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Il paesaggio di Corona Verde (1). Lo sguardo dei cittadini

Indice

Nuove tipologie dello sguardo sul paesaggio: i paesaggi percorsi dai torinesi, i paesaggi dei contrasti locali, i paesaggi senza padrone

Dunque non pare che le trasformazioni vengano percepite come produttrici di un nuovo “stato” consolidato dei luoghi, ma semmai solo come una situazione di conflitto in atto, di un assetto transeunte in cui ci si abitua ad abitare come ospiti, spettatori impotenti ma non per questo flessibili nelle proprie categorie interpretative. Anzi, se città e campagna resistono come coppia di categorie strutturali nel giudizio comune, sembra che nella cultura degli abitanti della Corona verde sia soprattutto l’immagine della campagna a restare solida, intatta al di là delle trasformazioni in atto.

Sino a pochi anni fa si trovava solo l’agricoltore, in ambigua dialettica con il costruttore (locale o venuto dalla metropoli, poco importa), entrambi soggetti produttori del territorio, a rappresentare nel senso del paesaggio non solo gli interessi ma anche le due mentalità tra città e campagna. Oggi la distribuzione degli abitanti urbani su un vasto territorio di cintura, la complessa mobilità metropolitana e la riduzione della cultura rurale, da dominante ad una appartenenza marginale e minoritaria, spezzano il dualismo e fanno avanzare nuovi modelli culturali di fruizione.

La progressiva distanza dagli strumenti produttivi, direttamente incisivi sulla sostanza del paesaggio, rende il nuovo fruitore del paesaggio metropolitano sempre meno influente sulle trasformazioni fisiche, ma non per questo meno resistente alle derive di senso e all’irrompere di nuovi significati attribuiti ai luoghi. L’assetto della cultura del paesaggio sembra durare di più delle colture e degli usi urbani del territorio, almeno nei suoi stereotipi e nella sua retorica di dialettica tra città e campagna.

Se città e campagna continuano ad essere i riferimenti concettuali fondamentali del senso del paesaggio torinese, semmai si stanno modificando le tipologie dei “proprietari culturali” dei paesaggi aperti nell’area metropolitana. Certamente va considerato il formarsi di nuove appartenenze socioculturali, che generano modi di percepire il paesaggio, almeno tre sguardi relativamente diversi, seppure nel quadro delle categorie strutturali di città e di campagna:

