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L’abbandono e i piani per il governo del territorio

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L’abbandono nel vocabolario del politico territoriale

Così, recentemente, l’abbandono è entrato di forza nel vocabolario di ogni amministratore locale, non solo di quelli di montagna o delle regioni sottosviluppate. E quando il sindaco (o il presidente di regione) si è rivolto al tecnico pianificatore per trovare rimedio all’infida fragilità del territorio, si è svelata l’impotenza degli strumenti di governo, l’assenza di strategie di fondo e di tecniche adeguate quando si debba fronteggiare non la pressione della trasformazione ma il calo delle forze, l’assenza delle iniziative, il degrado connesso al sottoutilizzo delle risorse e non all’usura da sovraccarico.

Numerose analisi sistemiche delle dinamiche territoriali hanno rivelato, già da oltre un secolo, che l’imponenza dei processi di abbandono è il contraltare dell’irruenza dei processi di centralizzazione, comportati da industria e crescita delle città. La geografia racconta la storia: le energie e le risorse per fare città e industrie non nascono dal nulla ma dal drenaggio di risorse ed energie diffuse, forse a bassa efficienza ma comunque presenti sul territorio.

A tutto ciò la pianificazione non si è opposta ma anzi ha incentivato i devastanti effetti di “pianurizzazione” nelle valli, e in pianura si promuovono tuttora le altrettanto forti concentrazioni lungo gli assi (o meglio i nodi) di trasporto, premessa e conseguenza della progressiva mobilità delle merci e delle persone. Sino al capolinea attuale, quando la potenziale rilocalizzabilità di ogni attività in un nodo qualsiasi, in una rete isotropa e indifferente e in un orizzonte di globalizzazione, fa di ogni insediamento la premessa per il suo abbandono.

Nel tempo il processo si è frantumato come un frattale: non investe più solo il nord e il sud del mondo e delle nazioni: da intere regioni abbandonate si è passati ad ambiti devitalizzati sempre più prossimi e mescolati ad episodi puntuali o assiali di sviluppo. Così, in un’Italia fatta di insediamenti diffusi, storicamente pertinenti a mille microregioni, si è ridisegnata dall’interno la geografia delle forze e delle debolezze in gioco, delle polarizzazioni e delle relative marginalità: una rivoluzione regionale, attiva da oltre un secolo, che oggi si rivela in mille rivoli di flussi dialettici di attività, accentuando la violenza dei contrasti compresenti nel raggio di poche centinaia di metri.

Dato questo lungo e patente processo, appare colpevole la disattenzione della pianificazione italiana rispetto al versante “maudit” dello sviluppo novecentesco, che ormai si situa nell’immediato “retro” dei territori metropolitani, portando l’abbandono nel paesaggio ancora tormentato delle periferie, con effetti di risulta non previsti e soprattutto non desiderati.

Ma la deficienza forse è anche più grave: il vuoto della pianificazione sui temi dell’abbandono non pare dovuto ad una leggerezza culturale e del sapere tecnico-scientifico (che in una accolita di intellettuali responsabili è già una mancanza grave) quanto piuttosto sembra trattarsi di una aporia etica e di una debolezza strategica, tipiche della modernità.

Dalle indagini di sociologi come Tournier, Galimberti o La Cecla [1] emerge che se ci guardiamo con un po’ di distacco, con occhio da antropologo, ci accorgiamo che il moderno non ha liturgie per gli addii, per le separazioni, che ha rimosso la morte.  In un mondo che attribuisce all’innovazione valore aprioristicamente positivo, che guarda solo in avanti, al “dopo”, è quindi per lo meno sospetto il silenzio, l’assenza di cure, almeno rituali, per ciò che resta del “prima”, dopo l’atto, sempre drammatico, del cambiamento.

 


[1] cfr .Alain Touraine, 1992, Critica della modernità, Paris, Fayard (tr.it. 1993, Saggiatore); Umberto Galimberti, 1998, Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica, Milano, Feltrinelli,

Franco La Cecla, 2000, Perdersi.L’uomo senza ambiente, Bari, Laterza, .

Franco la Cecla, 2003, Lasciami. Ignoranza dei congedi, Milano, Ponte alle Grazie