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Martedì, 07 Dicembre 2010 00:00

Il Valore del paesaggio

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Indice

Dissipazione  (o valore della perdita del valore)

 

La concezione giapponese dello spazio si distingue dalla incerta definizione occidentale per la chiarezza con cui costruisce il mondo dei volumi intorno al vuoto, all'intervallo: esiste un termine preciso per designare il posto di ciò che non c'è:ma.[3] Nella prevalenza dell'intervallo rispetto a ciò che lo delimita si concentra l'intero sguardo sul paesaggio del mondo orientale. Nel nostro paesaggio lo spazio come intervallo è subito come vuoto tra tutti gli oggetti pensati (ad esempio nel sistema costruito di una città, o nell'intorno di un'opera di architettura), è sicuramente il luogo della casualità, è quello che residua, che si da' naturalmente.

Il paesaggio materiale, che sicuramente trova il suo fondamento nello spazio in cui sono immersi gli oggetti, risulta essere quindi l'insieme dei residui, degli intervalli tra le cose progettate: lo spazio del non pensato.

Qui, dove si perde il valore del progetto "solido", sembra acquistare valore la "liquidità" del paesaggio, senza forma prevista: l'ospitare uno sguardo non preordinato è la sua caratteristica, il ritrovare forme inattese la sua performance.

D'altra parte, anche senza ricorrere al confronto giapponese, non c'è fotografo di paesaggio che non si vanti di inquadrare uno scorcio insolito, di scoprire un "dietro il paesaggio", di cogliere improvvise ed effimere geometrie.

Dunque il paesaggio ospita l'ordine progettato ma nell'ospitarlo lo erode, lo rende disponibile ad altro, lo smonta: c'è una curva simmetrica in questo percorso, che dal caos indifferenziato del paesaggio fa emergere una forma ordinata, progettata, significante la razionalità umana e che poi con un processo più o meno lungo, più o meno soggettivo, più o meno materiale la scompone, la fa ritornare allo stato di traccia, di componente disponibile ad altre forme.

Apprezzare questo processo, esistente e necessario con o senza il nostro consenso, vuol dire riconoscerne le forze, i ritmi, le fasi, vuol dire riconoscerne le dinamiche ineluttabili e assecondarle: scegliere se con il proprio intervento si vuole sottolineare il processo o segnalarsi con una forma distinta ma già disposta a farsi poi erodere e risciogliere in un insieme imprevedibile.

Schematizzando ci sono due modi di agire sul paesaggio per chi ne fa la materia prima della sua espressione:

- l'artista, che segnala ciò che sfugge alla percezione ottusa dei guardanti e quindi partecipa immediatamente alla valorizzazione degli interstizi, degli intervalli, portando la novità di uno stimolo a sensi nuovi, aggiungendo valore dal punto di vista interpretativo, del paradigma, della forma del paesaggio

- l'architetto che fa un oggetto, che si inserisce nel paesaggio come materia, assume la sua velocità di trasformazione (anche se nulla cambia dal punto di vista fisico si sottopone se non altro a quel processo di omologazione del percepito che viene con l'abitudine) e si dissipa, perdendo le intenzioni iniziali, e venendo riassorbite(o non percepite) a poco a poco le connotazioni di diversità e di autonomia.

In ogni caso il valore del paesaggio sta in ogni caso nell'essere il melting pot, la madre di tutte le percezioni, il deposito di tute le architetture.

Il tema è forse ancora più avvincente: possiamo trovare nella dissipazione congenita le ragioni nel trattamento diffidente della disciplina del paesaggio da parte delle altre discipline: c'è del rimosso, c'è un atteggiamento simile a quello che si è avuto con la psicoanalisi rispetto alla medicina, forse perché il paesaggio rappresenta il campo di dissipazione dei valori autonomi dell'ambiente introducendo la soggettività e viceversa diminuisce la potenza della soggettività del progetto.

Di fatto il paesaggio scioglie in sè:

- i valori del progetto (non rivaluta le intenzioni del progetto, anzi le erode);

- i valori della natura (nasconde o ottunde i valori della natura permettendone la simulazione o la sostituzione di parti "vere" con altre solo formalmente simili );

- i valori etici (si perde il senso di proprietà anche solo culturale di chi lo ha prodotto, si sta addirittura perdendo il valore positivo dell'insider e quindi il senso di patria, di luogo di cui si ha la proprietà culturale).

Questo è un fatto epocale per il concetto stesso di valore d'uso e di valore di scambio: l'uso del paesaggio è talmente indipendente dal produrlo che lo scambio non ha più una radice forte nel costo dei fattori produttivi: cioè non conta più a fatica nel produrlo sia culturalmente (quanto hai studiato per capirlo) sia oggettualmente (quanto hai faticato per farlo fisicamente). Questa fase forse è già avvenuta nell'arte e provoca comunque esiti socialmente (e quindi culturalmente) imprevedibili.

La progressiva erosione delle parti forti del nostro pensiero progettuale (la forza testimoniale del progetto, la natura come bene non fungibile, la legittima proprietà dei luoghi in base alla loro produzione o almeno al fatto di esserne abitanti) porta alla reazione ingenua (da grida manzoniane) del proclamare divieti e norme, che quasi mai possono essere messi in pratica perché con esse si vorrebbe incidere per lo più sull'evoluzione di fenomeni culturali, nel momento sfuggente in cui avvengono.

Semmai, con le norme e le tutele, si può incidere su chi specula sulla perdita di valori per distruggere i depositi di risorse, che devono essere mantenuti a disposizione di chi in futuro li sappia utilizzare.

Ma va anche considerata l'opzione del paesaggio "liberale", da  pensare dove non si ha paura della dissipazione dei segni, dove valorizzare significa agevolare il ritorno ad un reticolo di tracce, ad un fecondo set aside del progetto costruito, ad una sospensione delle bordate di energie riordinatrici. In quei casi la valorizzazione è l'assecondare la dissoluzione delle differenze, forse attraverso un progetto , ma che certamente deve darsi strumenti del tutto nuovi, da inventare, essendo noi sgomenti e completamente ingenui rispetto al progetto degli "intervalli".

E in fondo in fondo non abbiamo mai pensato a quanto sia profondamente etica l'epica del film western in cui l'eroe, che è stato in primo piano per tutto il film, si allontana, da solo, e si fa sempre più piccolo finche non si perde nello splendido e (av)vincente paesaggio che lo accoglie e lo scioglie, mentre si staglia sullo schermo la parola FINE?

 


[1] cfr. Bagnasco A., (1993) Fatti sociali formati nello spazio. Cinque lezioni di sociologia urbana, Angeli, Milano

[2] vedi ad esempio Luzi M. (1982) Trame, Rizzoli Milano (soprattutto le pagine su Firenze), oppure la lettura delle pagine di Montale e di Sbarbaro che Quaini ha portato al seminario del 2 3 2000 a Firenze, curato da Daniela Poli, in corso di pubblicazione)

[3] cfr. Berque A.(1982) Vivre l'espace au Japon, Presses universitaries de France Paris e

Fuccello F.(1996) Spazio e architettura in Giappone, Cadmo,Firenze


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