assetto territoriale in cui sono presenti mille processi di abbandono.

Se le residue energie e capacità di iniziativa vengono convogliate su attività e su modelli di uso delle risorse omologati dal modello urbano-industriale (o post-industriale), con episodi isolati, all’inizio anche vivaci ma quasi del tutto indifferenti alle specificità delle risorse locali, si promuove una fase di nuovo sviluppo ma si rimuove il localismo. Il territorio rimane abitato, i processi di abbandono anche se incidono sempre più comunque non risultano coprenti, ma il nuovo assetto perde le relazioni interne tra le parti, si sgretola il sistema consolidato di utilizzo delle risorse, radicato nelle specificità locali, che rendeva resiliente il modello di sviluppo precedente.

Se il quadro di riferimento territoriale non viene più considerato l’incubatore, il brodo di coltura delle iniziative individuali, alla prima crisi queste trovano come unica via di salvezza il salto sulla scialuppa delle produzioni di merci e di servizi omologati: pensano di salvare le loro imprese inserendole nelle reti globali e perdono le reti locali, la patria che le ha sino ad allora protette.

Si produce così quella tragica traiettoria che segna tante storie di imprenditori: stentata crescita radicata sul territorio e con produzioni modeste quantitativamente ma di eccellenza per qualità, improvvisa notorietà accedendo ad un mercato globale che apprezza la qualità, domanda crescente e insostenibile di produzione di qualità con ricavi altissimi, ristrutturazione del ciclo produttivo in funzione della dimensione della domanda con progressivo distacco dal territorio e assestamento della qualità su livelli standard, progressiva dipendenza dal mercato con fragilità del modello produttivo e rischio di crisi, al momento della crisi: abbandono delle localizzazioni tradizionali ed eventuale rilocalizzazione in altri territori con adattamento delle produzioni.

Per essere inseriti nel processo di sviluppo omologato bisogna essere disponibili a sradicarsi dal territorio: se fosse un processo voluto in qualche centro di potere si direbbe promoveatur ut amoveatur.