  1. lo sguardo spiccatamente urbano, che percorre il territorio periurbano come lungo le aste di una rete, piuttosto che abitarlo e conoscerne le estensioni. Si tratta di un fruitore mobile, che, mutuando la definizione di "city user" [1], potrebbe essere definito un "country user". La disattenzione lungo il percorso tra un nodo e l’altro e la superficialità dello sguardo metropolitano sul paesaggio minuto e di dettaglio lungo il percorso derivano sia dalla prevalenza della fruizione dal parabrezza di un’auto in corsa o alla sosta casuale rispetto al contatto diretto e consapevole, sia dalla distorsione spaesante dei panorami che si mostrano dalle nuove infrastrutture tracciate nel “retro” dei quartieri urbani, squarciando e rendendo irriconoscibili trame colturali secolari.
    Nell’impoverimento della sintassi dei segni paesistici percepiti bastano pochi filari d’alberi o una cascina isolata in un campo a segnare l’uscita dalla città, come accade a chi percorre l’innesto verso sud della tangenziale di Torino. Viceversa la città si offre all’improvviso, con le sue mura, le sue fabbriche e le sue torri, a chi viene lungo l’autostrada da nord. Verso ovest la città è ormai sistema di segni incontrastati sino al bordo pedemontano, dove improvvisamente cede alle figure seminaturali della serra di Rivoli e dei versanti della Val di Susa, così come verso est i boschi della collina coprono di un pudico senso di naturalità il panorama, limitando un po’ dal centro di Torino la percezione del diffuso “svillettamento” che ne fanno di fatto un quartiere urbano.
    Nonostante la superficialità dello sguardo di viaggiatore, il "country user" è spesso portatore di seri interessi ambientali o culturali, avanza sul territorio metropolitano come un turista a casa propria, generando in molti casi quei flussi di curiosità che sono gli unici a valorizzare una risorsa localmente trascurata, a rivitalizzare un ambito dimenticato, a riconnettere in rete sistemi di segni in abbandono, a ridare motivo di manutenzione del territorio all’agricoltore e al sindaco del paese, con la sua domanda di immagini di campagna che va costituendo un mercato, un valore di paesaggio privo ormai di altri apprezzatori;
  2. lo sguardo di nicchia, confinato nei microcosmi locali e segnato dai contrasti, da percezioni isolazioniste del mondo, in cui talvolta il paesaggio percepito quotidianamente e consolidato nella memoria assume un ruolo fondamentale. La realtà locale costituisce spesso una sorta di isola di resistenza in culture in cui il resto delle possibili esperienze dirette si va sempre più riducendo e le opinioni generali derivano sempre più da una sfera ideologica inattingibile, separata e virtuale come gli universi televisivi. Quasi sempre un rapporto molto intenso ed esclusivo con il paesaggio locale è parte di una weltanschaung tendenzialmente conservatrice (ma in qualche misura ingenua, proprio per il ridotto orizzonte del campo di attenzione), che resiste alle trasformazioni imposte da modelli palesemente non autoctoni, e viceversa spesso si arrende alle derive locali, subdolamente influenzate da modelli generali e banali, di cui non è però evidente la pressione: si fanno le battaglie contro la nuova strada ma si accettano le distese di vilette.
    In quella dimensione culturale e identitaria “a riccio” la consapevolezza del senso del paesaggio, per lo più latente, si consolida ed emerge per lo più nel contrasto ai progetti trasformativi, facendo prendere corpo alle attenzioni su temi ambientali e facilitando l’identificazione collettiva di problematiche territoriali che sono lasciate normalmente ai margini del dibattito politico locale. In ogni caso la modesta dimensione degli ambiti territoriali di interesse, se da un lato agevola i processi identitari, dall’altro riduce la potenzialità di una integrazione con lo sguardo “metropolitano” sopra descritto, e anzi favorisce gli antagonismi locali e la difficoltà del dibattito sulle problematiche generali e di rete. Nell’hinterland di Torino questa situazione è potenzialmente diffusa, soprattutto dove la diversità paesistica agevola la formazione di identità locali: nell’area pedemontana (la polemica sulla Tav insegna...) e in quella collinare, vicino alle vaude, lungo il Po;
  3. lo sguardo residuale, prodotto dalla riduzione della cultura produttivistica del territorio rurale, che lascia scoperti ampi spazi, coltivati in modo marginale, in parte in via di naturalizzazione, per i quali si forma un “limbo identitario”. Per questi ambiti di “terre di nessuno“ vanno in disuso e decadono gli statuti collettivi delle proprietà culturali riconosciute dalle comunità locali e prendono piede usi e appropriazioni particolari, talvolta privatizzanti e al limite del clandestino, altrove sperimentali e aggreganti gruppi di aficionados. In quest’ultimo caso con le nuove attività si innesca una dinamica culturale di riappropriazione che, a partire dal paesaggio, forma nuove comunità di fruitori. Sono processi identitari di piccoli numeri, che attecchiscono in luoghi molto particolari (lungo i corsi d’acqua, in vallette pedemontane o collinari, a ridosso di grandi complessi industriali), spesso riparati dalle dinamiche trasformative dirette e dagli sguardi sia del fruitore metropolitano che di quello locale. Solo raramente gli spazi residuali che ospitano questi processi sono immediatamente ai margini della città (avviene in qualche caso di orti “urbani” autogestiti). Invece quasi in ogni caso i nuovi “proprietari culturali” di quei paesaggi vanno ad ingrossare le file di quelle comunità di nicchia tenacemente attaccate al loro specifico senso del paesaggio locale, anche se non ne sono abitanti, nell’accezione normale del termine.

In conclusione le due grandi modalità di interpretazione del paesaggio periurbano aperto, quella “reticolare metropolitana” e quella di “nicchia isolata” (che sia di pura “tenuta” o sia di riappropriazione attiva del senso locale) non tendono all’integrazione ma piuttosto al contrasto e alla reciproca esclusione. Se dai centri e dalle strade maggiori è implicito uno sguardo generico e omogeneizzante, che poco percepisce le differenze locali e che richiede segni standard (o di natura o di campagna o di urbanità), dai territori emerge un’affezione al particolare, alla specifica condizione di compromissione e di possibile ricucitura, alla appropriazione di ritagli e di frammenti che possono essere messi al centro di un paesaggio di nuova identificazione, visto che quello tradizionalmente riconosciuto è ormai nel suo complesso trasformato e in esso hanno perso forza i caratteri identitari strutturali, storicamente fondanti.