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L’abbandono e i piani per il governo del territorio

Indice

Il piano nega l’abbandono - L’abbandono nel vocabolario del politico territoriale - Lo sviluppo locale: promoveatur ut amoveatur? - Difficile riaccendere i motori - L’abbandono come fase organica del processo territoriale - Studiare l’indotto dai processi di abbandono - Dal racconto al governo dell’abbandono - L’abbandono agente per l’economia, l’abbandono agente per la cultura

Il piano nega l’abbandono

Nel vocabolario del pianificatore non è previsto il termine “abbandono”. Talvolta, recentemente, si pone attenzione alle “aree abbandonate”: si interviene cioè a posteriori, quando l’evento dell’abbandono, trascurato nel suo svolgersi, lascia le macerie, i residui privi di vita. Come becchini.

Forse questa inettitudine a leggere e trattare del processo di abbandono dipende dal periodo storico in cui la pianificazione ha preso consistenza come strumento di governo: la seconda metà del ‘900, a fronte dell’impellenza di processi trasformativi, pervasivi di tutto il territorio, provocati dalla diffusione industriale, delle infrastrutture e dell’urbanizzazione.

La pianificazione ha tentato di cavalcare la tigre di quella modernizzazione, sino a ieri si è occupata solo di sviluppo urbano, senza tener conto della complessa struttura territoriale che si andava squilibrando. Soprattutto i piani non hanno assunto come postulato quello che oggi pare ovvio: per indirizzare i processi in un orizzonte di riequilibrio dinamico, occorre governare le tensioni sia della parte in pressione che della parte opposta, in depressione.

Ma non si è trattato solo di cavalcare dinamiche di squilibri regionali: in generale non si è mai tenuto conto della violenza dei processi di abbandono, nè quando questi hanno investito le periferie delle province, le terre da sempre meno produttive e più marginali, nè quando l’abbandono ha devastato i centri sociali e produttivi. E non c’è scusa neppure rispetto alla durata dei processi: si sono trascurati fenomeni con tempi di accumulo epocali, come accade per l’agricoltura montana, ma ci siamo anche trovati i centri storici, luogo consolidato dello sviluppo culturale e delle rendite economiche, svuotati e dimenticati nel giro di una generazione (quella del dopoguerra). Ancor più storditi i pianificatori di fronte alla fulminea dinamica di abbandono delle attività produttive, allo svuotamento degli addetti dalle aree industriali, alla volatilità dei centri del lavoro che caratterizza tante città in questi ultimi anni.


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